Riformismo senza popolo

di Franco De Anna da Pavone Risorse, 17.9.2010

Ho sempre pensato occorresse guardare alla la scuola, come alla Chiesa “.. ecclesia sempre reformanda..” così la scuola.

I motivi sono così tanti che non posso farne analisi accurata e completa in questa sede. Spero che alcuni emergano tra le righe della argomentazione che segue.

Ciò che oggi mi pare preoccupante e che rappresenti il punto di maturazione di un processo di smarrimento almeno ventennale, non è che cambiamenti, supposte riforme, “epocalità” disinvoltamente dichiarate si susseguano ai ritmi impropri della “politica politicante”, quanto di assistere, a prescindere dagli schieramenti e dalle opzioni politiche, ad un “riformismo senza popolo”.

Chi sostiene, spesso con assertività degna di miglior causa, che non si può riformare la scuola senza la partecipazione degli insegnanti, dice una verità che è però solo una “traccia” di quella ben più inquietante, strutturale e caratterizzante “questa” fase storica, costituita dalla assenza o evanescenza nelle politiche riformatrici (e non solo della scuola) non dico del “consenso popolare” (il consenso soprattutto oggi è una merce che si acquista a prezzi più o meno elevati) ma da quel mix di “interessi, mobilitazione, pedagogia politica, partecipazione, identità collettiva, speranze di futuro” che può dare senso ad una impresa che non operi solamente nel breve periodo.

Per la scuola questa condizione (e non solo dunque il consenso dei docenti), è tanto più essenziale se è vera la sua caratteristica richiamata all’inizio:…sempre reformanda

La domanda “politica” vera, e carica di futuro possibile, è dunque quella relativa a dove e come trovare il “popolo” che dia forza, legittimità, ragione storica, interessi, appartenenze collettive, futuro alla scuola ed al sistema di istruzione, che non si offra semplicemente come campo di intervento di questo o quel ministro di turno.

Leggo gli interventi sulle prospettive federaliste contenuti in questa pagina, e, a parte ovviamente quelli del sottoscritto (sono straordinari la perplessità e lo scetticismo che suscitano le proprie opinioni quando siano espresse da altri..) trovo che abbiano tutti ragione, anche quando siano contraddittori tra loro. O meglio che tutti abbiano delle “buone ragioni”.

Lo affermo non per tentare accordi impossibili, ma perché trovo che in realtà i diversi interventi siano assolutamente centrati e coerenti, ma a partire da un preliminare, non detto, costituito dal “campo” delle argomentazioni la cui definizione rimane sullo sfondo.

Non vorrei ripetere un ritornello, ma la fase storica che ci ritroviamo a vivere ha modificato/modifica proprio il “campo di verità” dalle coordinate del quale acquistano semantica riconoscibile e discriminabile le nostre affermazioni.

Cito solo tre elementi di radicale mutamento che, del resto, si ri-declinano in mille modi nel dibattito socio politico culturale attuale

1) Lo sviluppo dei saperi e delle conoscenze, dei loro modi di produzione, di riproduzione e circolazione. Non solo è sconvolta “l’enciclopedia dei saperi” (cara fonte ispiratrice      del “fare scuola”) ma se ne rende “improponibile” ogni altra fattura.

2)  La progressiva “obsolescenza” degli Stati nazionali come contenitori e territori delle regole e del diritto (dunque riferimenti essenziali di “costruzione di cittadinanza”). I sistemi di istruzione, costruiti insieme agli stati nazionali e come parte fondamentale delle loro istituzioni accompagnano tale obsolescenza trovandosi progressivamente privati del referente e della funzione “nazionale” (esprimetela in vari modi: costruzione della cittadinanza, nazionalizzazione delle masse, alfabetizzazione del popolo, realizzazione del “diritto” all’istruzione… sono “modi” che contraddistinguono diverse ipotesi e significati, ma stanno tutti all’interno del rapporto “funzionale e organico” tra sistemi di istruzione e stato nazionale).

