Riformismo senza popolo
di Franco De Anna da
Pavone Risorse,
17.9.2010
Ho sempre pensato
occorresse guardare alla la scuola, come alla Chiesa “.. ecclesia
sempre reformanda..” così la scuola.
I motivi sono così
tanti che non posso farne analisi accurata e completa in questa
sede. Spero che alcuni emergano tra le righe della argomentazione
che segue.
Ciò che oggi mi pare
preoccupante e che rappresenti il punto di maturazione di un
processo di smarrimento almeno ventennale, non è che cambiamenti,
supposte riforme, “epocalità” disinvoltamente dichiarate si
susseguano ai ritmi impropri della “politica politicante”, quanto di
assistere, a prescindere dagli schieramenti e dalle opzioni
politiche, ad un “riformismo senza popolo”.
Chi sostiene, spesso
con assertività degna di miglior causa, che non si può riformare la
scuola senza la partecipazione degli insegnanti, dice una verità che
è però solo una “traccia” di quella ben più inquietante, strutturale
e caratterizzante “questa” fase storica, costituita dalla assenza o
evanescenza nelle politiche riformatrici (e non solo della scuola)
non dico del “consenso popolare” (il consenso soprattutto oggi è una
merce che si acquista a prezzi più o meno elevati) ma da quel mix di
“interessi, mobilitazione, pedagogia politica, partecipazione,
identità collettiva, speranze di futuro” che può dare senso ad una
impresa che non operi solamente nel breve periodo.
Per la scuola questa
condizione (e non solo dunque il consenso dei docenti), è tanto più
essenziale se è vera la sua caratteristica richiamata all’inizio:…sempre
reformanda
La domanda “politica”
vera, e carica di futuro possibile, è dunque quella relativa a dove
e come trovare il “popolo” che dia forza, legittimità, ragione
storica, interessi, appartenenze collettive, futuro alla scuola ed
al sistema di istruzione, che non si offra semplicemente come campo
di intervento di questo o quel ministro di turno.
Leggo gli interventi
sulle prospettive federaliste contenuti in questa pagina, e, a parte
ovviamente quelli del sottoscritto (sono straordinari la perplessità
e lo scetticismo che suscitano le proprie opinioni quando siano
espresse da altri..) trovo che abbiano tutti ragione, anche quando
siano contraddittori tra loro. O meglio che tutti abbiano delle
“buone ragioni”.
Lo affermo non per
tentare accordi impossibili, ma perché trovo che in realtà i diversi
interventi siano assolutamente centrati e coerenti, ma a partire da
un preliminare, non detto, costituito dal “campo” delle
argomentazioni la cui definizione rimane sullo sfondo.
Non vorrei ripetere un
ritornello, ma la fase storica che ci ritroviamo a vivere ha
modificato/modifica proprio il “campo di verità” dalle coordinate
del quale acquistano semantica riconoscibile e discriminabile le
nostre affermazioni.
Cito solo tre elementi
di radicale mutamento che, del resto, si ri-declinano in mille modi
nel dibattito socio politico culturale attuale
1) Lo sviluppo dei
saperi e delle conoscenze, dei loro modi di produzione, di
riproduzione e circolazione. Non solo è sconvolta “l’enciclopedia
dei saperi” (cara fonte ispiratrice del “fare scuola”) ma se ne
rende “improponibile” ogni altra fattura.
2) La
progressiva “obsolescenza” degli Stati nazionali come contenitori e
territori delle regole e del diritto (dunque riferimenti essenziali
di “costruzione di cittadinanza”). I sistemi di istruzione,
costruiti insieme agli stati nazionali e come parte fondamentale
delle loro istituzioni accompagnano tale obsolescenza trovandosi
progressivamente privati del referente e della funzione “nazionale”
(esprimetela in vari modi: costruzione della cittadinanza,
nazionalizzazione delle masse, alfabetizzazione del popolo,
realizzazione del “diritto” all’istruzione… sono “modi” che
contraddistinguono diverse ipotesi e significati, ma stanno tutti
all’interno del rapporto “funzionale e organico” tra sistemi di
istruzione e stato nazionale).
3) La connessione
sempre più stretta, quasi organica tra produzione della ricchezza
(trasformazione della natura, impresa, mercato) e conoscenza.
