Il Sistema di valutazione tra attualità
e argomentazioni vintage.

Vittorio Fabricatore, da ScuolaOggi 21.12.2011

Il dibattito sui temi della valutazione, che in quest’ultimo periodo sembrava aver subito una battuta d’arresto, riprende timidamente sull’onda di alcuni fatti nuovi di non poca rilevanza.

In primo luogo, il Ministro Profumo cita, tra le priorità, la costruzione di un sistema dichiarativo delle scuole accompagnato da processi di autovalutazione. E ancora prima il Presidente Monti, nel suo primo discorso in qualità di Capo del Governo, cita l’Invalsi.

La lettera d’intenti dell’Italia all’UE (ottobre 2011), esplicitamente fa riferimento all’accountability delle scuole ed a tre principali filoni di lavoro: risultati, ristrutturazione delle scuole, valorizzazione del ruolo dei docenti.

La ricerca Treelle sulla valutazione dei docenti, presentata il 7 dicembre, lancia un modello di apprezzamento delle qualità professionali dei docenti, cha sta suscitando qualche riflessione tra gli addetti ai lavori.

Il rapporto della Fondazione Agnelli sulla qualità della scuola 2011, individuando segmenti deboli del sistema, fornisce consigli e linee di lavoro ai decisori politici, insistendo così su un corretto rapporto tra decisori e mondo della ricerca sociale.

L’Invalsi, che garantisce a tutt’oggi la tenuta del servizio nazionale di valutazione, sta sperimentando progetti di valutazione delle scuole che opportunamente cercano di mettere a punto modelli di misura del valore aggiunto e degli esiti delle scuole non solo in funzione dei risultati di apprendimento, ma anche dei processi e delle caratteristiche dell’offerta formativa.

Sembra di essere di fronte ad una fotografia che acquista definizione, mettendo gli oggetti sempre più a fuoco: i processi, i soggetti, gli esiti.

Senza addentrarmi nel commento dei contenuti delle indagini e ricerche citate, vorrei invitare a considerare una serie di possibili strade da percorrere per la costruzione di un sistema di valutazione.

Ma vorrei anche confutare argomentazioni un po’ datate, che in questo momento stanno riprendendo corpo: il rifiuto della valutazione esterna e la rivendicazione dell’esclusiva competenza valutativa delle scuole e dei docenti; l’opposizione netta all’uso dei risultati di apprendimento per misurare i risultati delle scuole; la scarsa validità dei quadri di riferimento Invalsi in assenza di un più complessivo quadro di ridefinizione di curricoli e finalità; l’inopportunità di valutare i docenti prima della realizzazione di altre condizioni più generali.

Sono argomentazioni tutte legittime, che però ci espongono a pericolosi passi indietro, lasciandoci in balìa di derive pseudo-garantiste, che il sistema non sopporterebbe più.

Penso invece che si debba contribuire a perfezionare quanto già in cantiere e ad avviare concrete azioni strategicamente significative su alcuni snodi del sistema quali, ad esempio, la valutazione dei dirigenti e dei docenti, il valore aggiunto delle scuole, la rendicontazione.

La Scuola italiana ha bisogno di un sistema di valutazione. E se non riusciamo a partire neanche da questa affermazione, vuol dire che la discussione deve ritornare ai primi anni novanta o alle prime scelte del Ministro Berlinguer. Siamo giunti ad un punto dal quale non è più possibile indietreggiare, pena la perdita di ogni residua credibilità delle istituzioni scolastiche.

Prima di tutto gli apprendimenti e le loro misure. Stiamo cercando di allinearci agli altri Paesi dell’OCSE con molta fatica e dispendio di risorse. Non si dimentichi che l’Italia paga cifre consistenti per partecipare ai programmi internazionali di valutazione degli esiti di apprendimento, perché da esse si ottengono misure della qualità del sistema di istruzione e formazione e dello sviluppo del Paese. Le prove Invalsi si basano su quadri di riferimento ormai largamente mutuati da quelli internazionali, rispetto ai quali costituiscono ormai elemento di cerniera sui vari snodi del percorso scolastico e delle pratiche certificative di fine ciclo.

Perché mai l’Italia dovrebbe investire in indagini campionarie e non censuarie? Ipotesi maligna: forse perché le prime non coinvolgono direttamente le singole istituzioni scolastiche mentre le seconde fanno rischiare un fastidioso corto circuito tra valutazioni esterne e valutazioni interne, tra competenze chiave e curricoli di scuola?

Vorrei solo ricordare che questo non è il Paese dei grandi piani pluriennali. Tutte le riforme hanno sempre navigato a vista, cercando di evitare la collisione con i più imprevedibili ostacoli sommersi. Dunque poco realistico mi sembra l’invito a delineare prima il quadro generale e solo in seguito riprendere la pratica delle prove esterne.

