UNIVERSITà

Laureato in un ateneo “doc”?
Meglio un po' d'esperienza

Solo il 13 per cento delle imprese europee ritiene molto importante uscire da un'università nei ranking internazionali. In Germania, Svezia e Francia le aziende più “indifferenti”. A contare, al momento dell'assunzione, è soprattutto l'esperienza lavorativa. Per i manager italiani decisivo anche uno stage all'estero. Ecco cosa pensano dei laureati quelli che promettono di assumerli. I risultati dell'indagine di Eurobarometro su 7 mila imprese in 31 nazioni europee. TABELLE: 1, 2, 3, 4, 5

Federico Pace la Repubblica 19.1.2011

Non sempre veniamo scelti per le ragioni che pensiamo. Qualche volta chi punta il dito verso di noi, lo fa per un motivo che non immaginiamo. Così accade, probabilmente, anche ai laureati. Compiere gli studi in un ateneo ben posizionato nel ranking internazionale non sembra essere decisivo. Almeno, non per i datori di lavoro europei. Manager che, alle prese con la crisi, quando devono assumere un laureato, oggi guardano soprattutto a quelli che hanno già un poco di esperienza piuttosto che a quelli che arrivano dagli atenei “doc” (vedi tabella). Ci sono conferme, qualche sorpresa e persino dei paradossi nell'indagine di Eurobarometro realizzata su 7 mila aziende in 31 nazioni europee che ha voluto comprendere qual è il punto di vista delle imprese nei riguardi di quella risorsa, non sempre ben utilizzata, che sono i laureati.

Fretta. Bisogno di integrare sin da subito le risorse. Necessità di non perdere un solo istante. Non si sa quanto questa lunga fase di impasse economica possa avere condizionato convinzioni e percezioni dei datori di lavoro. Ma di certo lo ha fatto. L'indifferenza, se così la si può chiamare, si percepisce soprattutto presso le imprese tedesche. Qui l'80 per cento dei manager che decidono il numero e la natura delle nuove assunzioni, ritiene il fatto poco o per nulla importante. Lo stesso accade anche in Svezia. E simili percentuali si riscontrano in Francia, Norvegia e Danimarca. Al contrario, la stima che gode l'ateneo in cui si sono ultimati gli studi, conta molto in paesi come la Grecia e la Turchia.

In Italia i laureati non se la passano benissimo. Seppure tra i disoccupati, a guardare i dati Istat, ci sono soprattutto i diplomati, i giovani usciti dagli atenei sono ancora in attesa del loro futuro. Spesso sono obbligati ad aspettare molto prima di accedere alla cittadella della vita attiva. Sostano su un ponte di legno che dovrebbe condurli fin lì. Guardano su, nel vuoto apparente. Come l'agrimensore nelle prime righe del romanzo più enigmatico di Kafka, si trovano vicino al Castello ma non vi possono entrare. E la chiave per accedere, non sembra essere, neppure da noi, quella di provenire da una facoltà inserita nei ranking.
Le proporzioni sono meno accentuate, ma anche in Italia la gran parte dei datori di lavoro (il 52 per cento) al momento di scegliere di assumere un laureato, non guarda al nome dell'ateneo che il candidato si è preso la briga di trascrivere su quei due foglietti del curriculum in cui vengono sintetizzati, con monotona essenzialità, anni di studi e di speranze. Solo il 12 per cento dei manager pensa che sia molto importante, mentre un altro 34 per cento dà a questo elemento una certa considerazione. La media continentale, che comprende i 27 paesi dell'Ue più Norvegia, Islanda, Croazia e Turchia, è pari al 57 per cento.

La ricchezza e il paradosso. E' l'esperienza la “pietra preziosa” che tutti i datori cercano di scovare nella foresta, per lo più inesplorata, delle qualità del giovane neolaureato. Per quasi nove direttori d'azienda su dieci viene indicata come l'assett cruciale di cui deve essere in possesso il laureato che vuole venire assunto (vedi tabella). Una verità, in qualche modo sperimentata da molti giovani in occasione dei numerosi colloqui a cui vengono costretti. Un'evidenza, se portata ai suoi estremi logici, che paradossalmente direbbe che chi vuole iniziare a lavorare, deve aver già lavorato.
In Italia, l'81 per cento degli imprenditori è convinto che l'esperienza sia il fattore cruciale. Meno comunque, anche se non di molto, di quanto accada in paesi come l'Olanda (84 per cento), la Francia (87 per cento), Spagna (86 per cento), Germania (91) e Regno Unito (88 per cento).