3)  La connessione sempre più stretta, quasi organica tra produzione della ricchezza (trasformazione della natura, impresa, mercato) e conoscenza. L’incorporazione di sapere nella produzione e più in generale nello sviluppo economico ha capovolto il rapporto tra produzione di merci e produzione di conoscenza. Ciò modifica anche radicalmente il significato “sociale” ed economico dell’istruzione: non (solo) un diritto universale, ma un bene economico. Come tale “non universale” per definizione. (Se tanti disinvolti e superficiali sostenitori del valore di investimento della spesa per la scuola si provassero a immettere qualche pensiero critico sulle categorie che utilizzano nella polemica politica…. Se scelgono il “campo semantico” dell’economia dovrebbero anche indicare la convenienza dell’investimento, la selezione delle modalità e degli oggetti su cui investire, le condizioni di redditività… e allora si scoprirebbero alcune carte “interessanti” sulle quali invece, si sorvola nella facile polemica…).


Il sapere e la conoscenza sono da un lato “valori incondizionati”. Ma dall’altro sono e sempre più “produzione” e si scambiano sul mercato sotto forma di “competenze”. (Vi dice nulla l’enfasi spesso ideologica che accompagna la problematica della società della conoscenza e la questione delle competenze nel dibattito europeo?).

Se assumiamo queste tre coordinate come comune “campo” delle nostre argomentazioni, allora anche le opinioni diverse diventano comprensibili e oggetto di confronto. Non si corre il rischio cioè di “dare ragione a tutti” ma neppure di considerare un avversario semplicemente chi muove i propri argomenti su un campo diverso. (Per esempio è assolutamente chiaro che la collega Boscaino nel suo La scuola pubblica tra Padania e azienda si muove usando coordinate del tutto diverse, e ciò che afferma è del tutto coerente con esse. Rimane da vedere se quelle coordinate indichino adeguatamente ed efficacemente il paesaggio della realtà attuale e i percorsi utili a modificarla, secondo quel comandamento del ..semper reformanda).

Ma, soprattutto, si dà fondamento alla domanda (non per questo meno cruciale) di come, dove, con chi costruire/costituire quel popolo che manca al riformismo, anche a quello più avvertito e competente.
A partire da queste tre coordinate vorrei sviluppare qualche riflessione che recuperi il tema del Federalismo, anche assumendo come spunto critico quelle che Stefanel (La questione federalista) indica come “rigidità” contenute nel mio intervento precedente. (Federalismo, spesa e investimenti nel sistema di istruzione)

La riflessione riguarda il “doppio valore” dell’istruzione e la sua declinazione rispetto alla “formazione economico sociale”, in particolare quella del nostro Paese, quale si è andata consolidando e trasformando dagli anni della Costituzione ad oggi.
Uso ovviamente  una cadenza ”metastorica” consapevole che ogni affermazione rimanderebbe a ben altro spessore di analisi.
In che cosa consiste tale “doppio valore”?

1.    Nella nostra “civiltà”, a partire dal “proto illuminismo” del V secolo ateniese, il sapere e la conoscenza si sono configurati come valore “universale”, un tratto della specie, la “natura” (seconda) dell’uomo stesso. Dunque un valore universale, incondizionato. Intrinsecamente “democratico” proprio perché patrimonio potenziale della “specie” stessa. Ricorderete quel Socrate insopportabile che nel Fedone cerca di dimostrare che anche lo schiavo ha “in sé” la conoscenza delle leggi del quadrato? Dimostrazione falsa, ma costitutiva di un “mito pedagogico” democratico che va da Socrate a Comenius, a Dewey, a Skinner… e che chiunque si sia occupato di scuola ha assunto proprio come “mito fondativo” del suo lavoro. “Insegnare tutto a tutti” come diceva Comenius.
Contemporaneamente, nella storia della nostra civiltà, il sapere e la conoscenza si sono progressivamente, ma con velocità assai differenziate, incorporate nella produzione stessa della ricchezza
Ma nello sviluppo e articolazione delle diverse formazioni economico sociali, e dei diversi modi di produzione quel “valore universale” si è storicamente interpretato in modalità assai diverse, assumendo valori sociali (ed economici) storicamente determinati, sotto le forme delle modalità di riproduzione culturale e delle istituzioni “specializzate” per “l’istruzione”.

