SCUOLA

Le parole di don Milani,
il dono di una lezione imprevedibile

Carlo Fedeli il Sussidiario, 12.1.2011

Il dibattito sulla “crisi del desiderio”, aperto dall’intervento di don Julián Carrón all’assemblea annuale della Compagnia delle Opere, e rilanciato pochi giorni più tardi dalla pubblicazione del Rapporto Censis, mi ha spinto a riflettere sulla situazione attuale dell’insegnamento a scuola e in università, un po’ per l’esperienza diretta che ne ho, un po’ per l’incidenza obiettiva che questa crisi ha sul modo in cui alunni e insegnanti vivono la porzione di tempo della loro vita quotidiana bene o male occupata dalla scuola (a cominciare dall’ora di lezione, che è il centro attorno al quale gravitano tutti gli altri momenti o fattori dell’esperienza scolastica).

In questa riflessione mi ha accompagnato una pagina forse poco nota di don Milani (ben più conosciuto per la Scuola di Barbiana e Lettera a una professoressa), che racconta la sua prima avventura come maestro, al tempo del servizio come cappellano a Calenzano, allora piccolo comune tra Sesto Fiorentino e Prato.
Giunto nella parrocchia di San Donato (è l’ottobre del 1947), don Lorenzo, sacerdote da pochi mesi e al primo vero incarico pastorale, si accorge subito dell’enorme ignoranza civile e religiosa della popolazione. Provocato da ciò, dapprima si dedica a svolgere un’opera d’incontro e di conoscenza dei parrocchiani, a favore dei quali modifica tra l’altro l’impianto della catechesi, scegliendo di svolgerla a partire dalla narrazione storica della vita di Gesù e delle vicende di Israele e della Chiesa, piuttosto che esponendo le verità cristiane come sistema dottrinale.
Poi, dopo aver constatato in vario modo l’intralcio all’evangelizzazione rappresentato dall’ignoranza, e il fatto che l’avvicinamento dei giovani alla Chiesa attraverso le occasioni del tempo libero - come il calcio, il ping pong e il circolo ricreativo parrocchiale - non produceva frutti duraturi, egli propone a quegli stessi giovani, nel 1949, la frequenza di una vera e propria “scuola serale popolare”, mediante la quale conquistare finalmente un’istruzione, e così una vera possibilità di riscatto e di promozione sociale (di “inclusione” e di “cittadinanza attiva”, diremmo oggi).

Impossibile, oltre che insensato, tentare di riassumere in poche righe la ricchezza della pagina di don Milani, redatta (è un motivo ulteriore di bellezza) ricorrendo all’artificio letterario di fingere che a rispondere alla domanda su che cosa si facesse nella scuola di San Donato, posta da un periodico, fosse proprio uno degli alunni che la frequentarono realmente. Meglio leggerla per intero. Da parte mia, vorrei suggerire due o tre piste di riflessione, che mi sembra offrano un qualche contributo di approfondimento sul tema della “crisi del desiderio”.

La prima pista è rappresentata dall’intensità delle ore di lezione. Don Lorenzo, con l’aiuto anche di un maestro elementare, le teneva ogni sera della settimana, da lunedì a giovedì, a partire dalle 20.30, a persone che avevano alle spalle (e davanti a sé, l’indomani) giornate durissime, con sveglia alle cinque del mattino, per essere alle otto sul posto di lavoro, e che rientravano a Calenzano poco prima del ritrovo in canonica per la scuola.
Il più delle volte, questa intensità comportava che si sforasse l’orario previsto, senza che gli argomenti in programma fossero svolti completamente. Anzi: molte volte accadeva perfino che il giovane cappellano “divagasse” (almeno ciò sembrava ai giovani e alle loro famiglie), seguendo la sua passione per l’etimologia delle parole, e omettendo così di trattare argomenti a prima vista ben più utili - come le cognizioni matematiche o tecniche che avrebbero permesso di superare con maggiore facilità i concorsi d’assunzione.

Qui comincia la seconda pista di riflessione. Ripensando all’esperienza compiuta, chi scrive ricorda che il fatto che l’ora di lezione fosse un avvenimento vivo e, in buona parte, imprevedibile, produceva molti effetti. Il primo e più fecondo di tutti consisteva in una metodica “ridefinizione” dell’orizzonte e dell’ampiezza della coscienza di sé e delle cose, tanto nel maestro quanto (soprattutto) negli alunni. Nel dialogo con don Lorenzo, infatti, questi avevano modo di sperimentare un’acquisizione del sapere che non restava chiusa o ripiegata in sé, come possesso meramente egoista o borghese, ma alimentava un’apertura senza sosta dell’intelligenza e del cuore a tutte le conoscenze e gli incontri che la scuola, nel suo svolgersi lungo la settimana (non solo le lezioni, più o meno convenzionali, ma anche le conferenze di approfondimento, che si tenevano il venerdì ed erano di norma seguite da accese discussioni), offriva.

