La poesia e lo spirito

Potrà questa bellezza rovesciare il mondo?

Vivalascuola.
Sono un insegnante di sostegno

da La poesia e lo spirito, 4.4.2011

Mi piace contrastare una percezione comune che svaluta questo ruolo ed è per questo che preferisco definirmi «insegnante di sostegno». Mi asterrò, in questa sede, dal commentare il fatto che il mestiere dell’insegnante di sostegno sia sempre di più, nel nostro Paese, uno strumento di accesso alla professione, e non un’evoluzione, un avanzamento di carriera, alla quale accedere a seguito di opportune prove psicoattitudinali e di studi formali. (Paolo Fasce)

 

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di Tullio Carapella

 

Sarà per le sentenze della Magistratura o per la Gelmini in forma smagliante delle ultime settimane, sarà ancora perché alla Camera, dai banchi della maggioranza, si è dato della “handicappata di merda” ad una deputata affetta da amiotrofia spinale, fatto sta che pare verificarsi un mezzo miracolo: tanti hanno cominciato ultimamente ad interrogarsi sul tema “disabilità” ed, in particolare, sul tipo di sostegno che nelle nostre scuole si riesce a garantire. Sia detto per inciso: il riferimento è alle scuole statali, perché quelle private, come è noto, sono “paritarie” quando devono incassare fondi statali, ma mostrano preoccupanti amnesie quando si tratta di garantire diritti “che costano.

Al vasto e importante dibattito che si apre provo ad offrire un sintetico contributo, in qualità di docente di sostegno, per giunta precario. Premetto che sono stato per alcuni anni docente di materia, o, come si dice, curricolare, e che questo forse mi aiuta a percepire molti dei dubbi e delle riserve, che non solo gli alunni tutti, ma anche i colleghi possono nutrire rispetto alla presenza di un docente “speciale”. Perché se è chiaro che quello dell’insegnante è un lavoro fatto principalmente di relazioni, con gli alunni in primo luogo, è altrettanto evidente che nel caso del docente di sostegno la rete dei rapporti si fa estremamente complessa: con alunno/a con disabilità, con il resto della classe, con le famiglie, con i colleghi, con gli educatori…

Creare una rete che funzioni è un lavoro lungo e paziente e, per restare solo alla sua prima fase, chi conosce quei ragazzi e ragazze a volte spaventati, o arresi, altre volte arrabbiati con la vita e con il mondo, in altri casi persi in uno completamente diverso, di mondo, chi li ha conosciuti davvero sa che bisogna trovare il modo per farsi accettare, senza bluffare, perché sbagliare il primo passo può compromettere il lavoro di un anno.

È quindi comprensibile che sarà difficile costruire efficaci e duraturi interventi di sostegno fintanto che una larga fetta dei docenti specializzati per questo insegnamento saranno tenuti in una condizione di precariato. Altrettanto evidente è che non si può pensare di creare alcuna rete complessa di relazioni laddove si interviene solo per sei o quattro ore settimanali, con l’assottigliarsi continuo e costante nel tempo di questa già misera risorsa. Perché è esattamente questo che sta avvenendo negli ultimi anni, checché ne dica il nostro ministro, quando offende i genitori che falsificherebbero carte pur di regalare al proprio figlio un agognato attestato di disabilità, o quando afferma che oggi ci sarebbe più sostegno di ieri.

La verità è che ci sono sempre meno ore di sostegno per ogni singolo alunno e questo vale sia nel caso delle disabilità gravi che in quelle meno gravi. Nel primo caso il problema si accompagna al contemporaneo taglio operato da tutte o quasi le amministrazioni comunali su figure addette all’integrazione quali educatori, assistenti e specialisti. In questi casi, inoltre, anche la notevole riduzione del personale non docente costituisce spesso un’aggravante non indifferente. Nel casi di disabilità definite meno gravi, invece, l’orario di sostegno si assottiglia talmente tanto da risultare totalmente o parzialmente inefficace.

Accade sempre più spesso, così, nel terzo anno dell’era Gelmini, che ai docenti di sostegno bruci sulla pelle la frustrazione di riuscire a fare troppo poco. Non è facile non vivere gli episodici, periodici, oppure numerosi insuccessi di quelle ragazze e quei ragazzi, il più delle volte davvero speciali, per l’impegno che mettono in ogni compito che svolgono, come una nostra personale sconfitta. Il docente di sostegno è più che preparato a questi inevitabili insuccessi e sappiamo pure che in condizioni normali potranno aiutare i “nostri” alunni a crescere più ancora dei successi, che pure, fortunatamente, arrivano. Ciò nonostante in queste condizioni non possiamo fare a meno di pensare che di più si sarebbe potuto fare, se solo avessimo modo di intervenire per tempo, di capire cosa non funziona, dove si può riparare.

