Didattica, questa sconosciuta. A proposito delle prove del concorso DS di Cinzia Mion Educazione & Scuola 20.12.2011
Ho notato con evidente soddisfazione
che le tracce delle prove scritte per il concorso al reclutamento
dei dirigenti scolastici - appena concluse - offrono un
ragguardevole interesse alla variabile della didattica e alla
riflessione sui processi di insegnamento-apprendimento, nonché alla
differenza tra conoscenze e competenze e alla relazionalità ( tranne
una che ponendo il
focus
delle competenze del d.s. nel potere disciplinare corre il rischio
di regalarci in Veneto una selezione di dirigenti fans di
Brunetta…).
E’ risaputo infatti, e sarebbe ingenuo
da parte mia oggi riscoprirlo, che esiste una diatriba tra chi
afferma che il dirigente scolastico è chiamato a fare altro (i
benaltristi) dal lavoro dei docenti, tanto da appoggiare
implicitamente chi da tempo chiede per i dirigenti scolastici la
dirigenza amministrativa
tout-court
(cfr ANP) e chi invece difende con forza e passione l’impostazione
psicopedagogica della loro formazione di base. Questi sono i fautori
della leadership educativa che si attestano sulla considerazione che
il vero
senso
della scuola è la realizzazione del
successo
formativo per tutti
(equità, inclusione, integrazione ed interazione).
Ovviamente si sa bene
che a queste competenze di base se ne dovranno aggiungere altre di
tipo giuridico-amministrativo-economico e di teoria
dell’organizzazione tutte però finalizzate a migliorare le
prestazioni d’aula.
In altri termini deve essere presa in
considerazione come il
prodotto-risultato
significativo dell’Istituzione Scuola soprattutto la crescita
personale, cognitiva, relazionale, socio-etica di tutti i ragazzi/e
del Paese, vale a dire delle giovani generazioni che hanno nelle
loro mani il futuro di questo mondo interconnesso.
Per questo motivo ho letto con molto
interesse il saggio apparso su
Edscuola
di Bijoy M.Trentin, dal titolo
La
didattica in pericolo.
che mi ha trovato perfettamente
d’accordo su tutta la linea.
Appare assai singolare notare come in
molti documenti, riflessioni, proclami, note, elaborazioni dei
gruppi di lavoro attivati per realizzare al meglio sia l’elevamento
dell’obbligo che le recenti linee guida destinate alla scuola
secondaria di secondo grado, sia poco utilizzata la parola
didattica
o venga solo sfiorata quasi per caso o non si solleciti in modo
incisivo il suo svecchiamento se non quando si parla dei laboratori.
Fanno un po’ eccezione le linee guida
per i professionali. Ciò però riconferma la medesima tesi.
Mi sorge il dubbio che questa sia
diventata una parola desueta, di cui quasi vergognarsi un po’ come
se riguardasse le
bagattelle
della scuola
dei piccoli. Naturalmente non per tutti è così, gli addetti ai
lavori e i dirigenti avveduti sanno bene che ciò che passa nell’aula
operativamente, sia che i docenti siano consapevoli oppure no, è una
mediazione fra
teoria e prassi, principio e caso,
generale e particolare
in riferimento ai vari saperi, che va sotto il nome appunto di
didattica.
Naturalmente questa didattica dovrebbe
essere una
gemmazione
consequenziale alle moderne teorie della psicologia
dell’apprendimento scolastico, frutto di una rielaborazione
riflessiva e costante da parte delle varie
comunità di
pratica.
Tutto ciò potrà però avvenire se siamo in presenza di una
particolare consapevolezza del dirigente che riserverà buona parte
delle sue energie ad approfondire le strategie da adottare per
presidiare questo aspetto della propria professionalità.
La consapevolezza non consiste solo
nel rendersi conto che sapere non significa
tout court
sapere insegnare- se si trattasse
unicamente di questo saremmo di fronte ad una banalità - ma
significa rivalutare pienamente questo settore della psicologia
dell’apprendimento che si interessa delle coerenti procedure
metodologiche Pertanto andrebbe vinta l’illusione che il sapere
possa essere solo insegnato e non invece anche ricercato, come dice
L.Galliani nella sua bella relazione tenuta a Camerino nel febbraio
del 2007, avente per tema le nuove forme della didattica.
