Valutare e premiare i docenti. Sì o no?
Walter Moro, presidente del Cidi di Milano,
intervista il professor Daniele Checchi, preside della Facoltà di
Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano ed
esperto di problematiche relative alla valutazione.
di Walter Moro da
Education 2.0 29.4.2011
Walter Moro: In base agli studi e alle
ricerche da Lei condotti, gli insegnanti sono disponibili a farsi
valutare? Se sì, a quali condizioni? In quale contesto? E perché un
insegnante dovrebbe essere disponibile a farsi valutare?
Daniele Checchi: Per rispondere a questa domanda l’unica strada è
quella di chiedere ai diretti interessati. Da un’indagine svolta su
un campione rappresentativo di docenti in Emilia e in Trentino sono
emersi atteggiamenti abbastanza diversificati. Da un parte vi era
una quota maggioritaria di docenti convinti che le politiche
retributive attuali non premino le capacità degli insegnanti e che
pertanto si esprimeva a favore di una possibilità di
differenziazione dei livelli retributivi. A questi si affiancava una
quota di circa un terzo fortemente contraria a qualunque ipotesi di
differenziazione. E infine il terzo restante era indifferente o
indeciso rispetto alla questione.
Osservando i dati sulle differenze effettive di retribuzione nella
scuola tutti sono concordi con il ritenere che la componente di
differenziazione legata principalmente ai progetti speciali sia
troppo bassa per rappresentare un reale incentivo perché gli
insegnanti si impegnino maggiormente. Ma non vi è consenso,
specialmente con le rappresentanze sindacali, su quanta debba essere
la componente incentivante, e a maggior ragione a quali dimensioni
essa possa essere legata.
Nella pratica concreta di molti sistemi stipendiali (incluso quello
italiano) viene premiata fondamentalmente l’anzianità di servizio.
Non è questo un principio irragionevole, perché si presuppone che un
docente più anziano abbia accumulato più esperienza; tuttavia egli
può anche essere più demotivato e “burned out” e quindi non
risultare necessariamente colui che dà energie propositive e
innovative nel processo.
WM: Lei è d’accordo sul fatto che la
questione del “merito” vada distinta dall’aspetto della valutazione
dei risultati di apprendimento degli studenti conseguiti in una
determinata realtà scolastica (questa richiederebbe una valutazione
di team, per esempio del consiglio di classe) e vada inoltre
distinta dalla valutazione del repertorio delle competenze
professionali individualmente possedute dall’insegnante?
DC: Ci sono diversi aspetti da tenere separati. In primo luogo occorre
chiarire quale sia l’obiettivo di una valutazione. Si può voler
valutare il lavoro degli insegnanti per ragioni di equità sociale,
volendo/dovendo rendere conto delle risorse investite. Oppure si può
puntare alla valutazione come strumento di incentivazione,
ritenendo, a torto o a ragione, che i lavoratori impegnati nella
scuola non abbiano una performance adeguata rispetto alle risorse
impiegate. Queste sono due prospettive molto diverse.
Per quanto riguarda il discorso relativo all’incentivazione – che
significa fornire motivazioni economiche affinché le persone diano
il loro meglio – occorre stabilire dei meccanismi adeguati che non
creino “incentivi distorti”. Occorre cioè, in primo luogo, decidere
cosa gli insegnanti debbano fare. Normalmente il desiderio è quello
che si impegnino, mettendo in campo capacità e competenze personali
e professionali, affinché tutti gli alunni – specie quelli con i
livelli di partenza e di apprendimento più bassi – riescano a
migliorare. È però difficile scorporare il contributo del singolo
insegnante, poiché il risultato dell’apprendimento è normalmente
l’effetto congiunto di competenze acquisite non disciplinarmente ma
interdisciplinarmente, se non addirittura di competenze non
curricolari. Basti pensare al caso dell’alunno che sbaglia un test
di matematica o scienze perché non comprende l’enunciato della
domanda: quali apprendimenti si stanno misurando in quel caso? e chi
ne è responsabile?