L’incorporazione di sapere nella produzione e più in generale nello
sviluppo economico ha capovolto il rapporto tra produzione di merci
e produzione di conoscenza. Ciò modifica anche radicalmente il
significato “sociale” ed economico dell’istruzione: non (solo) un
diritto universale, ma un bene economico. Come tale “non universale”
per definizione. (Se tanti disinvolti e superficiali sostenitori del
valore di investimento della spesa per la scuola si provassero a
immettere qualche pensiero critico sulle categorie che utilizzano
nella polemica politica…. Se scelgono il “campo semantico”
dell’economia dovrebbero anche indicare la convenienza
dell’investimento, la selezione delle modalità e degli oggetti su
cui investire, le condizioni di redditività… e allora si
scoprirebbero alcune carte “interessanti” sulle quali invece, si
sorvola nella facile polemica…).
Il sapere e la conoscenza sono da un lato “valori incondizionati”.
Ma dall’altro sono e sempre più “produzione” e si scambiano sul
mercato sotto forma di “competenze”. (Vi dice nulla l’enfasi spesso
ideologica che accompagna la problematica della società della
conoscenza e la questione delle competenze nel dibattito europeo?).
Se assumiamo queste tre
coordinate come comune “campo” delle nostre argomentazioni, allora
anche le opinioni diverse diventano comprensibili e oggetto di
confronto. Non si corre il rischio cioè di “dare ragione a tutti” ma
neppure di considerare un avversario semplicemente chi muove i
propri argomenti su un campo diverso. (Per esempio è assolutamente
chiaro che la collega Boscaino nel suo
La scuola pubblica tra Padania e azienda si muove usando
coordinate del tutto diverse, e ciò che afferma è del tutto coerente
con esse. Rimane da vedere se quelle coordinate indichino
adeguatamente ed efficacemente il paesaggio della realtà attuale e i
percorsi utili a modificarla, secondo quel comandamento del ..semper
reformanda).
Ma, soprattutto, si dà
fondamento alla domanda (non per questo meno cruciale) di come,
dove, con chi costruire/costituire quel popolo che manca al
riformismo, anche a quello più avvertito e competente.
A partire da queste tre coordinate vorrei sviluppare qualche
riflessione che recuperi il tema del Federalismo, anche assumendo
come spunto critico quelle che Stefanel (La
questione federalista) indica come “rigidità” contenute
nel mio intervento precedente. (Federalismo, spesa e
investimenti nel sistema di istruzione)
La riflessione riguarda
il “doppio valore” dell’istruzione e la sua declinazione rispetto
alla “formazione economico sociale”, in particolare quella del
nostro Paese, quale si è andata consolidando e trasformando dagli
anni della Costituzione ad oggi.
Uso ovviamente una cadenza ”metastorica” consapevole che ogni
affermazione rimanderebbe a ben altro spessore di analisi.
In che cosa consiste tale “doppio valore”?
1. Nella
nostra “civiltà”, a partire dal “proto illuminismo” del V secolo
ateniese, il sapere e la conoscenza si sono configurati come valore
“universale”, un tratto della specie, la “natura” (seconda)
dell’uomo stesso. Dunque un valore universale, incondizionato.
Intrinsecamente “democratico” proprio perché patrimonio potenziale
della “specie” stessa. Ricorderete quel Socrate insopportabile che
nel Fedone cerca di dimostrare che anche lo schiavo ha “in sé” la
conoscenza delle leggi del quadrato? Dimostrazione falsa, ma
costitutiva di un “mito pedagogico” democratico che va da Socrate a
Comenius, a Dewey, a Skinner… e che chiunque si sia occupato di
scuola ha assunto proprio come “mito fondativo” del suo lavoro.
“Insegnare tutto a tutti” come diceva Comenius.
Contemporaneamente, nella storia della nostra civiltà, il sapere e
la conoscenza si sono progressivamente, ma con velocità assai
differenziate, incorporate nella produzione stessa della ricchezza
Ma nello sviluppo e articolazione delle diverse formazioni economico
sociali, e dei diversi modi di produzione quel “valore universale”
si è storicamente interpretato in modalità assai diverse, assumendo
valori sociali (ed economici) storicamente determinati, sotto le
forme delle modalità di riproduzione culturale e delle istituzioni
“specializzate” per “l’istruzione”.
2. Per
esempio, nella prima rivoluzione industriale il livello di
istruzione del lavoro era ininfluente rispetto alla produttività del
lavoro; la “formazione” del lavoratore era nel lavoro stesso, e il
lavoro era pura “forza lavoro” in senso marxiano.
I processi produttivi usavano l’energia idraulica e del vapore, una
chimica inorganica semplice. Le macchine e gli strumenti del lavoro
erano “protesi” dell’energia fisica del lavoratore. La “tecnologia”
era frutto dell’invenzione di singoli, spesso a partire dagli
stessi processi produttivi.
