educazione Chiosso: invece di "taroccare" il modello cinese, ispiriamoci alla realtà intervista di Pietro Vernizzi a Giorgio Chiosso il Sussidiario, 17.1.2011
«La vera alternativa non è tra rigore
e permissivismo, ma tra un’educazione che introduca alla realtà e
una che al contrario è ideologica. L’ideologia può assumere molte
forme, per esempio un genitore che pretende che suo figlio abbia il
talento calcistico di Cassano, invece di tenere conto delle sue
qualità e quindi del suo vero bene». E’ la posizione di Giorgio
Chiosso, ordinario di Storia dell’educazione dell’Università di
Torino, sul saggio «Il grido di battaglia di una mamma tigre»
pubblicato dalla professoressa di Diritto della Yale University, Amy
Chua. Di origini cinesi, Chua contrappone l’educazione rigida di
tipo orientale, che insegna ai bambini a non mollare mai, a quella
occidentale, dove al contrario tutto è consentito. Nel suo saggio
Chua ha rivelato che il decalogo da lei stessa imposto alle figlie
prevede le seguenti regole: «Non è permesso passare un pomeriggio a
giocare con gli amichetti, partecipare ai pigiama party, partecipare
alle recite scolastiche, guardare la televisione, giocare con il
computer, avere dei brutti voti a scuola».
Innanzitutto, ritengo che non si debba
cercare di imitare una forma di educazione proveniente da realtà
molto diverse dalla nostra. Se vogliamo avanzare riserve su un certo
modello formativo permissivista, non abbiamo bisogno di copiare la
Cina. Basta ispirarci al sano e buon modello che ci viene dalla
nostra tradizione, secondo cui l’educazione è sempre il confronto
tra una persona e la realtà. La realtà non è permissiva. La realtà
ha regole, norme, vincoli con i quali dobbiamo fare i conti. Quanto
più noi introduciamo precocemente i ragazzi a confrontarsi con la
realtà, tanto più creiamo delle personalità adulte capaci di non
arrendersi anche di fronte alle situazioni spiacevoli. Se invece li
inganniamo fingendo che non ci siano problemi, i ragazzi sentiranno
lo scarto tra l’infinità dei desideri dei loro genitori e
l’impossibilità di realizzarli.
Per introduzione alla realtà intendo
la cosa più semplice del mondo: la vita come si presenta tutti i
giorni. Don Giussani aggiungeva un aggettivo, diceva «realtà
totale».
Sono totalmente d’accordo. La realtà
infatti è il migliore disintossicante dall’ideologia.
Nell’educazione, il più grave errore è un atteggiamento
intellettualistico, quello cioè che porta a disegnare una realtà
immaginaria, perfetta, di un mondo che non esiste e a sfuggire al
confronto con le cose concrete. Un po’ come quei genitori, che
immaginano che i loro bambini debbano diventare dei grandi giocatori
di calcio, come Cassano, e costruiscono l’educazione su questo sogno
che nel 99% dei casi non si basa su dei dati oggettivi, ma su una
lettura ideologica del figlio. Naturalmente l’ideologia trova
applicazione soprattutto nella politica. Ma c’è un uso banale,
immediato dell’ideologia che è l’educazione vista secondo i sogni o
le costruzioni immaginarie dei genitori.
Il rigore fine a se stesso è una
sciocchezza, non c’è nessun motivo per elevarlo a regola suprema
dell’educazione. Spesso a scuola c’è l’idea che gli insegnanti più
bravi siano quelli più severi, ma io non la penso così. Il rigore va
sempre commisurato ai vincoli con cui ci dobbiamo confrontare.
Quando camminiamo in alta montagna, il rigore di guardare bene dove
mettiamo i piedi è la garanzia della nostra salvezza. In altre
situazioni possiamo camminare in maniera più libera e rilassata. Il
rigore quindi è una componente dell’educazione, ma quella principale
è la cura per i figli, l’attenzione emotivo che abbiamo per loro.
L'abitudine allo sforzo è un aspetto
fondamentale di qualunque educazione. L’uomo se può evita gli
sforzi, ma la vita ci pone di fronte alla necessità di compierli. Ma
d’altra parte non sono d’accordo sul fatto che dobbiamo compiere
ogni sforzo per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati.
Intanto bisogna vedere chi stabilisce questi obiettivi, e inoltre se
adulto li individua in rapporto ai suoi desideri o al bene del
figlio. E’ un punto molto delicato. Per esempio, se noi poniamo ai
figli degli obiettivi eccessivamente complessi, alzando sempre di
più l’asticella, possiamo anche creare frustrazione, delusione,
indurre una bassa stima di sé. Va quindi tenuto conto della giusta
dimensione del bambino dentro la realtà nella quale si pone.
Quando un giornalista chiese alla
psicopedagogista francese Francoise Doltò perché suo figlio, invece
di seguire la strada della madre, facesse il cantante di cabaret,
lei rispose: «I nostri figli non ci appartengono». Mi sembra una
frase bellissima, perché l’attività del genitore è gratuita per
eccellenza. Noi facciamo tutto per i figli, ma i figli hanno diritto
alla loro libertà, a staccare il cordone ombelicale da noi. Proprio
per questo, il momento educativo più alto è quello della totale
gratuità, dove la relazione con l’adulto è veramente generatrice del
bene. Il vero educatore è quello che lavora per il bene dell’altro,
senza avere necessariamente alcun ritorno. Il figlio può anche
ritorcersi contro il padre, o fare cose diverse da quelle che
desidererebbero il genitore, eppure è sempre suo figlio.
No, il tempo libero ha un ruolo
insostituibile, perché consente di attivare delle modalità educative
che sono diverse dal tempo dello studio. L’inventore del tempo
libero educativo è stato San Filippo Neri, che è stato poi imitato
da una lunga storia di santi a partire da don Bosco. Il tempo libero
trascorso con i figli del resto è fondamentale, perché consente di
esercitare delle attività utili alla crescita, ma più piacevoli, in
uno spirito più disteso. Stabilendo una «complicità» che
diversamente non sarebbe possibile. Quello che conta non è però la
durata, ma l’intensità del tempo libero: è diverso per esempio se lo
si trascorre davanti a tv e computer, o se lo si dedica a stabilire
delle relazioni significative, più profonde e intense.
Sì, ma la libertà è un processo che si
costruisce, si diventa liberi, non si nasce liberi. Tanto è vero che
il bambino piccolo, se non c’è qualcuno che se ne occupa, non riesce
nemmeno a sopravvivere. La libertà è la capacità di scegliere,
quindi i genitori con i giudizi che esprimono, l’esempio che danno,
anche nel silenzio riescono a orientare i figli. Quindi ci deve
essere il dovere di costruire la libertà, non la paura di negarla
con il proprio intervento nei confronti del figlio. Queste famiglie si trovano in difficoltà notevoli, hanno degli stili di vita diversi da quelli della società in cui vivono i figli. E’ possibile creare un doppio canale, ma è un problema di mediazione non facile, certe consuetudini o problemi di abbigliamento sono di non facile composizione. Il fatto di riuscirci o meno dipende anche dalla scuola, che può essere più o meno aperta alle famiglie immigrate e di conseguenza anche a quelle italiane. |