2.    Per esempio, nella prima rivoluzione industriale il livello di istruzione del lavoro era ininfluente rispetto alla produttività del lavoro; la “formazione” del lavoratore era nel lavoro stesso, e il lavoro era pura “forza lavoro” in senso marxiano.
I processi produttivi usavano l’energia idraulica e del vapore, una chimica inorganica semplice. Le macchine e gli strumenti del lavoro erano “protesi” dell’energia fisica del lavoratore. La “tecnologia” era frutto dell’invenzione di singoli,  spesso a partire dagli stessi processi produttivi.
L’istruzione pubblica era diretta agli esclusivi livelli elementari e più interpretata come strumento della “nazionalizzazione delle masse e del popolo” (in chiave emancipatrice, alla francese o in chiave conservatrice/stabilizzatrice, alla Bismark), che come valore da immettere nella produzione della ricchezza.
Il valore economico dell’istruzione era “contraciclico”. Cioè indipendente dal ciclo economico ed anzi, richiedendo risorse, era “diseconomico” rispetto all’accumulazione.
L’istruzione superiore era appannaggio delle élites sociali e delle future classi dirigenti, ma il suo contenuto era largamente indipendente dalle problematiche della produzione della ricchezza, e comunque certamente estraneo alla cultura industriale. Le classi dirigenti si formavano attraverso il riferimento alla cultura dei classici (sul significato di tale funzionalità disfunzionale in particolare per il nostro Paese rimando alle analisi di Gramsci. La ”persistenza” esplicita ma soprattutto latente ancora oggi di una gerarchia di valori culturali e sociali che non riesce a liberarsi da tale paradigma, costituisce a mio parere uno dei nodi da sciogliere per la cultura nazionale e per connotare culturalmente un eventuale “popolo riformista”).

3.    Nella seconda rivoluzione industriale (energia elettromeccanica, chimica organica, motore a scoppio) e soprattutto nel suo modello compiuto fordista-taylorista, (produzione standardizzata di massa, grande impresa, politica della domanda, egualitarismo e “democrazia”dei consumatori), l’implementazione della tecnologia nel ciclo produttivo diventa “organica”. La ricerca tecnologica si organizza come prodotto collettivo (l’epoca degli ingegneri), sia in luoghi specializzati della stessa impresa, sia come “esternalità” vantaggiosa fondata sul ruolo dell’istruzione superiore e della ricerca.
L’istruzione di massa si funzionalizza alla produzione di ricchezza, sia come strumento di riproduzione di valori e comportamenti (i “produttori” di massa, ma anche i “consumatori” di un modello egualitario perché tendenzialmente standardizzato), sia, in parte, per le “competenze professionali” richieste da un ciclo produttivo che integra la stessa tecnologia come condizione di produzione di valore.
L’istruzione dunque diviene anche un “valore condizionato” economicamente e il suo “valore universale e incondizionato” si coniuga “funzionalmente con esso (il “prezzo egualitario” potremmo dire, del modello fordista, così ben descritto da una famosa battuta di Ford: “voglio dare a tutti gli americani l’automobile e del colore che preferiscono… purchè sia nero..”).
Inoltre – questione fondamentale che oggi è costitutivamente parte del dibattito sul federalismo – i sistemi di istruzione pubblica, potenzialmente aperti a tutti (la politica della domanda) si configurano come uno dei tre pilastri del welfare e dello Stato Sociale, cresciuto in quel modello storico di formazione sociale (Sanità, Previdenza/Assistenza, Istruzione). Per queste ragioni congiunte la spesa (l’investimento?) in istruzione è coerente al ciclo economico e accompagna l’accumulazione.