Perché dare cifre apparentemente astratte, dire che il rapporto attuale docente di sostegno/alunno con disabilità è oggi tristemente di 1/3, vuol dire concretamente che riusciamo ad intervenire in molte classi in 6 ore, o meno, su oltre 30 settimanali, che nella maggior parte delle materie non possiamo avere il polso della situazione, che dobbiamo basarci su scambi di idee quasi quotidiani con gli altri docenti, di tre o più classi… Con colleghi che, a loro volta, non hanno spesso avuto modo di formarsi una specifica cultura del sostegno e che oggi meno che mai potrebbero permettersela, perché il Ministero non investe nulla in formazione e perché sono state chiuse quelle scuole di specializzazione che in tanti come me si son pagati di tasca propria.

In particolare nelle scuole superiori, laddove da sempre più carente è la cultura del sostegno, già prima dell’era Gelmini era difficile lavorare davvero in compresenza sulla classe, anche per creare un clima favorevole all’inclusione del soggetto con disabilità. Oggi questo obiettivo appare sempre più una chimera, per le riduzioni all’orario di cui si è detto e perché le classi vengono spesso affollate senza tener conto dei limiti previsti per legge, in particolare in presenza di disabilità. A questo si aggiunga che spesso i colleghi o noi stessi, di fronte ai crescenti ostacoli creati “dall’alto”, preferiamo la rassicurante scorciatoia dell’accudimento individuale, al percorso di crescita e maturazione fatto insieme, che è sola garanzia di raggiungimento di successi reali e solidi, ma che richiede un approccio complesso e dialettico, e richiede tempo, proprio quel tempo che ci hanno tagliato e che tante volte ci rammarichiamo di non saper moltiplicare…

* * *

Sono un insegnante di sostegno
di
Paolo Fasce

Le mie vicissitudini di precario
Sono un insegnante di sostegno. I primi tempi dicevo di essere un insegnante di matematica, ma ci ho riflettuto bene e ho deciso di qualificarmi sempre in questo modo. Il mio percorso formativo universitario è partito con la laurea in ingegneria elettronica, che scelsi, nonostante preferissi quella in matematica, perché mi appariva come più appropriata per fronteggiare le incognite del futuro. Le pulsioni culturali, a volte, prevalgono; nessuno può sfuggire alla propria ombra. I nostri interessi profondi sono antenne che captano i flebili segnali favorevoli che la vita ci presenta, e le nostre motivazioni elaborano strategie per approfittare delle piccole opportunità. Così ho avuto modo di tornare sulle mie scelte vincendo il concorso di accesso alla SSIS (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) dell’Università di Genova, dove mi sono abilitato in Matematica Applicata.

Sono partito da un capitale familiare di tipo psicologico e didattico, in quanto sono figlio di uno psicologo e di un’insegnante di lettere e le mie esperienze associative e culturali mi hanno fatto incrociare il disagio sociale. Su queste basi mi è parso del tutto naturale affrontare anche la specializzazione sul sostegno, che ho conseguito presso la SSIS del Veneto alla Ca’ Foscari di Venezia. Questo perfezionamento, essendo successivo a tutti i precedenti, mi pare sia, almeno sul piano formale, quello di grado «più elevato». Mi piace contrastare una percezione comune che svaluta questo ruolo ed è per questo che preferisco definirmi «insegnante di sostegno». Mi asterrò, in questa sede, dal commentare il fatto che il mestiere dell’insegnante di sostegno sia sempre di più, nel nostro Paese, uno strumento di accesso alla professione, e non un’evoluzione, un avanzamento di carriera, alla quale accedere a seguito di opportune prove psicoattitudinali e di studi formali.

Le mie vicissitudini di precario mi hanno visto conseguire anche l’abilitazione nell’insegnamento dell’informatica che ho ottenuto presso la SSIS della Toscana, all’Università di Pisa. Mi piace scherzare su questo vagabondare tra le SSIS italiane e spesso dico che la loro chiusura mi ha impedito di concludere il tour formativo delle Repubbliche marinare.

