SCUOLA
I falsi miti che hanno oscurato il cervello Ana Millán Gasca* il Sussidiario 15.6.2011 L’anno scorso è stata pubblicata negli Stati Uniti un’edizione “commemorativa”, a dieci anni dalla prima edizione, di un piccolo libretto scritto da una studiosa cinese, Liping Ma, su un argomento all’apparenza soltanto per pochi addetti ai lavori, ossia un confronto fra la comprensione della matematica elementare da parte dei maestri cinesi e da parte dei maestri statunitensi. Eppure il libro, che in origine era la tesi di dottorato di Ma (Knowing and Teaching Elementary Mathematics, Routledge), ha avuto un grande successo, anzi è intervenuto come un grande scossone in mezzo al già accesissimo dibattito sull’insegnamento della matematica che è in corso negli Stati Uniti - al punto che si parla di “math wars” - e per un momento è sembrato mettere d’accordo tutti, sottoponendo all’attenzione pubblica una situazione veramente drammatica. La divisione tra coloro che promuovono la trasformazione radicale dell’insegnamento tradizionale all’insegna del “non lasciare nessuno indietro”, della scuola che “accoglie” e “facilita” e coloro che rivendicano invece la validità delle forme classiche dell’insegnamento della matematica (sforzo, spirito di superamento di sé stessi con un lavoro assiduo) è sembrata di secondaria importanza quando, con la sua ricerca, Ma ha messo il dito nella piaga di un problema critico del sistema educativo americano: i maestri americani (che da anni sono formati nei “college of education”) semplicemente non conoscono la matematica. Sottoponendo alcune questioni di matematica elementare - e del suo insegnamento ai bambini - ad un gruppo di insegnanti americani di esperienza ed età diversa, la diagnosi è stata impietosa: i maestri americani, pur animati dalle migliori intenzioni nei confronti dei loro piccoli alunni, hanno mostrato di non conoscere le formule dell’area e del perimetro di un rettangolo, di non sapere che l’algoritmo in colonna della moltiplicazione sfrutta la proprietà distributiva della moltiplicazione, di essere incapaci di calcolare la divisione 1(3/4):(1/2), di non avere cognizione della “rete di nessi logici” (per usare l’efficace espressione del matematico francese Laurent Lafforgue) che rende così fondamentale la matematica della scuola di base. Liping Ma è stata maestra per anni in Cina prima di laurearsi in scienze dell’educazione nel suo paese e poi ottenere il dottorato presso la Stanford University; l’efficacia della sua ricerca risiede nella sua capacità di individuare una serie di quattro “scenari”, come lei li chiama, dove si incontrano alcuni aspetti prettamente matematici (la base teorica degli algoritmi in colonna, le operazioni con frazioni e decimali, la idea di decomposizione e di rappresentazione aritmetica, le formule di aree e perimetri) con alcuni aspetti didattici (insegnare una procedura, confrontarsi con l’errore da parte dei bambini, saper collegare un concetto matematico con un esempio concreto, sviluppare nei bambini lo spirito di indagine e il “fare da sé”). Il secondo merito del libro è che l’autrice, con coraggio intellettuale in questi tempi di grandi numeri, invece di condurre un’indagine a tappeto con metodi statistici, ha avuto il coraggio di collocare un gruppo piccolo di maestri in questi scenari, porre loro delle domande e registrare la loro riflessione: sia sul versante americano, sia su quello cinese, emerge un racconto efficace e profondamente umano, che non a caso ha suscitato un grande interesse. La domanda che si pone allora, urgente, è: come rimediare una tale situazione? Può servire l’esempio cinese? Con il libro di Ma si ripropone, nel livello dei maestri, il confronto che le indagini internazionali sul rendimento degli studenti degli ultimi anni hanno stabilito tra studenti di diversi paesi, mettendo in risalto in particolare il “successo” degli alunni orientali. Tuttavia, le indagini statistiche sono inficiate da un’enormità di rischi: come sono scelte le domande dei test? Come sono preparati i bambini e ragazzi al momento di affrontare il test? Che valore ha un test per capire veramente quanto conosce e ha assimilato un allievo la matematica? L’approccio umanista di Ma apre invece la strada a una riflessione storica e culturale. Si è di fronte a un paradosso veramente notevole. Come scrive l’autrice nella sua prefazione per questa edizione, oggi può sembrare difficile crederlo, ma cent’anni fa i cinesi scrivevano i numeri usando la scrittura cinese (quindi in verticale e senza il principio per cui la posizione dei simboli indica se si tratta di unità, decine, centinaia e così via) e “facevano di conto” usando l’abaco. E fu proprio uno statunitense, il missionario Calvin Wilson Mateer, l’autore del primo sussidiario sul “calcolo con carta e penna” ampiamente