L’istruzione pubblica era diretta agli esclusivi livelli elementari
e più interpretata come strumento della “nazionalizzazione delle
masse e del popolo” (in chiave emancipatrice, alla francese o in
chiave conservatrice/stabilizzatrice, alla Bismark), che come valore
da immettere nella produzione della ricchezza.
Il valore economico dell’istruzione era “contraciclico”. Cioè
indipendente dal ciclo economico ed anzi, richiedendo risorse, era
“diseconomico” rispetto all’accumulazione.
L’istruzione superiore era appannaggio delle élites sociali e delle
future classi dirigenti, ma il suo contenuto era largamente
indipendente dalle problematiche della produzione della ricchezza, e
comunque certamente estraneo alla cultura industriale. Le classi
dirigenti si formavano attraverso il riferimento alla cultura dei
classici (sul significato di tale funzionalità disfunzionale in
particolare per il nostro Paese rimando alle analisi di Gramsci. La
”persistenza” esplicita ma soprattutto latente ancora oggi di una
gerarchia di valori culturali e sociali che non riesce a liberarsi
da tale paradigma, costituisce a mio parere uno dei nodi da
sciogliere per la cultura nazionale e per connotare culturalmente un
eventuale “popolo riformista”).
3. Nella
seconda rivoluzione industriale (energia elettromeccanica, chimica
organica, motore a scoppio) e soprattutto nel suo modello compiuto
fordista-taylorista, (produzione standardizzata di massa, grande
impresa, politica della domanda, egualitarismo e “democrazia”dei
consumatori), l’implementazione della tecnologia nel ciclo
produttivo diventa “organica”. La ricerca tecnologica si organizza
come prodotto collettivo (l’epoca degli ingegneri), sia in luoghi
specializzati della stessa impresa, sia come “esternalità”
vantaggiosa fondata sul ruolo dell’istruzione superiore e della
ricerca.
L’istruzione di massa si funzionalizza alla produzione di ricchezza,
sia come strumento di riproduzione di valori e comportamenti (i
“produttori” di massa, ma anche i “consumatori” di un modello
egualitario perché tendenzialmente standardizzato), sia, in parte,
per le “competenze professionali” richieste da un ciclo produttivo
che integra la stessa tecnologia come condizione di produzione di
valore.
L’istruzione dunque diviene anche un “valore condizionato”
economicamente e il suo “valore universale e incondizionato” si
coniuga “funzionalmente con esso (il “prezzo egualitario” potremmo
dire, del modello fordista, così ben descritto da una famosa battuta
di Ford: “voglio dare a tutti gli americani l’automobile e del
colore che preferiscono… purchè sia nero..”).
Inoltre – questione fondamentale che oggi è costitutivamente parte
del dibattito sul federalismo – i sistemi di istruzione pubblica,
potenzialmente aperti a tutti (la politica della domanda) si
configurano come uno dei tre pilastri del welfare e dello Stato
Sociale, cresciuto in quel modello storico di formazione sociale
(Sanità, Previdenza/Assistenza, Istruzione). Per queste ragioni
congiunte la spesa (l’investimento?) in istruzione è coerente al
ciclo economico e accompagna l’accumulazione.
4. La
formazione storico sociale di quel modello trovava la sua
compattezza e coerenza (il “campo semantico” comune del discorso
della politica e dell’economia) nella ricongiunzione tra il modo di
produzione di massa della grande impresa, la politica della domanda
e della promozione del consumatore di massa, il welfare e lo Stato
Sociale, il compromesso fiscale (lo Stato diventa il luogo
dell’integrazione sociale di cittadinanza attraverso la spesa
pubblica).
Lo Stato, nella sua capacità di integrare l’insieme di tali
stratificazioni della formazione sociale, si configura cioè come il
“luogo” della cittadinanza. (il territorio dell’appartenenza, delle
regole, del diritto, e del “compromesso sociale” che regge la
collettività e ne media i conflitti).
E la scuola di massa è parte di tale costrutto. In essa da un lato
si invera storicamente (in parte e in approssimazione) l’ideale del
valore universale della conoscenza per tutti (il mito pedagogico),
dall’altro l’istruzione si offre “realisticamente” come motore e
canone di avanzamento sociale e come convenienza di investimento per
i singoli e per la collettività. Un doppio valore dal lato
dell’offerta e un “doppio sguardo” dal lato della domanda. Ciò ha
guidato il comportamento sociale delle famiglie, la domanda del
“popolo” verso la scuola.
