IL CASO

Orientare in III media?
Tre regole per non "dimenticare" gli studenti

Cristina Casaschi il Sussidiario 12.12.2011

In queste settimane tardo autunnali nelle case delle famiglie dei ragazzi che frequentano la terza media (secondaria di primo grado), si palesa – a volte come dal nulla – un atto formale redatto dalla scuola: il consiglio orientativo.

Il Consiglio per l’Orientamento, più comunemente denominato consiglio orientativo, esiste fin dagli anni sessanta e ha attraversato alterne vicende e alterne fortune. È un atto dovuto da parte del Consiglio di classe ed è volto ad esprimere per ciascun alunno un’indicazione ragionata rispetto al percorso da intraprendere a conclusione del primo ciclo di istruzione, il percorso che sembra poter essere più interessante, adatto ed opportuno per ciascuno.

Il consiglio orientativo si colloca in uno snodo temporale e relazionale significativo, quello della scelta, dove si incrociano, e volte si ingorgano, percorsi e istanze differenti e complementari: le dimensioni del soggetto, ovvero i valori e il contesto nei quali è cresciuto, le sue curiosità e interessi, la sua modalità di approccio all’esperienza e alla conoscenza, le strategie che mette in campo, le competenze che matura, i rapporti che vive, ma anche ciò che i genitori vedono in lui, desiderano per lui e, a volte, desiderano per loro attraverso di lui, le opportunità e i vincoli che la società mette in campo, con le pressioni che impone, e il punto di vista degli insegnanti... La questione è assai ricca e articolata, e proprio per questo a volte confusa.

Innanzitutto: cos’è un consiglio? Certo, è un’opinione, un parere, un suggerimento con cui si intende aiutare qualcuno in una decisione o in una difficoltà. Ma, come ogni buon counsellor sa, un consiglio così inteso lascia il tempo che trova, soprattutto quando non è richiesto, e quando non sia del tutto riconosciuta l’autorevolezza del consigliere... In realtà un consiglio è da intendersi anche come consultazione e confronto tra più persone, con funzioni consultive o deliberative. Alcuni filologi, analizzando l’etimo, risalgono a sedere insieme, onde il senso di consultarsi, e questa mi pare un’immagine molto bella, se la rendiamo tridimensionale con le persone attrici di questo snodo: il ragazzo, la sua famiglia, i suoi insegnanti.

La scelta, come è noto, spetta alla famiglia che per prendere una buona decisone deve poter contare su tutti i contributi alla conoscenza del proprio ragazzo e dell’offerta formativa di cui possa disporre. Vien da sé che in questo senso il punto di vista della scuola è importantissimo, ma non è che una parte del campo e, soprattutto, pur nella specificità del suo punto di osservazione, non dovrebbe mai essere autoreferenziale. I dati disponibili, peraltro ancora scarsi e a macchia di leopardo, testimoniano che la corrispondenza tra il consiglio orientativo e la scelta poi effettuata varia da livelli bassissimi, vicini al 30%, a livelli assai elevati, anche superiori al 90%.

Alcuni studi di caso evidenziano una correlazione tra corrispondenza consiglio/scelta e stabilità e sostanzialità del rapporto scuola-famiglia, così come dal considerare l’atto del consiglio orientativo come frutto maturo di un percorso di orientamento costruito nel tempo, invece che, come spesso accade, come anonimo prodotto da catena di montaggio costruito in modo standardizzato.

Vi sembra eccessiva questa definizione? I fatti dimostrano che spesso il c.o. è concepito dalla scuola come un atto estemporaneo e poco più che formale, da consegnare in busta chiusa alle famiglie e al quale non pensare più, concentrando le proprie energie sullo “svolgimento del programma in preparazione all’esame di Stato”. Le pratiche seguite nelle scuole per la redazione del consiglio orientativo, occorre dirlo, sono spesso affrettate ed approssimative, o basate su pregiudizi e luoghi comuni. Il documento di norma è redatto per tutta una classe (fino a ventinove allievi!) in un’ora o poco più di Consiglio di classe dove i criteri, non va nascosto, spesso sono ancora il “chi va bene al liceo, i medi all’istituto tecnico, e chi va male al professionale, tanto lì è tutto facile”. Oppure, se c’è qualche voce fuori dal coro, dove l’ultima parola va all’insegnante più carismatico, o, tipicamente, a quello di italiano, “perché l’orientamento in fondo è affar suo”. Spesso neanche gli insegnanti sanno dire su cosa si basi il consiglio esteso (Attitudini? Interessi? Risultati di apprendimento? Stili cognitivi? E rilevati come: osservazioni registrate? Sensazioni e/o intuizioni più o meno vaghe o circostanziate dei singoli insegnanti? Confronto collegiale nel tempo?).