Sono arrivato all’insegnamento dopo varie esperienze lavorative. Da quella di tecnico informatico a quella di organizzatore di eventi ludici e culturali (sono particolarmente orgoglioso di avere diretto due campionati del mondo di discipline diverse: Othello e Sudoku), da webmaster a dirigente di enti di promozione sportiva, da giornalista a dipendente o stagista di aziende medio-grandi. Penso, quindi, di essere un buon rappresentante della mia generazione.

Insegnare mi appassiona

Insegnare mi appassiona, e siccome ho visto che questo sentimento è assai diffuso tra i colleghi, ma che parimenti facilmente l’entusiasmo si tramuta in una delusione derivante da aspettative deluse, ho sempre cercato di rivedere i fallimenti alla luce dei miei studi al fine di tradurre in pratica le riflessioni didattiche e pedagogiche del mio percorso formativo.

L’insegnamento-apprendimento della matematica è un grosso problema a livello nazionale e, leggendo la letteratura didattico-pedagogica sul tema, lo è per molti motivi. Ad esempio, per le interferenze che nascono spontaneamente tra il registro narrativo e pittorico proprio della comunicazione umana, orale e scritta, e quello tecnico-matematico, proprio della mia disciplina. A volte si cerca di aggirare il problema con un formalismo che dà poco spazio al dialogo, alla dialettica, alla maieutica, ma in ambito didattico non mi pare eludibile un sano rapporto con il linguaggio naturale. [1]

Probabilmente nella cassetta degli attrezzi di un insegnante di sostegno, ci sono strumenti utili a dare un contributo: la semplificazione, l’adattamento, la facilitazione. [2]

Un contributo alla soluzione è dato dall’apporto di ambienti ricchi e stimolanti e per questo obiettivo è utile un clima rispettoso delle differenze, capace di valorizzare le diverse intelligenze [3] e intrinsecamente laboratoriale. [4] Le tecnologie possono dare un contributo, [5] specie nei contesti abitati da quelli che qualcuno chiama «nativi digitali».

Anche questa mattina, mentre vestivo i panni dell’insegnante di sostegno, ho avuto la fortuna di collaborare con colleghi in gamba. Con diversi di loro lavoro già dallo scorso anno, cosa non da poco, per un insegnante precario. L’interazione è interessante perché fornisce visioni più ricche della nostra disciplina e getta ponti tra le varie materie (ah, come mi sento «Moriniano» quando lo faccio!). È piacevole lavorare in ambienti rispettosi di ciascuno, delle differenti valutazioni dei colleghi, qualche volta anche liberi di coltivare qualche fissazione per le quali ciascuno di noi è noto ai nostri studenti (pare che io veda il modo di usare «Geogebra» in quasi tutti i contesti).

Il passarci la palla con un collega di Matematica e Fisica, molto esperto e capace di fare squadra, è da entrambi apprezzato. Tutto questo, penso, rende diffusamente utile la presenza in classe dell’insegnante di sostegno. È anche interessante l’apporto che riesco a dare nelle lezioni di Scienze, in particolare quando queste sono vicine ai miei domini di conoscenza (temo che sarei molto meno utile in una compresenza con la collega che insegna latino).

Se non sento un gruppo fare rumore, vuol dire che sta dormendo
Questa mattina ho confermato la mia disponibilità a essere coinvolto nei corsi di recupero pomeridiani. Sono grato ai colleghi che rinunciano a svolgerli, a volte sono insegnanti che si dedicano alla prole più di quanto faccia io… Nei corsi di recupero propongo un programma di lavoro articolato su pratiche diverse. Una parte, che cerco di contenere all’essenziale, è costituita dalla classica lezione frontale. A volte mi serve per anticipare un tema, più spesso la uso per fissare le idee a consuntivo. È per me naturale tenere uno stile animativo (mi aiuta la mia esperienza di giocatore di ruolo), ma questo non basta.

In un corso di perfezionamento in didattica della Matematica che ho frequentato a Pisa ho appreso il fatto che il «bravo» solutore ha: le conoscenze necessarie, un repertorio di euristiche, abilità metacognitive, convinzioni «vincenti», un buon senso di autoefficacia, motivazioni. Tutto questo non può discendere da una lezione frontale.

