SCUOLA
L'esperto (Fondazione Agnelli): intervista a Marco Gioannini il Sussidiario 1.12.2011 Le metafore dell’«anello debole» e della scuola media «bocciata» si sono sprecate, ma rimangono forse quelle che rendono meglio la difficile condizione in cui versa la nostra scuola secondaria di primo grado. I dati vengono dal rapporto che la Fondazione Giovanni Agnelli ha dedicato quest’anno alla scuola media italiana. Un ritratto preoccupante, che documenta numeri alla mano ciò che gli addetti ai lavori avvertono da tempo: mancanza di equità, demotivazione, calo negli apprendimenti sono la firma con cui la scuola media spedisce i giovani alle superiori o li mette alla porta del sistema scolastico.
I dati della Fondazione
Agnelli aiutano a capire il male oscuro della «scuola di mezzo».
Dopo il 1962, quando fu istituita, la scuola media ha garantito a
tutti un livello più alto di scolarità, ma cinquant’anni dopo la
qualità dell’insegnamento non è all’altezza e relega l’Italia molto,
troppo indietro nelle classifiche europee. Non solo: gli studenti
con genitori meno istruiti hanno un rendimento scolastico inferiore.
Di tutto questo Ilsussidiario.net ha parlato con Marco Gioannini,
ricercatore e responsabile comunicazione della Fondazione Agnelli.
Gli studenti italiani
nel passaggio elementari-medie rallentano molto più degli altri la
loro velocità di apprendimento. È un calo fra i più intensi e
preoccupanti del mondo. La spiegazione non può essere una sola; è
complessa, e noi abbiamo tentato di esplorarne le cause. Dico subito
che la responsabilità non è degli adolescenti italiani, che sono
simili ai loro coetanei stranieri per capacità, fragilità,
aspirazioni.
Esatto. E qui abbiamo
trovato due spiegazioni importanti: la prima riguarda gli
insegnanti, la seconda la scuola stessa. La scuola media è oggi una
scuola senza missione. Quella che aveva, l’ha tradita: doveva essere
scuola per tutti e al tempo stesso di qualità. Non è stato così.
Quella riforma va
collocata nel suo contesto storico. Parliamo di un periodo in cui il
primo problema in Italia era ancora quello di alfabetizzare quanta
più gente possibile, e la scuola media unica nasce per far coseguire
la licenza al maggior numero di 14enni, elevando il livello
dell’istruzione elementare. Il problema era di «quantità» e la
scuola media riuscì a compiere questa misione abbastanza in fretta,
perché la scolarità raggiunse il 100 per cento già negli anni
settanta. Però nel frattempo il mondo cambiava e passare un certo
numero di anni sui banchi per conseguire un titolo non bastò più;
diventava molto più importante ciò che si impara realmente. È la
nozione di successo scolastico.
È così. La scuola media è
riuscita a fare la prima cosa, ma non la seconda: non garantisce più
a tutti gli allievi le stesse opportunità di successo scolastico. E
non lo fa non perché finisce per creare divari di tipo
socioculturale: quello che conta, in altre parole, è la famiglia da
cui si proviene. Quanto più questa è istruita, tanto più sono buoni
i risultati degli alunni.
Lo dicono gli studi
internazionali: dappertutto, in tutti gli ordini di scuola, piaccia
o meno, l’origine socioculturale continua a contare moltissimo nei
risultati scolastici; però ci sono Paesi in cui queste distanze sono
contenute e vengono accorciate, nella nostra media invece esplodono
in modo sensibile.
Sono di natura strutturale.
Innanzitutto un passaggio troppo brusco elementari-medie: si passa
da una scuola empatica, dove il lavoro coinvolge realmente tutti, e
dove chi insegna usa talvolta metodologie didattiche innovative e
personalizzate, a una scuola fatta sullo stesso modello delle
superiori: il docente entra in classe, fa la sua lezione, esce.
Stop. E la scuola finisce lì. Viene poi il problema di una
particolare condizione dei docenti italiani.
Quello che lei cita è un
dato che di per sé non è negativo e si spiega facilmente: il numero
dei docenti segue in modo abbastanza fedele quello degli alunni, in
calo demografico. Invece il dato negativo è che la riduzione degli
organici - e non mi riferisco solo ai tagli recenti del ministro
Gelmini, ma ad un trend di 20 anni - non è stata accompagnata da un
ricambio generazionale. Questo ha fatto sì che la popolazione
docente sia oggi estremamente vecchia, la più vecchia dei paesi
Ocse.
