Scuola, prove Invalsi di Michelangelo Casiraghi Inviato Speciale, 6.6.2011 Non è possibile governare un Paese tenendosi contemporaneamente al presupposto caricaturale (ma ormai diffuso nel senso comune anche di esperti e opinionisti) che siamo in presenza di scuole composte da fannulloni, da riottosi, da lavoratori che vanno richiamati all’ordine con ogni mezzo e procedura, anche illegale (come si deduce dai tanti ricorsi in materia di ordinamenti e provvedimenti scolastici vinti da sindacati, docenti, regioni o altro), ma poi pensare che iniziative che richiedono una convinta adesione e partecipazione possano risultare fruttuose. Un qualsiasi organismo di valutazione deve esser percepito, invece, anche come un meccanismo di garanzia in una qualche misura davvero “terzo” (per quanto possa esser complicato configurarlo così), non solo come un’agenzia di rating sospetta di parzialità, o come l’occhiuta diramazione di un’amministrazione centralizzata, tanto più in anni nei quali si parla ad ogni piè sospinto di federalismo, sussidiarietà, autonomia. Perché sia percepito in tal modo, e di conseguenza in tal modo siano percepite le sue iniziative, è evidente che deve saper attivare processi partecipativi: ma come può esser attivata partecipazione in un quadro che è, invece, di attacco frontale e costante alle Autonomie scolastiche, alle componenti scolastiche e alle loro condizioni di lavoro e di studio? Eppure è esattamente la partecipazione e la condivisione quella che ha dato, nei decenni trascorsi, i miglior risultati nella scuola in Europa: e gli esperti Miur e Invalsi non possono non saperlo. In UK, dove la “terzietà” della valutazione è affidata all’Ofsted – a partire dall’avvento del governo Blair – hanno visto travagli forti e iniziative altrettanto forti nel mondo della scuola, traversata da disagi non molto differenti da quelli nostri. L’Ofsted è stato prima riformato ad hoc, e poi chiamato a monitorare il sistema scolastico con una ciclicità legata alla criticità delle situazioni, rilevata attraverso una molteplicità di indicatori, dei quali gli standard e i test relativi sono solo una parte. In questo modo, è stato possibile metter sotto osservazione anzitutto le situazioni più difficoltose, per cercar di porvi rimedio. Questo processo, che è stato visto con scetticismo e anche con ostilità dai sindacati dei docenti inglesi, ha indicato contestualmente obiettivi, tempi, metodi, ruoli e responsabilità da attribuire alle diverse componenti chiamate in gioco: il ministero, i distretti, le scuole, i dirigenti, i docenti, gli studenti, le associazioni di genitori ecc. Gli strumenti di verifica e quelli di aggiornamento o “sanzione”, sono stati messi a punto contestualmente: la sanzione estrema, che poteva anche esprimersi nella chiusura di una scuola ritenuta irrecuperabile, è arrivata – dove è arrivata – alla fine di un percorso che, dapprima, ha esperito molteplici forme di sostegno alla riconversione, che consistevano anche nella dislocazione (premiata professionalmente ed economicamente) dei migliori docenti e dirigenti nelle situazioni più difficili, non nella colpevolizzazione potenziale e pregiudiziale di quelle scuole.
Ai docenti meno competenti, ne sono stati affiancati altri più
esperti, cosa consentita da una articolazione della carriera docente
che da noi non c’è ed è stata imprudentemente e fumosamente
ventilata (e in gran parte rifiutata, come sappiamo…); alle scuole
in difficoltà, sono state erogate inizialmente più risorse umane ed
economiche, nel tentativo di risollevarle; ai dirigenti non
all’altezza del loro compito, sono stati affiancati anche manager
d’azienda, oppure è stato previsto il loro commissariamento da parte
di dirigenti provati di altre scuole…. Tutto questo processo, che va avanti costantemente da decenni (ho voluto citare l’esempio inglese, ma ce ne sono anche altri, la Svezia, la Spagna….) è continuo, prevede momenti di valutazione e di autovalutazione correlati, connette l’uno agli altri gli elementi in gioco, uno solo dei quali è quello della definizione e rilevazione degli standard . E, per quanto più accurato che da noi, i suoi esiti sono sempre in discussione e sottoposti a modifiche, aggiustamenti, dibattiti, conflitti, confronti. Infatti, la questione stessa degli standard (e dei programmi) non è di poco conto, i contrasti sono forti dovunque, dagli UK agli Stati Uniti, e in particolare nei paesi dove il federalismo è sviluppato da tempo o le spinte autonomiste sono più radicate (Spagna…). Ecco, quindi, la mia considerazione finale: se anche dovessimo assumere come risultato di un processo intenzionale, e non largamente occasionale, l’aver voluto in Italia imporre tout court la prova Invalsi in questi tempi e in questi modi, sulla scorta del principio – diventato ormai pratica corrente del Miur – di metter le componenti scolastiche di fronte al fatto compiuto nella speranza di costringere così ad avviar processi virtuosi, è proprio questo approccio che non funziona. E, purtroppo, è un approccio trasversale alle componenti politiche, perché sia governo che opposizione hanno, in questo ultimo decennio, coltivato l’illusione di ridurre la “complessità” scolastica con le scorciatoie neppure di leggi, ma di circolari ministeriali o amministrative. Non funziona per tanti motivi, primo fra tutti perché è operazione che fraziona in segmenti non coerenti aspetti dell’innovazione formativa che sono invece intrinsecamente collegati (i test, il supporto all’aggiornamento e all’innovazione, la carriera docente, i contratti di lavoro, le leggi regionali ecc.), frammentando anche la percezione del senso di ciò che si persegue in coloro che si dovrebbero impegnare per