4.    La formazione storico sociale di quel modello trovava la sua compattezza e coerenza (il “campo semantico” comune del discorso della politica e dell’economia) nella ricongiunzione tra il modo di produzione di massa della grande impresa, la politica della domanda e della promozione del consumatore di massa, il welfare e lo Stato Sociale, il compromesso fiscale (lo Stato diventa il luogo dell’integrazione sociale di cittadinanza attraverso la spesa pubblica).
Lo Stato, nella sua capacità di integrare l’insieme di tali stratificazioni della formazione sociale, si configura cioè come il “luogo” della cittadinanza. (il territorio dell’appartenenza, delle regole, del diritto, e del “compromesso sociale” che regge la collettività e ne media i conflitti).
E la scuola di massa è parte di tale costrutto. In essa da un lato si invera storicamente (in parte e in approssimazione) l’ideale del valore universale della conoscenza per tutti (il mito pedagogico), dall’altro l’istruzione si offre “realisticamente” come motore e canone di avanzamento sociale e come convenienza di investimento per i singoli e per la collettività. Un doppio valore dal lato dell’offerta e un “doppio sguardo” dal lato della domanda. Ciò ha guidato il comportamento sociale delle famiglie, la domanda del “popolo” verso la scuola.
Sia detto per inciso: la gran parte dei docenti odierni (l’età media del corpo docente supera i 54 anni) ha vissuto ed interpretato tale costrutto… è figlia di quel modello (quorum ego…).
Quando una collega colta e preparata come Maria Boscaino afferma per esempio il “primato del pubblico”come a priori, sta dentro quel costrutto, forse senza rendersi conto che, appunto, il “primato del pubblico” non è un a-priori ontologico, ma una conquista storica, e come tale messa potentemente in discussione, sia nella elaborazione culturale (che si può sempre contrastare e combattere su quel piano), sia purtroppo nei fatti stessi della storia: e li la battaglia richiede qualche cosa d’altro che le affermazioni a priori, o la difesa (auto) di ciò che è stato fatto nel passato.

5.    Accenno solo al fatto che il “compromesso fiscale” è stato nel nostro dopoguerra e in sostanza fino alla fine degli anni ’70 il luogo elettivo della coesione sociale (per esempio nel riequilibrare il rapporto Nord Sud, o nel garantire il protezionismo dei ceti professionistici e sottratti alla concorrenza internazionale, o nel garantire, attraverso la spesa, un set di “consumi sociali” corrispondenti ai diritti sociali).
Probabilmente l’uso esclusivo di tale compromesso è stato il limite strutturale fondamentale della Prima Repubblica e della sua classe politica, intera.
E la scuola c’entra, eccome se c’entra…Per esempio si è favorito, e giustamente, il “tutti a scuola”. Ma non è stato fatto molto per fare una “scuola per tutti”.
I fallimenti che oggi misuriamo con mano nei confronti internazionali (ha ragione Stefanel: possiamo e dobbiamo esercitare tutto l’approccio critico sui risultati delle rilevazioni; ma negare è solo “cattiva coscienza”) cominciano da lì: dal modo in cui è stata utilizzata la spesa pubblica (il compromesso fiscale) per alimentare un apparato che estendeva il suo perimetro, ma lasciava inalterata la sua “profondità sociale”, legata invece ad una gerarchia di valori immutati (ah… il liceo classico…!!).
A mio parere  l’unica scuola che si è davvero misurata con la funzione di “scuola per il popolo” è stata l’elementare. Sarà un caso ma è lì che si verificano i risultati migliori nel confronto internazionale…
Anche qui la Boscaini dovrebbe riflettere: ci ricorda che i padri costituenti hanno detto “… istruzione inferiore obbligatoria e gratuita per almeno otto anni…” e sia chiaro che non erano certo dei pedagogisti; ma i termini “istruzione inferiore” e “almeno otto anni” non significano cinque anni di elementari e tre di media come li abbiamo conosciuti nell’ordinamento…. Bensì si riferiscono ad un set di saperi, conoscenze, competenze da consegnare in modo “eguale” a tutti i cittadini, perché corrispondenti ad un loro “diritto al sapere” come “valore universale”
Nel paragrafo successivo dello stesso articolo della Costituzione, sempre i padri costituenti, affermando che l’istruzione superiore era aperta a tutti, ne sostengono il “valore condizionato” economicamente …per “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi…” la Repubblica provvede con sussidi e aiuti da distribuire “per concorso”..
Affermare che l’ordinamento, ben prima della Gelmini è stato da sempre “sconnesso” con lo spirito costituzionale è azzardato? Se non lo è, una buona analisi delle responsabilità di una intera classe politica e di un ceto professionale servirebbe come premessa ad pogni ipotesi riformatrice