La mobilità internazionale. Gli stessi imprenditori, con una certa contraddizione non comprensibile fino fondo, non guardano con lo stesso interesse a quei candidati che hanno avuto esperienze di lavoro all'estero. O quanto meno, questa caratteristica, non viene ritenuta così importante. Secondo gli autori, che ricordano pure come i responsabili aziendali diano poca enfasi all'aver studiato all'estero, ritengono che le imprese nelle loro riposte hanno inteso porre l'attenzione soprattutto sull'esperienza lavorativa (quale e dove che sia) più che sulla mobilità internazionale.
Tra le imprese che pianificano di assumere, nei prossimi cinque anni, laureati ad alta specializzazione, quelli che daranno maggiore peso all'esperienza pregressa sono soprattutto quelli che di recente non hanno assunto laureati e che non hanno avuto modo, quindi, di conoscerli e di comprendere in qualche modo capacità e talenti. Quelli che invece negli ultimi anni hanno già assunto laureati con una certa continuità prestano più attenzione all'esperienza lavorativa in contesti internazionali e anche a percorsi di studio effettuati fuori dai confini nazionali.

I tirocini internazionali. Quanto ad uno stage all'estero, gli imprenditori del nostro paese sono tra quelli che gli danno maggiore importanza rispetto alla media dei paesi coinvolti dall'indagine. Da noi il 45 per cento li ritiene un elemento importante, 16 punti percentuali in più della media europea (29 per cento). Ancor meno cruciale viene considerato dagli imprenditori tedeschi (25 per cento), francesi (23 per cento), olandesi (18 per cento). Sotto al dieci per cento ci sono gli svedesi e gli inglesi (vedi tabella media europea).

Aule senza confini. Anche per gli studi all'estero si può osservare una specificità italiana. Se è vero che in media il 24 per cento degli imprenditori considerano importante, o molto importante, averli fatti, in Italia questa percentuale sale al 36 per cento. Valori simili si registrano in Portogallo. Al di sotto del dieci per cento invece quelli che la ritengono tale in Svezia, Regno Unito e Olanda (vedi media europea).

Il business e la complessità dei compiti. Quanto invece ai fattori più generali che condizionano e determinano l'assunzione di laureati, otto imprenditori su dieci indicano l'attuale tasso di crescita del loro giro di affari. Pesa in maniera simile anche la crescita attesa. Pesa, seppure leggermente di meno, anche la crescente complessità dei compiti. Tra le altre ragioni, l'alto turnover del proprio staff e il sempre più elevato numero di candidature (vedi tabella).
Ci sono anche le difficoltà che gli imprenditori incontrano al momento della copertura delle posizione vacanti. Quasi la metà ha indicato il basso numero di candidati con le capacità e skill richiesti. La seconda difficoltà sembra invece una ammissione di impotenza. Infatti il 44 per cento delle imprese confessano che tra le maggiori difficoltà c'è la possibilità di offrire uno stipendio di partenza competitivo. In Italia lo indica solo il 23 per cento. Forse perché, da noi, i giovani sono stati costretti già da tempo a misurarsi con paghe minime.

Quello che servirà in futuro. Quando gli viene chiesto quali saranno le skill che dovranno avere i laureati da qui a dieci anni, nel 45 per cento dei casi gli imprenditori dicono che saranno necessarie conoscenze specifiche nel settore in cui opera l'impresa. Un altro 39 per cento parla delle capacità nelle skill relative alla comunicazione e un altro 37 per cento fa riferimento alla capacità di lavorare in gruppo. Altrettanto importanti saranno le capacità che permettono di analizzare e risolvere un problema (il 32 per cento).

TABELLE: 1, 2, 3, 4, 5