È mia abitudine esplicitare una fase di negoziazione delle regole con i discenti. Ad esempio abbiamo stabilito che per andare in bagno non c’è bisogno di chiedere l’autorizzazione dell’insegnante. Un po’ per sorprendere e per creare un clima disteso, dico: «Conosco due soli contesti nei quali si deve chiedere il permesso di andare in bagno, uno è il carcere, l’altro è la scuola». Concludiamo che sono abbastanza grandi per autoregolarsi e, in genere nella seconda lezione, riflettiamo sulle modalità liberali con le quali questa norma è stata interpretata nella prima lezione. Spesso invochiamo alunni responsabili, autonomi e capaci di decidere per se stessi. Per raggiungere questo scopo, credo che occorrano palestre nelle quali esercitare le decisioni, cosa che non può prescindere dall’accettare che siano a volte sbagliate. [6]

Nella fase preliminare del corso di recupero dico ai ragazzi che le mie lezioni si svolgono in due parti. Una, noiosa, è quella in cui essenzialmente a parlare sono io (come se la ridono!). Non è vietato interloquire, anzi, è particolarmente gradito, ma ci sono regole, sulle quali convergiamo, che emergono facilmente dopo una breve discussione. La sintesi è che si parla uno per volta. Prometto che questa fase non durerà più di venti minuti e accetto di essere cronometrato. Qualche volta racconto loro qualcosa sulla curva dell’attenzione per giustificare questo lasso di tempo contenuto.

Deve essere chiaro per tutti che in questa fase si deve cercare di focalizzare l’attenzione su quello che viene detto. Nella seconda parte, quella più consistente, silenzio e passività non sono graditi. Dico sempre: «Se non sento un gruppo fare rumore, vuol dire che sta dormendo. E non va bene». In breve, in questa fase di «caos creativo», vengono assegnate delle schede di lavoro oppure chiedo di affrontare, all’interno del gruppo, i problemi di ciascuno. È evidente, dico, che siete qui con problemi diversi e se organizzassimo le cose con il sistema del question time, mentre rispondo a Chiara tutti quelli che non hanno il problema di Chiara si annoieranno e nell’attesa di affrontare il proprio problema tutti perderanno interesse e saranno attratti da altre faccende. È più o meno quello che succede in una normalissima riunione di Collegio dei docenti.

Quando giro tra i gruppi, naturalmente mi spendo per affrontare quelle tematiche che emergono dai ragazzi stessi. È piuttosto soddisfacente vedere la loro laboriosità annegata in un mare di «fatti loro» che consentono di affrontare quelle tematiche che, con quei diversivi, complessivamente rappresentano un significativo carico cognitivo. È bello vedere come l’insegnante viene cercato per risolvere i problemi che li hanno visti coinvolti, lieti di poter gestire autonomamente le proprie cose. Me lo insegna tutti i giorni mia figlia, che ha cinque anni; mentre cerco di aiutarla mi dice: «No, lo faccio io. Faccio da sola!». Immagino che i miei studenti vorrebbero dire la stessa cosa. E cerco di rispettare, anzi di coltivare, queste pulsioni.

Devo affrontare il mal di stomaco di Ilaria
All’inizio del corso, in genere, racconto che quando vanno dal medico perché hanno male allo stomaco, dicono: «Ho male allo stomaco». Non si sognerebbero mai di negare di avere male, se hanno male, o di dire «Ho male al piede» se hanno male allo stomaco. Nei corsi di recupero sono lì per loro. Devo affrontare il mal di stomaco di Ilaria, il mal di denti di Francesca, il raffreddore di Giorgio e la cefalea di Maurizio.

Naturalmente i ragazzi non sono stupidi. Sanno che sono un insegnante e non mi credono. E allora confermo quanto dico con quanto faccio. All’inizio del corso, in un passaggio matematico Vera ha trasformato 1/a+1/b in 1/ab. E allora le dico: «Meno male che è uscita fuori questa cosa! Sai che ci sono dei tuoi compagni che se la tengono dentro per anni e anni e poi zac all’esame di Maturità esce fuori. Bene! Che fortuna. Proprio ora che passavo di qui». E affrontiamo il problema. Dopo un po’ mi credono, perché io stesso credo a quello che dico, e qualche volta mi capita che mi intercettino per i corridoi per pormi questioni interessanti, mai banali. Spero che qualche domanda non arrivi a me perché nei corsi cerco di sviluppare che, oltre alla Matematica, si impara ad aiutarsi reciprocamente.