6.   E’ andata davvero così? Il “primato del pubblico” interpretato dallo Stato e dal suo compromesso fiscale ha davvero realizzato l’uguaglianza del diritto all’istruzione inferiore? L’istruzione superiore e la sua fruizione sono state davvero governate come “valore condizionato”? O non piuttosto realizzate in contro gradiente con la distribuzione del reddito: i molti con poco hanno pagato il “diritto” all’istruzione superiore dei pochi con molto (certamente è andata così per l’università…).
Fuori da polemica: qui si misura la contraddizione di fondo tra la vocazione universalistica del welfare e dello Stato Sociale, e i differenziali reali del compromesso fiscale. Quando la contraddizione ha superato il limite della compatibilità si è aperta la crisi dello Stato Sociale (di “quello” Stato Sociale), la crisi fiscale dello stato, il corrompimento radicale del compromesso fiscale e della sua funzione di strumento di coesione sociale (la cittadinanza integrata attraverso la spesa pubblica). Ma anche la crisi di una classe politica incapace di trovare altri elementi  e strategie di sviluppo. Ma anche la crisi dello Stato tout court come luogo di arrivo del processo di integrazione dell’individuo nel cittadino. Luogo “esclusivo” per certe concezioni della cittadinanza (bisognerebbe tornarci a riflettere su cosa è la cittadinanza oggi).

7.    Il precipitare di queste condizioni si è avuto, nel nostro Paese, a partire dagli anni ’80. Basterebbe ricordare che in un decennio il debito pubblico è raddoppiato, il paese è andato incontro ad una progressiva deindustrializzazione, la politica monetaria ha coperto sia lo spostamento della ricchezza nazionale verso i dei redditi di impresa rispetto a quelli da lavoro (contro offensiva storica), sia la scarsa competitività internazionale del capitalismo italiano. Si è disfatto quel compromesso sociale che aveva portato un paese analfabeta e contadino a diventare, nell’arco di un trentennio la settima potenza industriale.
Ma “questa” crisi dello Stato, così specifica della storia del nostro Paese si intreccia con quella assolutamente generale dell’affievolirsi della funzione dello Stato come luogo delle regole e del diritto, nei processi di internazionalizzazione  di unificazione mondiale del mercato (la cosiddetta globalizzazione). Dunque non è cosa che sia risolvibile nel solo nostro confronto politico.
Che la risposta a tale crisi da parte della cultura politica, economica, o della cultura tout court del nostro Paese sia stata quella del cosiddetto “federalismo” (per come la si è elaborata: ma ho già speso troppe parole di esortazione ad una buona pulizia semantica) testimonia solo del suo ritardo e della sua incapacità a leggere e interpretare quella crisi. In questo senso è assolutamente speculare all’atteggiamento di chi vede nel federalismo la “causa” di tutti i mali possibili, e non l’effetto di processi storici radicali.
La crisi dello Stato, per le condizioni nelle quali si afferma, è però insieme la perdita del “popolo”. E questa dovrebbe essere la preoccupazione fondamentale, altro che disquisire sui poteri e le possibili deviazioni o sciocchezze folkloristico/culturali della regionalizzazione..