Per questo ritengo che abbia maggior senso percorrere la strada
della valutazione degli insegnanti come gruppo, eventualmente
permettendo che il gruppo stesso possa ridistribuirsi meriti o
demeriti al proprio interno con modalità che i docenti scelgano
liberamente. E infatti alcune esperienze estere di introduzione di
sistemi incentivanti legati agli apprendimenti hanno preso il gruppo
degli insegnanti come unità di riferimento sia per la valutazione
che per l’incentivazione. Anche perché andare invece a premiare il
singolo insegnante rischia di creare una sorta di effetto boomerang,
rompendo il clima di cooperazione pre-esistente nel gruppo. Non è
forse un caso se il famoso “concorsone” Berlinguer – che aveva posto
una soglia massima di persone promuovibili – abbia incontrato una
reazione tanto negativa. Molti docenti infatti si chiedevano per
quale ragione non a tutti fosse stata garantita l’opportunità di
essere premiati. È dunque importante evitare che valutazione e
incentivazione rompano un clima normalmente cooperativo che esiste
in molti consigli di classe, anche se questo non significa
rinunciare a indirizzare gli insegnanti in modo opportuno.
Vi è anche un altro rischio di effetto boomerang. Se utilizziamo
modelli valutativi mono-dimensionali (per esempio rispondere in modo
corretto a dei test), si rischia di ottenere come risultato che gli
insegnanti si impegnino esclusivamente nel miglioramento degli
indicatori rispetto ai quali verranno valutati. L’ideale sarebbe
ottenere una valutazione che tenga conto delle varie dimensioni del
processo di apprendimento, non tutte rilevabili facilmente
attraverso test. È anche vero però che con troppi indicatori si
rischia di non valutare nulla, perché a quel punto l’esito della
valutazione dipende dal peso che viene attribuito alle singole
dimensioni.
Se poi si dubita della possibilità di poter raggiungere qualunque
dimensione quantitativa, si finisce con lo scivolare nella
“valutazione dei pari”, che è forse il miglior metodo di
valutazione, ma nel contempo è anche il più lungo e costoso senza
essere maggiormente oggettivo (in quanto dipende strettamente dalla
scelta dei valutatori).
WM: Rispetto a quanto finora detto, posso
chiederLe come mai la sperimentazione Gelmini sulla valutazione del
merito degli insegnanti non riesca a decollare?
DC: Tutti i processi valutativi difficilmente si possono attuare con
il consenso unanime di tutti i valutati, ma non è opportuno nemmeno
calarli dall’alto. C’è stata una evidente preferenza per l’impatto
mediatico a scapito di una oggettiva sottovalutazione dell’impatto
psicologico che questa proposta creava nelle scuole, chiamate a
candidarsi per partecipare alla sperimentazione. Se infatti esiste
sicuramente una quota di docenti che sostiene l’idea che vada
premiato il merito, esiste un altrettanto legittimo desiderio degli
insegnanti di potersi legittimamente esprimere sulle modalità di
valutazione del merito.
È apprezzabile che il Ministero sia partito con le sperimentazioni
piuttosto che estendere immediatamente alla scuola lo stesso schema
ed è altrettanto positivo che siano state studiate soluzioni
differenziate. Il problema mi sembra piuttosto quello di non aver
adeguatamente coinvolto le rappresentanze dei docenti nel disegno
della sperimentazione. Sarebbe stato diverso presentarsi al mondo
della scuola provando a costruire una convergenza su un protocollo
condiviso da almeno una quota maggioritaria delle associazioni
sindacali e professionali. Ciò ovviamente espone al rischio di un
processo lungo e di un annacquamento del principio a cui il
Ministero voleva ispirarsi; però sicuramente la sperimentazione non
avrebbe incassato una sostanziale bocciatura da parte dei docenti,
come invece sembra essere avvenuto.