Il testo offre alcuni esempi particolarmente suggestivi e un’espressione felicemente riassuntiva (“una parola da nulla diventava un mondo”) della “grazia” specifica dell’ora di lezione con don Milani, quand’essa si attuava come esperienza viva di conoscenza delle cose e di reciproca educazione. Esso offre anche un’indicazione altrettanto incisiva del cambiamento che ciò era in grado di suscitare negli studenti, e che toccava il suo vertice nel prevalere dell’interesse per la prima pagina dei giornali rispetto a ogni altra (compresa quella sportiva!) e in quella “roba da pazzi” che era il “voler bene a delle parole”.

La terza pista è suggerita dalla perentoria affermazione secondo cui né la Chiesa, né lo Stato possono garantire che i loro maestri (e i loro preti, nel primo caso) vogliano veramente bene agli alunni. Questa è materia sulla quale Benito Ferrini, alias don Lorenzo dice a chiare lettere che non valgono le argomentazioni di principio (il possesso dei requisiti formali, come l’abilitazione, l’immissione in ruolo, ecc.; la presunta superiorità dell’istituzione laica su quella religiosa; e via di seguito), quanto piuttosto quelle di fatto: fra quei due enti, entrambi “impotenti”, sottolinea il cappellano, “s’andrà” da quello che la scuola “ce la farà meglio”.

Ora, che cosa c’entra questa pagina di don Milani con il problema della “crisi del desiderio”? A mio giudizio molto, se pensiamo per un attimo alla risposta (“Niente”) che tanti alunni o studenti (soprattutto delle scuole superiori) danno spesso, rincasando, alla domanda dei genitori su che cosa è accaduto a scuola. Oppure se riflettiamo sulla piattezza e l’indifferenza che sembrano farla da padrone in molte ore di lezione, nelle quali può capitare di far di tutto, tranne che di seguire e di appassionarsi a ciò che sta effettivamente accadendo (e ciò non solo da parte degli studenti, ma anche degli insegnanti). Ancora, se ci chiediamo quale posto i ragazzi, gli adolescenti e i giovani di oggi assegnino liberamente, al di là degli obblighi imposti dai curricoli, nell’economia delle loro giornate e della loro giovinezza, alla lettura, allo studio, al gusto della ricerca. E infine, se rivolgiamo al mondo adulto questo stesso interrogativo.

Chi legge con animo aperto la pagina di don Milani forse si chiederà da dove venga e da quale passione umana e cristiana nasca l’intensità del “far scuola” che essa testimonia. Se è un docente, spero che il racconto di queste ore di lezione, così poco “canoniche”, possa valere anche come provocazione a rivedere criticamente il proprio modo d’insegnare. Se è uno studente delle superiori, o universitario, mi auguro che abbia la possibilità di cercare, incontrare e seguire maestri così, se necessario anche con un po’ di lotta con l’inerzia ludica o, più prosaicamente, utilitarista dei compagni, e con il funzionalismo politically correct dominante fra i docenti. Se, infine, è un intellettuale, un giornalista, un uomo politico, o anche un sacerdote ancora convinto che “scuola libera” significhi “scuola dei ricchi”, spero voglia lasciarsi provocare da don Milani a dismettere gli occhiali dell’ideologia più o meno statalista, tutt’oggi circolante, per guardare in faccia senza pregiudizi la libertà d’educazione e il pluralismo scolastico.

In ogni caso, comunque, spero che concordi con ciò che don Lorenzo scriveva in Esperienze pastorali: “È tanto difficile che uno cerchi Dio se non ha sete di conoscenza. Quando con la scuola avremo risvegliato nei nostri giovani operai e contadini quella sete sopra ogni altra sete o passione umana, portarli poi a porsi il problema religioso sarà un giochetto. Saranno simili a noi, potranno vibrare di tutto ciò che fa vibrare noi. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare che quello che si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza neanche cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello da uomo, cioè a dir poco un livello di parole e non di gioco. E non una parola qualsiasi di conversazione banale, di quelle che non impegna nulla di chi la dice e non serve a nulla in chi l’ascolta. Una parola come riempitivo di tempo, ma parola scuola, parola che arricchisce”.