8.   La terza rivoluzione industriale (elettronica e microelettronica, energia nucleare, biochimica, scienza dei materiali) capovolge il rapporto tra “produzione di merci” e “conoscenza”, integrando quest’ultima totalmente nella produzione della ricchezza.
Per la produzione e circolazione della ricchezza l’appropriazione del plus valore del lavoro, come direbbe Marx  “è davvero poca cosa” (la frase è di Marx stesso: ogni tanto vedeva in anticipo). Sono il livello, la velocità, la profondità dell’integrazione tra produzione, consumo, riproduzione garantiti dalla stessa tecnologia “intelligente” sia dei processi produttivi, sia della comunicazione, a realizzare la ricchezza.
La “finanziarizzazione dell’economia” e la sua mondializzazione corrispondono a tali processi e la costruzione delle oligarchie esclusive legate a tale finanziarizzazione ridisegna lo schema dei poteri e della potestà deliberativa nella formazione economico sociale corrispondente.
Questo “modo di produzione” ha bisogno di grandi talenti e dunque “predica” il valore della conoscenza, dei saperi, dell’istruzione. (Si vedano i documenti UE dalla “società della conoscenza” alle “competenze”. Ho scritto altrove per una analisi critica sulla “ideologia” della società della conoscenza. Vedi Società della conoscenza? Realtà e ideologie su www.scuolaoggi.org). Dunque sembrerebbe delineare una ulteriore tappa dell’inveramento “storico” del valore universale del sapere quale ci è stato tramandato dal protoilluminismo del V secolo ateniese attraverso quello che ho chiamato il “mito pedagogico”.
Ma il modo di produzione della terza rivoluzione industriale, mentre integra talenti di grande livello nella produzione stessa della ricchezza, è in grado di valorizzarli solo selettivamente, nel momento in cui si presentano sul mercato (e allora si chiamano “competenze”). Non è un caso che si parli di merito e meritocrazia o di ”ascensore sociale”: tutte categorie “selettive” (anche l’ascensore è un contenitore “piccolo”).
Per semplificare: mezzo miliardo di uomini lavorano nelle imprese della terza rivoluzione industriale nei paesi “dell’occidente” usufruendo (ancora…) dei prodotti storici dei sistemi di diritti e di welfare maturati dalla formazione sociale precedente… un miliardo e mezzo di uomini lavora in condizioni  di ambiente e diritti lontanissime da quelle di cui godono i primi, ma non diverse per la tecnologia utilizzata né per il mercato dei beni prodotti. Dove andrà la dinamica del “mercato mondiale”, o dove sapremo guidarla? Verso l’alto, verso il basso, ad una “buona mediazione”? Questa è la sfida (vedi Pomigliano…). Altro che “nuovo patto sociale”…

9.   Ciò che, per ora, ha prodotto la terza rivoluzione industriale è una progressiva segmentazione sociale. La figura socialmente baricentrica del “lavoratore della grande impresa” fordista o è scomparsa o ha perduto il valore baricentrico nella determinazione del welfare, del compromesso fiscale, dei diritti sociali. (il suo essere “riferimento concreto” della narrazione dell’eguaglianza sociale)
La segmentazione sociale ha approfondito i differenziali non solo di reddito, ma di distribuzione delle altre componenti del lavoro (autonomia, responsabilità, protezioni, qualificazione ecc…)
Confrontate per esempio sotto il profilo di tutte queste variabili la condizione di un artigiano della piccola manutenzione domestica: larga autonomia operativa (può anche decidere di rifiutare un lavoro), modesta formazione professionale e modestissima formazione culturale, buon reddito. Un docente: intrinseca autonomia professionale, ma vincoli spazio temporali  e procedurali nell’esercizio, alta qualificazione scolastica, reddito men che mediocre.
E alla base della dispersione sociale troverete un nuovo proletariato nel quale insieme agli immigrati a bassa qualificazione professionale, stanno i disoccupati intellettuali ad altra scolarizzazione.
Tale segmentazione e polarizzazione della stratificazione sociale nel nostro Paese (abbiamo il più alto indice di Gini dell’Europa) si è per giunta legata a processi “profondi” e di lunga durata della sua storia unitaria (il protezionismo verso i ceti medi professionali, il peso della burocrazia pubblica, i differenziali di produttività territoriale, fino al controllo territoriale da parte della malavita organizzata).

