il caso

Italia, la dislessia è troppo diffusa
per essere vera

Denuncia degli specialisti: "La diagnosi facile crea
molti disagi e non fa affrontare i problemi"

Valentina Arcovio La Stampa, 16.12.2011

ROMA
Per un bambino in Italia è troppo facile essere etichettato come dislessico. Nel nostro Paese, infatti, un comune disturbo dell’apprendimento viene spesso confuso con diagnosi drastiche che, anziché aiutare i piccoli, possono aumentarne il disagio emotivo.

A lanciare l’allarme è l’Istituto di Ortofonologia (Ido) di Roma in un’indagine presentata oggi a Montecitorio durante la conferenza intitolata «La Scuola dell’obbligo ed i disturbi specifici dell’apprendimento».

I dati parlano da soli: in tutte le scuole elementari del nostro Paese la dislessia viene diagnosticata al 18-20% dei bambini che le frequentano. «Una percentuale troppo alta che non può rispecchiare la realtà», denuncia Federico Bianchi di Castelbianco, direttore dell’Ido. «Si può invece ipotizzare che solo il 3% di questi bambini sia veramente affetto da dislessia», aggiunge.

Questo significa che ci sono migliaia di bambini che vengono trattati come se soffrissero di una disabilità che invece non hanno. «È come se un medico diagnosticasse il morbillo a un bambino che invece ha la rosolia», sottolinea Bianchi di Castelbianco.

La dislessia è una sindrome classificata tra i Disturbi specifici di apprendimento che si manifesta con la difficoltà di imparare la lettura, la scrittura o il calcolo aritmetico nei normali tempi e con i normali metodi di insegnamento. Questa difficoltà si ripercuote sul piccolo paziente causandone un forte disagio emotivo, che finisce per essere considerato un tipico sintomo della malattia e purtroppo sempre più spesso causa di diagnosi errate.

«Così da un lato i bambini si ritrovano dirottati su percorsi alternativi come portatori di una disabilità che non hanno, con oneri economici non sostenibili e totalmente inutili - dice il direttore dell’Ido -. Dall’altro il loro vero problema non solo non verrà affrontato, ma lascerà un vuoto di conoscenze che si ripercuoterà pesantemente sul loro curriculum di studi». Oltre il danno, quindi, la beffa.

Porre rimedio a questa bulimia di diagnosi non è poi così semplice, soprattutto nel contesto sociale in cui i nostri bambini crescono. Spesso da loro ci si aspetta il massimo e, a volte, anche di più. «Se prima - spiega Bianchi di Castelbianco - i bambini avevano due anni di tempo per imparare a scrivere e a leggere, ora ci si aspetta che facciano tutto in tre mesi. I tempi di apprendimento si sono abbreviati e questo li può portare a sentirsi inadeguati di fronte alle pretese degli adulti». Il mancato raggiungimento dell’obiettivo, quindi, finirà inevitabilmente con il creare un disagio emotivo nel bambino. «Sintomo, questo, che può essere confuso come un segnale della dislessia», sottolinea l’esperto. «L’errore - continua - è quello di considerare i bambini più intelligenti di quelli di 20 anni fa solo perché gli stimoli della modernità hanno fatto in modo che i bambini oggi abbiano intuizioni intellettive più alte».

A questo poi va aggiunta la mancanza di strumenti diagnostici oggettivi. La dislessia, infatti, è ancora oggi una patologia su cui si sa molto poco. «Non c’è certezza sulle origini - spiega Castelbianco - e viene diagnosticata con discutibili questionari. È nostro dovere evitare che i bambini paghino le conseguenze di un vuoto».