Affatto. Non si vuol dare un
giudizio di valore: ci possono essere ottimi insegnanti anziani e
pessimi insegnanti giovani. Il fatto è che sono gli stessi docenti,
come i dati dicono in modo inequivocabile, a manifestare il disagio.
Non incontrano i preadolescenti di oggi, dichiarano di non avere una
preparazione didattica e pedagogica adeguata per insegnare ai
giovani che hanno di fronte, di non riuscire a dialogare con le
famiglie.
Certamente. I docenti, anzi,
lo riconoscono. Ed è ovvio che risentano di una situazione negativa
dal punto di vista della carriera e della retribuzione: è l'esito di
un «patto scellerato» tipico del nostro Paese.
Quello per cui lo Stato ai
docenti dà poco, e al tempo stesso chiede poco. Questo, se si
vogliono avere insegnanti più motivati e preparati, non va bene.
Vanno pagati di più, ma poi bisogna chiedere loro di fare di più, di
fare più ore.
Bisogna cogliere
l’opportunità, che i prossimi anni offrono, di ricambiare la classe
docente. Andiamo anzi necessariamente verso il tempo di un ricambio.
I nuovi docenti devono essere assunti con modalità che li rendono
dei professionisti di questo livello scolastico: non solo devono
conoscere la loro materia, ma avere anche la «cassetta degli
attrezzi» pedagogica e didattica per insegnare a persone di 11-13
anni, un’età che non assomiglia a nessun’altra. Dobbiamo evitare di
avere docenti parcheggiati nelle medie in attesa di finire al liceo.
Non può certamente voler
dire un rapporto di uno a uno tra insegnante e studente, questo è
ovvio. Ma i programmi devono essere più calibrati sulle esigenze del
singolo, perché la scuola media è quella che raccoglie il massimo
della diversità. Non mi addentro nel problema della lezione
frontale: molti docenti sono bravissimi in questo, il punto però è
che nella scuola media di oggi gli insegnanti non sanno fare altro.
Magari sanno che esistono altre metodologie, talvolta anche più
efficaci, ma non le sanno usare perché nessuno li ha mai messi in
condizione di farlo.
Occorre dilatarlo. È il
contrario di quello che si è fatto finora: noi crediamo molto nella
scuola del pomeriggio, il che non vuol dire essere sempre a lezione,
ma fare lezione, approfondimenti, recupero, musica, teatro, sport,
eccetera.
Le riforme a costo zero
sono rarissime, quasi impossibili. Il momento è delicato, è vero, ma
occorre anche guardare avanti.
È un dibattito da aprire.
Riteniamo che 11 materie siano troppe, con il rischio molto forte di
fare un po’ di tutto e piuttosto male. Bisognerebbe concentrarsi
sulle discipline più importanti, quelle che decidono del successo
scolastico e di una solida formazione: lettura, scrittura e
comprensione dei testi, matematica, storia, scienze, una lingua
straniera. È un’ipotesi. Il curriculum non può essere oggetto di
affermazioni apodittiche, si deve discuterne, certamente, ma secondo
noi è uno dei temi più urgenti.
In questo caso ci sono le
differenze che normalmente si vedono in tutto il sistema scolastico.
Non c’è una specificità delle medie, si allineano ai dati generali
che vedono il sud arrancare.
La mia risposta è sì, ma
questo è un problema più complicato di quanto può sembrare a prima
vista. Non dobbiamo dimenticare che i dati Invalsi hanno come primo
obiettivo di fornire alle scuole le informazioni per capire qual è
il loro stato di salute, se si posizionano bene o male rispetto alle
altre, e per innescare dei processi correttivi di miglioramento. Poi
alle famiglie, è vero, servono informazioni per fare le scelte che
spettano loro di diritto.
Questo però vale anche per
i risultati degli esami di terza media e di maturità: dietro
l’apparente semplicità di un numero si nascondono livelli reali di
apprendimento completamente diversi. In altri termini, al sud
abbiamo quantità di 100 che provengono da medie di apprendimento
molto più basse, come dimostrano gli stessi dati Invalsi. Ritengo
che sulla comunicazione di questi dati ci sia un lavoro di
comunicazione molto importante da fare.
In questo paese si parla
spesso a sproposito di eccellenza e di merito, come se promuovere il
merito e l’eccellenza nella scuola fosse necessariamente in antitesi
con l’equità delle opportunità di successo. I nostri dati dimostrano
che questo non è vero. La scuola media italiana potrà salire di
qualità solo quando sarà più giusta e più equa nelle possibilità
d’accesso. |