10.  In rapporto al sistema di istruzione il fatto che l’apparente “promozione della società della conoscenza” si coniughi con la selettività e la segmentazione del modello sociale e con la riduzione al mercato della conoscenza stessa, ripropone la separazione del “doppio valore” dell’istruzione  che sembrava avere trovato una ricombinazione storica, sia pure deformata, nel modello fordista e nella configurazione di massa dell’istruzione stessa.
Non a caso alle categorie (in parte ideologiche) della società della conoscenza, delle competenze, della meritocrazia, si affiancano quelle “economiche” dell’investimento in istruzione.
Se non si casca nella trappola della giaculatoria enfatica (investire per il futuro… l’istruzione come investimento produttivo… ecc…) il “costrutto” investimento richiama le condizioni di redditività, il dove il quando e il cosa investire, e soprattutto il “per cosa”.
Inutile parlare di investimento in assenza di una “idea di sviluppo” capace di disegnare i prossimi (almeno) dieci anni… (se ne potrebbe parlare più ampiamente in altra occasione).
Ma, e qui sta il punto, i sistemi di istruzione massificati hanno assunto una loro “autonomia” rispetto alle dinamiche economiche, poiché il loro sviluppo e ascritto al sistema dei diritti, del compromesso di spesa sociale, sono “apparati autoconsistenti”.
In questo senso si presentano a rischio contraciclico (nelle condizioni della prima rivoluzione industriale). Si spende molto, per avere talenti all’altezza, ma se ne possono valorizzare pochi nel modo di produzione moderno, e sempre all’insegna della “flessibilità” e del mutamento.
Al di là del richiamo esortativo per catturare il consenso, la domanda è secca: l’istruzione di massa conviene?
Tra i “due valori” (quello universale del sapere e quello condizionato economicamente del suo “uso sociale e produttivo”) si è in realtà aperta una contraddizione che investe come tale tutti i sistemi di istruzione quali sono sorti e affermati con la storia degli stati nazionali.
E’ una svolta di fase storica.
Per il nostro paese occorre aggiungere a tutto ciò il carattere specifico delle contraddizioni accennate nei punti precedenti rispetto alle questioni dei caratteri del welfare, del compromesso fiscale, della vera e propria crisi dello Stato come intelaiatura della cittadinanza.
E’ qui che il popolo scompare o si inabissa e non si fa trovare dal nostro riformismo. Ma è qui che i nostri rimpianti per ciò che si è andato dissolvendo e i tentativi di resistere sulla base di essi, valgono solo come scongiuri o giaculatorie. Come che sia strumenti di “pensiero magico”.


Io non ho nessun entusiasmo per la predicazione federalista.

Preferisco parlare di ridistribuzione di responsabilità, deconcentrazione dei poteri, decentramento amministrativo, razionalizzazione delle tecnostrutture operative della programmazione territoriale.

Tutte cose fatte in molti paesi negli anni scorsi, di fronte alla fase critica degli stati nazionali, dal Regno Unito, alla “centralistica” Francia (vedere la riforma delle municipalità: il nostro enfatico federalismo non è stato capace neppure di quello).

Le rigidità che nota Stefanel nelle mie elaborazioni provengono anche dalla preoccupazione di tentare di “ripulire” l’alone mediatico che circonda la predicazione federalista… determinare con precisione le condizioni del processo per garantire che esso corrisponda a maturazione dei diritti sociali e non al contrario, che promuova esercizio anche selettivo della democrazia rispetto ai risultati delle classi dirigenti locali, privandole della copertura del compromesso fiscale ormai degradato, contribuisca a costruire il “primato del pubblico” non come un apritori ideologico, ma come un risultato operativo capace di riaggregare un “popolo” che nel “pubblico” ritrovi identità collettiva, convenienza di interessi, compromesso sensato e progressivo dei conflitti.

E, perché no? Uno spazio per la costruzione di un modello di cittadinanza che non sia solo la riconduzione del soggetto allo Stato.

Se quello che purtroppo ormai chiamiamo “federalismo” dandone per scontata la semantica è una occasione per mettere in moto questa intera partita io sono, a quelle condizioni, per cogliere appieno l’occasione.