usato in Cina nel periodo, a cavallo del 1900, in cui il paese abbandonò l’aritmetica tradizionale cinese nell’alfabetizzazione numerica dei bambini. Mateer scrisse un libro pensato con intelligenza per suscitare l’interesse in Cina, adattando i classici problemi “pratici” dei sussidiari di aritmetica alla vita quotidiana del paese. Nel contempo, egli usufruì della tradizione europea di alfabetizzazione numerica dei bambini, che aveva raggiunto alla fine dell’Ottocento una grande maturità. Questa tradizione deriva direttamente dall’insegnamento della matematica pratica nelle scuole d’abaco italiane del tardo medioevo, ed è un esempio straordinario di continuità culturale contrassegnata da profonde innovazioni che sono il frutto del dinamismo culturale europeo. Le innovazioni sono state portate sia dal desiderio di diffondere l’istruzione a strati sempre più larghi della popolazione, sia da una maggiore attenzione al mondo dei bambini, al loro modo di ragionare e alla loro maturazione, e infine anche da una comprensione più profonda da un punto di vista teorico della natura dei concetti di base della matematica, il numero da una parte, gli oggetti astratti della geometria dall’altra. Di conseguenza, attorno al 1900, l’aritmetica di base era considerata, oltre che un insieme di nozioni utili, una degna e fondamentale porta di ingresso dei fanciulli alla cultura. Così, la cultura matematica dei maestri cinesi, che ha tanto colpito i lettori contemporanei americani del libro di Ma, in realtà non è altro che un’eredità culturale occidentale, ricevuta dalla Cina di oggi: la “comprensione concettuale della matematica elementare”, scrive Ma, “illustra semplicemente la comprensione da parte dei maestri cinesi del sistema ragionato per l’aritmetica sviluppato da autori europei e statunitensi”. L’autrice non tenta una spiegazione del paradosso che descrive in modo così efficace. Si tratta del risultato disastroso di un’evoluzione che uno studioso europeo dell’insegnamento della matematica, Florian Cajori, buon conoscitore della scuola americana, aveva già previsto all’inizio del Novecento. Infatti, proprio nel momento in cui la tradizione europea - nella quale si iscriveva pienamente la scuola primaria americana - aveva raggiunto quel traguardo della matematica elementare come formazione della mente dei bambini, era già in atto una frattura che avrebbe radicalmente messo in discussione e scardinato tale tradizione, con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. La matematica si trovò infatti nell’occhio di un ciclone, quello della scuola sperimentale e moderna, una scuola che non doveva “opprimere” i bambini, che doveva “lasciarli liberi di esprimere la loro creatività”, che rinunciava a trasmettere una tradizione, che non doveva stabilire differenze tra gli allievi a seconda del merito e della capacità. Il potenziale distruttivo di queste idee radicali fu efficacemente descritto da Werner Jaeger (Paideia, 1944) quando scrisse che “alla smania di livellamento della novissima sapienza pedagogica doveva essere riservato di metter fuori corso” il motto “citato da millenni da tutti gli educatori” dell’Iliade: “ch’io primeggiassi sempre, che sempre fra gli altri emergessi...” Poiché della matematica nel mondo contemporaneo non si può fare a meno, queste idee hanno portato, negli Stati Uniti e laddove questa visione della scuola ha avuto corso, a un appiattimento verso una matematica “pratica”, “concreta”, una matematica del “come” e non del “perché”, come scrive Ma. Un ritorno alle scuole di aritmetica medievali, come aveva anticipato Cajori, senza però maestri del calibro di quelli che insegnavano a Firenze nel Trecento! Certo che il modello cinese può aiutarci a riflettere ma non può essere una guida. L’ultimo capitolo del libro di Ma spiega come si raggiunge in Cina quella “comprensione profonda di idee matematiche fondamentali” di cui ha bisogno un maestro per insegnare bene matematica e ci presenta il panorama tipico di uno Stato autoritario e del rapporto che esso ha con i propri funzionari. I maestri seguono rigidamente, sulla base delle istruzioni centralizzate, “i materiali di insegnamento”, così come si potrebbe dire che l’intero paese ha quasi un unico sistema di sussidiari di matematica per i bambini. Le considerazioni dei maestri trasmettono l’immagine di quel rispetto per la tradizione e quel senso di appartenenza alla collettività che ha preservato probabilmente la scuola cinese, almeno per ora, da quello scardinamento radicale che essa ha subito negli Stati Uniti e in molti paesi europei.
La sfida, piuttosto, è quello di formare maestri la cui solida
cultura matematica permetta loro di lavorare giorno per giorno con i
bambini trasmettendo le basi di una della manifestazioni più potenti
dello spirito umano. |