Il format del documento è lasciato alla libera iniziativa (autonomia) della scuola, e questo è un bene, quando però questa libera iniziativa non corrisponda invece ad incuria e scontatezza, a superficialità o schematismo.

Non si risentano gli insegnanti che leggono queste righe, sappiamo bene che la maggior parte fra loro (non la totalità) è realmente appassionata al bene di chi è loro affidato. Dall’analisi dei consigli e delle modalità con le quali essi (non) sono condivisi con le famiglie abbiamo tuttavia uno spaccato della scuola e di parte delle aporie che attualmente la caratterizzano: se da una parte per sua natura essa si propone di aprire al ragazzo nuove prospettive accompagnandolo nell’incontro con la realtà, dall’altra tende a chiudere gli orizzonti (realismo o reductio?) con un ottuso disciplinarismo; se è nella sua natura valutare, e quindi valorizzare, di frequente esprime giudizi definitori, quando non definitivi; se sa di avere davanti persone in crescita, spesso si rivolge solo all’allievo, concependo il suo futuro solo in rapporto al successo (o al possibile insuccesso) scolastico presupponendo di conoscere la persona, ma considerando in realtà solo la sua parte discente o peggio intellettuale; se sa di dover tener conto di tutti i fattori in gioco (passioni, desideri, fatiche, stili, volontà...), spesso concentra la sua attenzione su dimensioni residuali, o comunque non esaustive di per sé della ricchezza e complessità del percorso di crescita (voti dell’ultimo periodo, autonomia esecutiva...); se nel sostenere l’orientamento consapevole dovrebbe conoscere le strade che conducono verso l’orizzonte (es. l’offerta formativa e non solo scolastica del territorio), spesso conosce e quindi propone solo le vie più tracciate e consuete, tralasciando colpevolmente di mettere in luce validi percorsi alternativi o paradossalmente più diretti per ciascuno.

Se, in definitiva, la scuola (che è incarnata in chi la realizza) dovrebbe parlare con chi conosce bene (il ragazzo) di ciò che conosce (le opportunità che gli si prospettano innanzi) perché è la sua crescita e riuscita piena che le sta a cuore, a volte invece cade miseramente nel prospettare chimere o fantasmi ad un ectoplasma indifferenziato che non sa riconoscere come soggetto pensante e volitivo.

È possibile superare queste contraddizioni con gli strumenti propri della professionalità della scuola? Molte esperienze ci dicono di sì, e ci indicano la strada da seguire, che potremmo identificare in tre passaggi:

1. Corresponsabilità educativa. Se spesso il c.o. oggi è atto unilaterale, bene sarebbe che, come la cosiddetta riforma Moratti aveva delineato, esso fosse esito di un percorso di confronto e condivisione a più voci, dove davvero le voci in capitolo fossero quelle dei genitori e del ragazzo, oltre che degli insegnanti, ai quali è comunque chiesto di esprimere una propria valutazione, alla luce però del confronto reale e nel rispetto delle ragioni di senso emerse. Quel che va riconosciuto, insieme, è quel punto di ingresso nel reale che per il ragazzo funga da porta che spalanca sul mondo, e non da porta chiusa che rende inaccessibile o fa percepire come ostile la realtà.

2. Riconoscimento nei fatti e non nelle parole della pari dignità di ogni percorso formativo, (compreso l’apprendistato previsto per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione e formazione) pur nella specificità di ogni percorso; specificità che pare non ancora sufficientemente messa in luce come peculiarità e valore. Questo riconoscimento passa anche da come vengono proposte le presentazioni dei percorsi nelle scuole, e da come viene espresso il consiglio (ad esempio praticamente tutti i modelli di consiglio indicano in ordine i percorsi dal liceo alla formazione professionale, o viceversa, e la gerarchizzazione è un’operazione mentale implicita, ma che l’ordine delle voci induce con facilità).

3. La scuola permetta al ragazzo di conoscersi. Non guardandosi l’ombelico, ripiegandosi su di sé in un’improbabile e solipsisitica autoconsapevolezza, ma verificandosi in rapporto alla realtà attraverso gli strumenti della conoscenza e le esperienze via via maturate e vissute in una compagnia. Il che vuol dire aggiustare la bicicletta, ma anche scoprire gli effetti del calore sulla materia, o riconoscere un sentimento provato attraverso una pagina dei Promessi Sposi.

Scoprirsi competente di fatto e in potenza rinforza nello scegliere con libertà e responsabilità percorsi l’impegno verso i quali vale la pena di essere intrapreso, per una promessa di compimento.