conseguirlo; legittimando, infine, le reazioni più disparate e incontrollabili, la più dannosa delle quali non è neppure l’aperta opposizione, ma l’adozione indifferente, pedissequa, distratta. Se è vero che si vuole intervenire sulle ragioni dell’insuccesso formativo, il fronte da aprire è ampio e complesso, richiede lungimiranza, pazienza, progettualità collettiva. Richiede l’allargamento dell’area delle buone prassi, che è illusorio pensare possa esser imposta per norma o decreto e non grazie al sostegno all’allargamento/trasferimento della cultura e delle pratiche, appunto, che la caratterizzano. Autonomia, trasparenza, condivisione, democrazia non sono, in questo contesto, optional, sono l’essenza stessa che fonda la qualità dei processi che si intendono avviare: o ci sono, o non funziona. Può anche darsi che chi ha proposto i test Invalsi fosse animato dalle migliori intenzioni e convinto che si trattasse di un passo necessario da farsi a qualunque costo, pur di intraprendere un cammino di rinnovamento della scuola. E’ una tesi evidenziata in alcuni degli articoli citati all’inizio, che sostengono che, comunque, la restituzione anche sommaria e parziale dello stato delle cose è un presupposto per promuovere un intervento equo e corretto di ristrutturazione del sistema scolastico, che aiuti le realtà attualmente più penalizzate. Può essere, ma io continuo a ritenere che un primo passo fatto in modo improvvisato e non legato a un progetto coordinato e partecipato, sia solo un passo azzardato, che, più che iniziare un percorso, può contribuire a deviarlo o chiuderlo prematuramente. Ci sono abbastanza esperienze di buone prassi in Italia e di strumenti di possibile coordinamento tra governi, apparati nazionali, regionali, locali e strutture di progettazione/coordinamento/verifica delle scuole stesse (comitati tecnico scientifici, commissioni di studio specifiche, organismi collegiali da rivitalizzare…) che consentirebbero di immaginare qualcosa di diverso da quanto fatto ultimamente: basta volerlo fare. Sui test Invalsi s’è detto, scritto e letto di tutto, ormai. C’è un ministro che li ha difesi e impugnati a mo’ di clava, “minacciando” di introdurli nel prossimo esame di maturità (“Dal prossimo anno vogliamo estenderne l’uso portando la prova anche alla maturità, cosi’ come e’ accaduto all’esame di terza media [...] anche per mettere un freno a quell’esplosione ingiustificata di 100 e lode che si registra ogni anno con distribuzione anomala sul territorio”); e già questo minaccioso agitar un test, peraltro molto parziale, di valutazione periodica di una situazione scolastica complessa e articolata, la dice lunga su quanto uno strumento potenzialmente utile e usualmente praticato altrove possa snaturarsi alla nascita, preda di dinamiche controproducenti. Ci sono, inoltre, autorevoli studiosi e sociologi che li hanno salutati come l’avvio di una operazione meritoria di verifica, come E. Battistin e A. Schizzerotto (leggi qui) o Tito Boeri su ‘Repubblica’ (Quanto costerà ai docenti la rivolta contro i test Invalsi?, che arriva ad affermare che “Senza le informazioni offerte dai test standardizzati la battaglia contro la scuola di classe rischia di avere le armi spuntate”). Ci sono ancora altri, numerosi gli insegnanti o le associazioni che li rappresentano, che li hanno contestati duramente, come L. Tondelli (leggi qui) e Mila Spicola (leggi qui). Se si sta ai dati disponibili, il numero delle scuole e dei docenti che si sono rifiutati di sottoporvi le loro classi è, comunque, abbastanza esiguo, dunque non tale da metterli di per sé in discussione, non più di quanto abbia poco avvedutamente fatto chi li ha proposti in questo momento e in questo modo. Tuttavia, come docente, ritengo che tanto i giudizi positivi che quelli negativi sull’iniziativa abbiano un difetto, che rischia di render ancora più confusa una discussione che, già in partenza, sollecitava i contrasti e impediva il confronto: infatti, invece di separare i giudizi di merito e di metodo, si è finito per cumularli, cosa che ha fatto sì che non ci sia stata una chiamata ad una valutazione serena, ma allo schierarsi movimentato da una parte o dall’altra. Da un lato, i sostenitori dei test hanno risposto alle critiche dicendo che tutto è ok, le contestazioni sono dovute, al solito, ai docenti e alle scuole che non accettano di buon grado di esser valutate; dall’altro, chi ha criticato o non effettuato le prove, ha avuto buon gioco nell’evidenziare incongruenze palesi che ne inficiano l’opportunità, che lo ammettano o meno all’Invalsi. Che la scuola non accetti aprioristicamente di esser valutata, è contraddetto proprio dal fatto che la grande maggioranza delle scuole i test li ha fatti, e direi che li ha fatti – più che obtorto collo – subendoli con una rassegnata indifferenza, così come ha subito in questi anni una miriade di iniziative, a volte grottescamente surreali, indotte da circolari e disposizioni spesso concretamente inapplicabili ma “allegramente” emanate. Che le incongruenze nel merito siano in parecchi casi evidenti è altrettanto certo, e riguardano tantissimi aspetti, dalla effettiva indipendenza/terzietà del soggetto valutatore, all’astrazione dalle situazioni concrete e specifiche degli istituti, alla correttezza di alcuni test, che appare quantomeno incerta. Quel che mi preoccupa, tuttavia, da docente interessato a che la scuola pubblica diventi più efficiente, soprattutto nel garantire pari opportunità formative a chi la frequenta, è la risultante che deriva da queste contrapposizioni di cui soprattutto Invalsi e Miur son responsabili: la difficoltà crescente a far emergere una discussione approfondita e propositiva.
