Integrazione come valore

Michela Marzano, la Repubblica 3.8.2011

ADESSO ci si mette anche il Governo italiano. Come se, in piena crisi economica, i parlamentari non avessero altro da fare che dare via libera a una proposta di legge che vieta nei luoghi pubblici burqa e niqab.

Come se l´esempio della Francia e del Belgio dovesse in questo caso essere necessariamente seguito, laddove in altre circostanze ci si inalbera non appena qualcuno osi fare un paragone tra quello che succede in casa propria e quello che invece accade all´estero… Certo, la giustificazione della legge è intrisa di buoni propositi. Si parla della liberazione delle donne segregate e senza diritti. Si invoca l´umiliazione di tutte coloro che non possono riappropriarsi del proprio destino. Ci si scaglia contro questa forma di "aberrante imposizione". Burqa e niqab sarebbero un mezzo di oppressione per le donne, un modo per metterle al margine della società rendendole anonime e trasparenti. Si può tuttavia veramente vietare l´utilizzo per strada del velo integrale, punendo coloro che lo portano? Non è sempre pericoloso quando, nel nome della libertà, si decide di legiferare sul modo in cui ci si possa o debba vestire in pubblico?

Molte donne musulmane sono ostili al velo integrale e mettono chiaramente in rilievo come il Corano non lo preveda: il fatto stesso di indossarlo significherebbe accettare la possibilità di restare fuori dalla società. Tante altre però, come hanno spiegato alcune francesi davanti alla Commissione parlamentare (la Commission Gérin), sostengono che portare un niqab è oggi un modo per proteggersi dallo sguardo maschile, una maniera per esprimere la fierezza di essere musulmane in un mondo occidentale considerato decadente e corrotto. Nascondendo ciò che copre, il velo, per definizione, riesce contemporaneamente a mostrare e a distogliere lo sguardo. Da questo punto di vista, è in genere utilizzato per proteggersi dalla vista degli altri, per sottrarsi alla logica della vergogna. Per mostrarsi e farsi vedere, bisogna volerlo: permettere allo sguardo altrui di posarsi su di noi senza ferirci. Il velo può allora essere un riparo per colei che lo porta, a patto, però, di non chiudersi mai completamente. Se serve a proteggere il mistero del corpo, deve anche lasciar intravedere qualcosa - gli occhi, una caviglia, una ciocca di capelli. Il rischio, altrimenti, è quello di diventare un "sudario". A seconda del contesto, del luogo e dell´identità di colei che lo porta, indossare un velo può essere un gesto religioso come un atto di conformità a un costume; può essere il frutto della sottomissione a minacce o intimidazioni, oppure un atto provocatorio e di sfida identitaria. Se alcuni veli sono in grado di dar forma al corpo femminile, il velo integrale, però, non lascia intravedere proprio nulla. E trasforma il corpo della donna in una "macchia cieca". Al punto da rendere incomprensibile il fatto che alcune donne accettino di portarlo. Si può tuttavia anche solo immaginare di risolvere un problema di questo genere a colpi di legge, soprattutto quando si sa che di donne col niqab ce ne sono veramente poche? Non è del tutto assurdo pretendere di liberare qualcuno attraverso un divieto? Non sarebbe meglio ascoltare ciò che dicono le donne velate - invece di affermare perentoriamente che non sono mai libere - e offrire loro degli strumenti critici per valutare meglio il peso e le conseguenze delle proprie scelte?

La strada per l´emancipazione è lunga e difficile. Non si può sottovalutare l´impatto della ghettizzazione sociale in cui vivono molte donne. È per questo che si dovrebbe fare attenzione a non passare troppo velocemente dalla logica della "repressione" a quella della "gentile indifferenza". Come se portare un velo integrale fosse sempre il risultato di una decisione libera e matura. Talvolta è una scelta. Altre volte, come è stato mostrato da recenti casi giudiziari in Francia, è il frutto di un´imposizione. La realtà è sempre piena di sfumature e si dovrebbe evitare non solo di strumentalizzare i valori delle lotte femministe, ma anche di banalizzare le difficoltà dell´integrazione.

In un´epoca come la nostra, in cui la questione della laicità va di pari passo con l´aumento non solo degli integralismi religiosi, ma anche dell´intolleranza e del razzismo, forse bisognerebbe interrogarsi di nuovo sul significato dell´espressione "integrazione" e cercare di capire come il rispetto delle differenze non implichi necessariamente una rinuncia ai valori in cui si crede, come l´uguaglianza, la libertà e la pari dignità. Ogni Paese ha certamente un proprio patrimonio culturale specifico, che va di pari passo con la storia della propria unità, con le contraddizioni e le difficoltà che si sono di volta in volta incontrate per imparare a vivere insieme. Ma erigere barriere o promulgare leggi che, nel nome della libertà e della dignità, interferiscono con le scelte dei singoli individui non serve a pacificare una società. Questo tipo di strategie non fa altro che spingere alla radicalità. Invece di contribuire a organizzare le condizioni reali che possono permettere alla libertà femminile di non restare solo un valore astratto.