Si ignora che le prove Invalsi sono ormai vissute dalle scuole come momento ufficiale di misura esterna, in particolare nel primo ciclo. Bisogna perciò prendere atto che un tratto di strada verso un sistema di valutazione è stato percorso e non è buona cosa tornare indietro, perché questa volta si rischierebbe di non trovare più neanche un sentiero.

Al punto in cui siamo, mi pare che le azioni strategiche su cui investire risorse professionali ed economiche siano almeno quattro.

1. Il miglioramento della qualità della somministrazione delle prove e della registrazione dei risultati. Perché non investire nella formazione di personale esterno opportunamente formato per la somministrazione e per la lettura dei risultati? Sarebbe un investimento strategico, che risponderebbe in modo pertinente ad importanti obiezioni tecniche e metterebbe anche fuori gioco comportamenti opportunistici che fino ad oggi hanno danneggiato tutti.

2. Realizzare attività formative capillarmente diffuse sul territorio rivolte a docenti e dirigenti per:

· mostrare che le competenze-chiave e le abilità richieste dalle prove corrispondono a quelle richieste dall’OCSE e che non si può più fare a meno di finalizzare una parte della didattica a quegli esiti, sempre più chiaramente qualificati come fattore di sviluppo economico e di integrazione delle persone;

·   insegnare a leggere i risultati, sviluppando elementari competenze statistiche;

·  favorire la costituzione di reti di scuole territoriali per la messa a punto di progetti di miglioramento nell’efficacia della didattica in funzione dell’equità dei risultati tra alunni e tra classi. E, piuttosto che negare l’importanza dei quadri di riferimento, puntare a orientare le programmazioni, per quota parte, verso abilità e competenze rischieste dalle valutazioni esterne, considerando tale scelta come un obbligatorio vincolo di solidarietà nazionale.

3. Introdurre pratiche di rendicontazione pubblica che permettano ai cittadini (amministratori locali, famiglie, portatori di interesse in generale) di conoscere le principali caratteristiche di ciascun istituto con riferimento a indicatori nazionali ed internazionali. Non si tratta banalmente di obbligare le scuole a mettere in mostra i risultati delle prove Invalsi, ma di far cogliere alle scuole l’interdipendenza di una serie di processi valutativi.

·  Rendere pubblici gli indici, ad esempio, di selezione e di dispersione, l’utilizzo efficace degli spazi, le scelte finanziarie in coerenza con l’offerta formativa, ecc. .

·   Assicurare la presenza diffusa di progetti autovalutativi trasparenti, osservabili anche da eventuali osservatori esterni, che ne possano misurare coerenza ed efficacia (e non importa molto a quali modelli fare riferimento).

·   Avviare pratiche di misura e pubblicizzazione del valore aggiunto basato da un lato su esiti di fine ciclo e certificazione di fine obbligo e dall’altro sugli esiti nelle prove Invalsi in rapporto al background dello studente. In questo ambito si tratterebbe solo di copiare un po’ da altri Pesi come la Francia. Ogni scuola ha bisogno di far comprendere quanto è capace di compensare le differenze tra gli alunni, non solo rispetto alle condizioni di partenza ma anche nel corso del ciclo di studi, e dunque quanto riesce ad essere equa senza però rinunciare all’eccellenza dei risultati.

4. Responsabilizzare i Dirigenti scolastici in merito alla necessità di presidiare esiti di apprendimento, valutazione interna e rendicontazione. Potrebbe, in proposito, essere utile:

·   mettere a punto linee guida operative rivolte ai Dirigenti per aiutarli ad orientare il proprio impegno in merito alla valutazione;

·   inserire la valutazione come uno dei compiti contrattuali formalizzati nell’atto di nomina (si tratta di un ruolo strategicamente significativo per lo Stato, per il quale il Dirigente è funzione centrale e insostituibile);

·  mettere a punto supporti e percorsi di formazione specificamente rivolti ai Dirigenti scolastici su analisi dati e variabili organizzative e progettuali.


Concludendo, mi sembra che il metodo da mettere in pratica sia quello che coniuga la prescrittività con il supporto per i miglioramenti e la formazione del personale.

Le scuole non sono il luogo del rifiuto pregiudiziale, anche se alcune realtà che tengono i toni un po’ più alti danno l’impressione del contrario. Tra docenti c’è molta disponibilità a riflettere. Il vero problema è trovare convenienze evidenti.

Ed a chi ritiene che la valutazione esterna e la rendicontazione siano un vulnus dello Stato nei confronti dell’autonomia delle scuole, bisognerebbe ricordare che l’autonomia scolastica non è nata per questo e che il principio della trasparenza costituisce uno dei nuclei portanti della cultura democratica, che affonda le radici anche in quella tradizione liberalsocialista italiana troppo spesso dimenticata.