Perché, se è vero che la necessità di una qualche sistema di
monitoraggio e valutazione la riconosciamo tutti, se pur con accenti
e intenti diversi, da dove può emergere se non da un confronto
aperto sugli obiettivi, sui metodi, sulle procedure, sulle
responsabilità e i ruoli? Proprio perché chi si promette di condurre un’operazione di monitoraggio e verifica così delicata e complessa, già in partenza dovrebbe anche farsi carico della predisposizione di tutte le condizioni perché si concretizzi efficacemente e serenamente, prevedendo anche la resistenza da parte dei soggetti da verificare, se è convinto che questa resistenza ci possa essere, e non facendone la scusante delle proprie mancanze. Qui, direi, è cascato l’asino, metodologico e culturale Miur/Invalsi. L’intera operazione ha fatto astrazione da un contesto nel quale l’iniziativa dei test è venuta a sommarsi a troppe altre, che hanno ormai messo a dura prova – in tante scuole – ogni responsabile adesione ai piccoli o grandi progetti emanati e gestiti centralmente. Non a caso, gli uffici scolastici e il Miur stesso si sono ridotti sovente, quest’anno, sollecitando i dirigenti scolastici, letteralmente a questuare la collaborazione dei singoli istituti alle più varie “sperimentazioni” avviate, condotte oltretutto su scala sempre più ridimensionata proprio per i contrasti e le mancate adesioni. La managerialità dei dirigenti, non di rado e pur tra qualche protesta, si è quasi sempre tradotta in un ruolo prefettizio di banale applicazione di quanto calava dall’alto, ruolo che – oltre che svilire le autonomia – ha privato l’amministrazione centrale e locale di un primo livello di interlocuzione rappresentativa della realtà, ostacolando un confronto con essa che, probabilmente, il Miur non desidera, ma che sarebbe necessaria al buon governo, se il buon governo interessa. Di fatto, come ricordavo all’inizio, si sono invece scaricati sulle scuole autonome provvedimenti per nulla rispettosi della loro autonomia: dalle riforme generali che hanno portato non semplificazione, ma confusione, da aggiungersi ai tagli e disagi; alle circolari che settimanalmente – e spesso senza il minimo preavviso – hanno ridefinito ruoli, attribuzioni professionali, scadenze, compiti senza che vi fosse stato mai il tempo di sviluppare un confronto o una discussione, di studiarne preventivamente le conseguenze, di verificarne persino la compatibilità con altre normative vigenti. Il Miur, e le sue appendici territoriali, sono entrati nella scuola come elefanti in una cristalleria, ottenendo risultati controproducenti rispetto agli stessi obiettivi dichiarati. Un esempio per tutti: quanto è stato utile (se non a una pseudo immagine politica di aumentata severità) disporre perentoriamente una nuova normativa sui debiti scolastici che avrebbe voluto irrigidire una eccessiva permissività dei docenti, se poi ad essa non si è accompagnata una erogazione di risorse che irrobustisse la disponibilità di strumenti di recupero/sostegno? Poco, perchè in questo modo si sono, invece, inasprite le contraddizioni esistenti, senza trovar loro una via d’uscita, e le scuole e i docenti sono stati chiamati a gestire situazioni di fatto ingestibili, persino professionalmente avvilenti.
A che pro lo si è fatto? Chi è convinto veramente che, per rimediare
a gravi insufficienze in una materia, possano bastare pochissime ore
di corso di recupero annuali, in gruppi spesso affollati quanto le
classi attuali, sotto la minaccia di una esclusione se non si
recupera? E’ su questo contraddittorio modo di “governare” la scuola che bisogna accentrare l’attenzione, se si vuol comprendere pienamente i conflitti o le inerzie che la percorrono, anche nel caso dei test Invalsi. |