UNIVERSITA’
Lenzi (Cun): tre consigli intervista ad Andrea Lenzi il Sussidiario 12.4.2011
La road map della riforma universitaria prevede una cinquantina di
decreti attuativi chiamati a «far funzionare» la legge 240/2010,
entrata in vigore il 29 gennaio scorso. Il problema rimane quello
dei fondi, dice Andrea Lenzi, docente di Endocrinologia alla
«Sapienza» di Roma e presidente del Cun, Consiglio Universitario
Nazionale. Ma ci scherza anche su: «pare che questa generazione
politica riveli una spiccata propensione al suicidio, visto che vuol
passare alla storia come quella che ha tagliato i fondi
all’università. Ma in Italia l’università è l’istituzione più
vecchia dopo la Chiesa cattolica, e se è sopravvissuta fino ad ora
un motivo ci sarà...».
Ilsussidiario.net ha parlato con lui dei principali temi sul
tappeto, dalla governance alle risorse. Per finire con tre consigli
- non richiesti - al ministro Gelmini.
Come Consiglio Universitario Nazionale abbiamo potuto esaminare
cinque decreti attuativi riferiti alle nostre competenze: quello
relativo ai settori scientifico-disciplinari, quello sulle
equipollenze con i titoli rilasciati all’estero, quello attinente i
programmi europei e nazionali che possono essere usati come titolo
per l’abilitazione e per i concorsi di chiamata, quello sul valore
minimo degli assegni di ricerca e infine il regolamento
sull’abilitazione nazionale. Ce ne sono naturalmente molto altri, da
quelli amministrativi a quelli finanziari e dunque non di competenza
del Cun, che sono stati trasmessi al ministero dell’Economia.
Considerando che la legge 240 è entrata in vigore il 29 gennaio, e
che è la prima legge di riforma dopo decenni, si può dire che il
lavoro procede e che il grado di elaborazione è elevato. Certo resta
da fare ancora molto.
Possiamo ritenerci soddisfatti, se pensiamo che il Cun è stato
richiesto di pronunciarsi sulla scrittura di due decreti, e che sul
decreto contenente il regolamento per l’abilitazione nazionale il
Consiglio di Stato ha espresso un parere interlocutorio
espressamente citando il Cun come organismo di riferimento per
l’eventuale valutazione dei curricula dei commissari dei concorsi.
Su questo punto il Cun aveva espresso la sua opinione già nel
lontano 2008, in tempi non sospetti. Come ho detto anche l’altro
giorno al
convegno, noi abbiamo messo a disposizione a suo tempo la
«cassetta degli attrezzi» per fare la riforma. Ora occorre mettere
un po’ a punto il «motore».
Sulla governance avrei auspicato una maggiore flessibilità, ma è
anche vero che in Italia abbiamo una novantina di atenei, che si
aggirano sui cento se contiamo anche le università telematiche; e so
bene che non tutti i rettori avrebbero la forza per condizionare il
loro elettorato al punto da stabilire un modello di governance così
snello come servirebbe all’università italiana. Diciamo che non amo
le leggi prescrittive, perché sarebbe molto meglio giudicare il
risultato al posto del processo, ma è anche vero che in talune
condizioni è uno strumento necessario...
Qui il problema non è la legge, che non si può definire
sbrigativamente a favore o contro l’internazionalizazione, ma il
fatto che non investiamo nelle risorse che sarebbero richieste dallo
stato attuale della nostra società. Nessuno, di quelli che
collaborano con me o degli studiosi che io conosco, fa a meno dello
studio all’estero. Occorre però che chi va all’estero sia
«riportato» in Italia. Il flusso verso l’estero sarebbe un dato
positivo se il bilancio finale fosse in pareggio, ma se non si
mettono i soldi sul tavolo per la ricerca, siamo destinati ad essere
un erogatore di cervelli.
Appunto. Difficilmente credo si possa chiedere ad un comparto di
accettare una riforma nel momento in cui risultano tagliati i fondi,
non c’è speranza di progressione di carriera e manca di fatto un
reclutamento credibile. Pare che questa generazione politica riveli
una spiccata propensione al suicidio, visto che vuol passare alla
storia come quella che ha tagliato i fondi all’università. Anche se
sono convinto che non riuscirà a farle il «funerale».
Tutt’altro. In Italia l’università è l’istituzione più vecchia dopo
la Chiesa cattolica, e se è sopravvissuta fino ad ora un motivo ci
sarà. Non soccomberà né a causa di questi politici, né di quelli
dell’opposizione. Certo, dispiace per i tanti giovani che fanno
parte della presente generazione, ma sono tranquillo per le
generazioni a venire... Battute a parte, siamo il paese dove si
producono risultati di eccellenza non grazie, ma contro e malgrado
le condizioni di sistema, no? Se una classe politica non capisce il
valore dell’investimento in ricerca e in alta formazione, dimentica
uno degli asset principali che costituiscono la ricchezza di un
paese come il nostro.
Il primo riguarda la formazione. Serve una politica fortissima di
orientamento all’interno delle scuole medie superiori per evitare
gli abbandoni e per facilitare il placement dei ragazzi. Non
possiamo permettere che uno studente arrivi al termine degli studi
secondari decidendo negli ultimi tre mesi cosa vuole fare nella
vita. Non aspettiamoli. Dobbiamo essere noi ad andare dentro le
scuole.
Il secondo riguarda le lauree triennali e il dottorato. Obbligherei
la pubblica amministrazione ad assumere triennalisti e a dare la
dirigenza solo a chi ha un dottorato di ricerca. In tutto il mondo
serve il dottorato per diventare capitani di industria e dirigenti
dello stato, perché da noi non è così? Caro ministro, la ricerca scientifica universitaria non è solo quella che produce un bene strumentale, il brevetto o lo spin-off - che restano sempre importantissimi. No, la ricerca in università è prima di tutto un grande, ineliminabile fattore di progresso educativo. La nostra popolazione studentesca è ancora di buon livello, perché i nostri studenti quando sono laureati sono ancora un prodotto straordinario. Fino a quando? |