Una vita a pagare pensioni

 Ursus  da il legno storto, 10.11.2011

Nonostante il ricorrente bailamme che suscitano le misure di “austerity” a carico dei pensionati (quasi sempre futuri, ma stavolta anche attuali) c’è una questione che viene regolarmente sottaciuta o del tutto ignorata. Forse perché troppo spiacevole ed indice di un bel po’ di egoismo da parte delle generazioni precedenti ed attuali. Oppure perché vergognosa per chi è “passato” per palazzo Chigi ed in Parlamento negli ultimi (almeno cinque) decenni, di fatto saccheggiando le casse previdenziali con provvedimenti demenziali, oppure chiudendo gli occhi di fronte alla prevedibile emergenza previdenziale (il bisticcio di parole è voluto) senza curarsi affatto del futuro.

La pressione contributiva (una più che significativa componente di quella fiscale che ci viene continuamente ricordata) è ai massimi di sempre e riduce drasticamente il reddito disponibile dei contribuenti onesti, favorendo stagnazione e recessione. Più della componente propriamente fiscale, ovvero delle imposte dirette.

Una parte cospicua delle entrate pubbliche è infatti costituita dalle somme “trattenute” ai dipendenti a scopo assicurativo e pensionistico, o richieste in acconto e a saldo ai lavoratori autonomi per le medesime finalità.

Si va dal 21 ad oltre il 33%, a seconda della categoria, del reddito lordo (in parte a carico del dipendente, in parte del datore di lavoro e per intero a carico degli “autonomi”). In media, direi, è quindi pari a circa un quarto del reddito prodotto, se non di più.

Perché si paga questa somma rilevantissima? Per coprire alcuni “benefit” dei dipendenti e degli atipici (dalla malattia alla cassa integrazione), ma soprattutto, in misura preponderante, perché lo stato deve pagare ogni mese le pensioni agli attuali pensionati.

Già, le casse sono vuote, anche quelle dell’INPS, se si eccettua qualche avanzo che però coprirebbe solo alcuni mesi di erogazione delle pensioni. Perciò si prendono i soldi dai contribuenti “attivi” e si girano, pari pari o giù di lì, a quelli ormai inattivi (sperando, ma non è un requisito essenziale, che almeno siano stati in passato anche contribuenti….).

Ciò significa che nessuno, oggi, sta mettendo “da parte” quei soldi per le nostre pensioni, quelle di noi che oggi produciamo e paghiamo tasse e contributi) e che quindi, per ricevere la nostra pensione futura, sempre che un giorno ce la diano, dovremo sperare che esista ancora una generazione di lavoratori attivi che ce la paghi.

Significa, al contempo, che la pressione contributiva, a meno di una netta inversione del trend demografico, non potrà mai scendere, se non facendo affidamento su una corrispondente erosione del debito pubblico sin qui accumulato, che produca una corrispondente diminuzione degli interessi, facendo emergere somme destinabili ad altro (ma ci si può giurare, e sarebbe anche giusto, per un bel po’ di tempo verrebbero di certo dirottate ad “incentivare la crescita”, che langue).

Di fatto, quindi, chi oggi versa contributi nelle voraci casse pubbliche non solo non ha alcuna speranza che tali somme divengano col tempo più sostenibili, ed ha pertanto davanti a sé una vita di lavoro spesa per oltre un quarto a pagare le (altrui) pensioni, ma deve pure fare affidamento, per la propria pensione, anziché sulle somme versate (di fatto svanite praticamente all’istante), su quelle che qualcun altro pagherà.

Ebbene: chi garantisce che ciò avverrà? I soldi in cassa non ci sono, il trend demografico punta all’invecchiamento e non è detto che le condizioni economiche del Belpaese continueranno ad attrarre stranieri, né che questi lavoreranno abbastanza e “regolarmente”.

In assenza di qualsivoglia ragionevole garanzia in tal senso, perciò, la vantata promessa dello Stato di erogarci in vecchiaia una pur modesta pensione non andrebbe considerata una vera e propria truffa?