Verso la fine del corso, sfido i ragazzi con qualche rompicapo. Il gioco di annodare una sciarpa senza lasciarne gli estremi, tecniche di risoluzione del sudoku, il cubo di Rubik, le più recenti prove del campionato del mondo di puzzle. Loro si divertono, ma io cerco di supportare la loro autostima. Quando rientrano in classe conoscono cose che i loro compagni non sanno e questo contribuisce a rigenerarli nella percezione di sé e nelle motivazioni, frustrate dall’umiliante partecipazione a un «corso di recupero».

Qualche collega pensa che lavorare in questo modo sia una perdita di tempo. È vero che ci vogliono capacità gestionali e spalle larghe. Ad esempio lo scorso anno, nelle prime settimane di lezione, i bidelli sentivano rumore e i ragazzi, uscendo spesso dall’aula, mi hanno fatto apparire ai colleghi come un insegnante stravagante. Nella mia esperienza questo metodo di lavoro comporta l’accettazione di una prima fase di «smarrimento da libertà imprevista» che può anche essere esiziale per i risultati formali di fine corso, ma i colleghi più esperti mi dicono sempre che i corsi di recupero servono a poco, e allora perché non sperimentare? Non che tutta una scuola debba adottare questo sistema. Ai ragazzi si può anche parlare chiaro, apprezzano di essere trattati onestamente: «Guardate, con questi professori si lavora in questo modo, con questi altri si lavora in quest’altro». D’altro canto, terminati gli studi, dovranno armonizzarsi con diversi ambienti e vincoli che non sempre sono modificabili.

Voglio contestare l’argomentazione «perdita di tempo» con una mia testimonianza. Sono insegnante di sostegno, dicevo, e vedo bene quello che succede in classe da un altro punto di vista. Quando l’insegnante parla per tutti, quando impone a tutti lo stesso «spettacolo» (anche quelli di ambito burocratico!) i ragazzi pensano ad altro. Li vedo benissimo: assumono una postura appropriata, di finta attenzione, e vagano assorti nei loro pensieri. Non sono per niente differenti dall’alunno diversamente abile che seguo, il quale ha un prepotente dialogo interno ed è solo meno scaltro dei suoi compagni nella dissimulazione. Il collega, lo vedo, è soddisfatto. Ha la consolazione di avere fatto la sua lezione, può testimoniare di avere lavorato, di essersi speso, ma quanto sia stata efficace questa modalità ci è testimoniato da orrende locuzioni quali quella dell’«inglese scolastico» o, restando nel mio ambito, dalle numerose iscrizioni al gruppo Facebook «Quelli che pensano che la matematica appresa alle elementari sia sufficiente per tutta la vita».

(pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, che ringraziamo, questo testo che figura, col titolo “Chi ha paura della matematica?“, in Giorni di scuola. Pagine di diario per chi ci crede ancora, a cura di Tullio De Mauro e Dario Ianes, Erickson 2011)

 

Note

1) Contardi A. e Piochi B. (2003), Le difficoltà nell’apprendimento della matematica, Trento, Erickson; Sfard A. (2009), Psicologia del pensiero matematico, Trento, Erickson.

2) Scataglini C., Cramerotti S. e Ianes D. (2008), Fare sostegno nelle scuole superiori, Trento, Erickson.

3) Vigilante A. (2009), L’educazione nella pace per l’intelligenza, contro la stupidità, «Azione nonviolenta», n. 6, pp. 10-25, http://nonviolenti.org/doc/An_06.09.pdf.

4) Paola D. (2007), Dal laboratorio alla lezione: descrizione di un esempio, «Innovazione Educativa-Supplemento per l’Emilia Romagna», n. 8 – 2006, pp. 13-20, IRRE Emilia Romagna, http://www.matematica.it/paola/dallaboratorioallalezione.pdf.

5) Paola D. (2004), Insegnamento e apprendimento tecnologico, «L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate», voll. 27A-B n. 6, pp. 671-704, http://www.matematica.it/paola/Insegnamentotecnologico.pdf.

6) Parodi M. (2009), La scuola che fa male, Genova, Liberodiscrivere.

7) Spesso le traggo dal libro di testo gratuito MaCoSa (http://macosa.dima.unige.it/sup/index.html), elaborato da un gruppo di docenti perlopiù genovesi, coordinati da Carlo Dapueto e Fabrizio Vannucci.