Della ricerca professionale fa parte
lo svecchiamento appunto della didattica che da tradizionale e
semplicemente trasmissiva dovrebbe diventare, come affermano i
teorici del socio-costruttivismo, generativa di apprendimento,
orientata verso il cosiddetto
apprendistato cognitivo,
intrisa
perciò di
metacognizione e
di
valutazione formativa,
orientata a sollecitare
l’autovalutazione dello studente e l’acquisizione di competenze.
Il Dirigente Scolastico dovrebbe farsi
promotore appunto della progettazione per competenze sapendo bene
che soltanto così si potrà arrivare a coniugare il
capire e il
riuscire.
In altre parole il riferimento è alla “didattica del fare”che non
significa la scissione tra i laboratori e la lezione frontale che
rimane invece sempre connotata dalla stessa didattica che Trentin
definisce la didattica fai-da te, trasmissiva e conservatrice.
Una didattica rimasta immobile nel
tempo simile a quella subita nella propria storia di studenti, che
Mezirow chiamerebbe refrattaria ad un apprendimento trasformativo,
perché ancòrata ad antichi
schemi di
significato
.
La nuova didattica dovrebbe invece
essere
operativa,
all’interno della quale il docente offre la sua competenza sia che
si tratti di una traduzione di latino o altre lingue sia nella
soluzione dei problemi o in qualsiasi altra competenza, mettendosi
in gioco,
pensando a
voce alta,
con la sua expertise impegnata ad esplicitare i processi mentali
soggiacenti che corrono il rischio di restare impliciti e quindi non
appresi.
Perché questo linguaggio appare oggi a
qualcuno quasi ostico? Forse perchè gli operatori scolastici e
soprattutto i dirigenti scolastici si sono negli ultimi tempi
abbeverati troppo di cultura manageriale-organizzativa, presi
dall’enfasi di imbottire il Piano dell’Offerta Formativa di patinate
pagine di progetti accattivanti ed hanno qualche volta trascurato di
presidiare il lavoro d’aula, che in fondo è invece il
cuore
e il
senso
della scuola.
Il diritto alla cultura
Già la scuola secondaria di primo
grado, messa sotto la lente d’ingrandimento dal recente rapporto a
cura della Fondazione Agnelli, dovrebbe rivedere le proprie
metodologie per evitare di
dimettere
mentalmente
i soggetti più deboli con la
pseudoargomentazione che per alcuni di loro i docenti
non sanno
più cosa fare.
Non essere più il tratto terminale
dell’obbligo dovrebbe dare loro una maggiore opportunità di
ripensare il percorso, naturalmente alla luce delle osservazioni
precedenti. Tutto l’itinerario dai 3 ai 18 anni deve essere oggetto
di riflessione autentica, mettendo al centro il
soggetto
che accede alla scuola, la sua identità - compresa quella di genere
- per evitare condizionamenti dovuti a stereotipi e per far tesoro
delle differenze insieme al suo
diritto
alla cultura,
non più soltanto inteso come diritto allo studio. L‘elevamento dell’obbligo e le recenti Linee Guida per gli Istituti Tecnici e Professionali oggi hanno questo significato: nella società della conoscenza ognuno ha diritto di acquisire le competenze ermeneutiche che offre la cultura generale, come dice E.Cresson, per potersi orientare nella complessità e nella globalizzazione, per acquisire quel pensiero critico e riflessivo, non solo riflettente, che abilita ad avere a che fare con le differenze e le contraddizioni, per dare un senso alla propria vita, per partecipare con più consapevolezza alla vita democratica del proprio Paese ed infine per essere educato alla cittadinanza come etica pubblica. Non possiamo infatti far finta di non sapere che gli italiani, come affermano i sociologi e gli attenti osservatori delle questioni politiche e sociali, sono affetti da tempo da una malattia che viene definita amorale civica, che sembra essere la causa (o la conseguenza?) del diffuso individualismo e del rafforzarsi del noto familismo che tanto ci rimproverano gli altri paesi europei. |