Sia detto per inciso: la gran parte dei docenti odierni (l’età media
del corpo docente supera i 54 anni) ha vissuto ed interpretato tale
costrutto… è figlia di quel modello (quorum ego…).
Quando una collega colta e preparata come Maria Boscaino afferma per
esempio il “primato del pubblico”come a priori, sta dentro
quel costrutto, forse senza rendersi conto che, appunto, il “primato
del pubblico” non è un a-priori ontologico, ma una conquista
storica, e come tale messa potentemente in discussione, sia nella
elaborazione culturale (che si può sempre contrastare e combattere
su quel piano), sia purtroppo nei fatti stessi della storia: e li la
battaglia richiede qualche cosa d’altro che le affermazioni a
priori, o la difesa (auto) di ciò che è stato fatto nel passato.
5. Accenno
solo al fatto che il “compromesso fiscale” è stato nel nostro
dopoguerra e in sostanza fino alla fine degli anni ’70 il luogo
elettivo della coesione sociale (per esempio nel riequilibrare il
rapporto Nord Sud, o nel garantire il protezionismo dei ceti
professionistici e sottratti alla concorrenza internazionale, o nel
garantire, attraverso la spesa, un set di “consumi sociali”
corrispondenti ai diritti sociali).
Probabilmente l’uso esclusivo di tale compromesso è stato il limite
strutturale fondamentale della Prima Repubblica e della sua classe
politica, intera.
E la scuola c’entra, eccome se c’entra…Per esempio si è favorito, e
giustamente, il “tutti a scuola”. Ma non è stato fatto molto per
fare una “scuola per tutti”.
I fallimenti che oggi misuriamo con mano nei confronti
internazionali (ha ragione Stefanel: possiamo e dobbiamo esercitare
tutto l’approccio critico sui risultati delle rilevazioni; ma negare
è solo “cattiva coscienza”) cominciano da lì: dal modo in cui è
stata utilizzata la spesa pubblica (il compromesso fiscale) per
alimentare un apparato che estendeva il suo perimetro, ma lasciava
inalterata la sua “profondità sociale”, legata invece ad una
gerarchia di valori immutati (ah… il liceo classico…!!).
A mio parere l’unica scuola che si è davvero misurata con la
funzione di “scuola per il popolo” è stata l’elementare. Sarà un
caso ma è lì che si verificano i risultati migliori nel confronto
internazionale…
Anche qui la Boscaini dovrebbe riflettere: ci ricorda che i padri
costituenti hanno detto “… istruzione inferiore obbligatoria e
gratuita per almeno otto anni…” e sia chiaro che non erano certo dei
pedagogisti; ma i termini “istruzione inferiore” e “almeno otto
anni” non significano cinque anni di elementari e tre di media come
li abbiamo conosciuti nell’ordinamento…. Bensì si riferiscono ad un
set di saperi, conoscenze, competenze da consegnare in modo “eguale”
a tutti i cittadini, perché corrispondenti ad un loro “diritto al
sapere” come “valore universale”
Nel paragrafo successivo dello stesso articolo della Costituzione,
sempre i padri costituenti, affermando che l’istruzione superiore
era aperta a tutti, ne sostengono il “valore condizionato”
economicamente …per “i capaci e meritevoli, anche se privi di
mezzi…” la Repubblica provvede con sussidi e aiuti da distribuire
“per concorso”..
Affermare che l’ordinamento, ben prima della Gelmini è stato da
sempre “sconnesso” con lo spirito costituzionale è azzardato? Se non
lo è, una buona analisi delle responsabilità di una intera classe
politica e di un ceto professionale servirebbe come premessa ad
pogni ipotesi riformatrice
6. E’
andata davvero così? Il “primato del pubblico” interpretato dallo
Stato e dal suo compromesso fiscale ha davvero realizzato
l’uguaglianza del diritto all’istruzione inferiore? L’istruzione
superiore e la sua fruizione sono state davvero governate come
“valore condizionato”? O non piuttosto realizzate in contro
gradiente con la distribuzione del reddito: i molti con poco hanno
pagato il “diritto” all’istruzione superiore dei pochi con molto
(certamente è andata così per l’università…).
Fuori da polemica: qui si misura la contraddizione di fondo tra la
vocazione universalistica del welfare e dello Stato Sociale, e i
differenziali reali del compromesso fiscale. Quando la
contraddizione ha superato il limite della compatibilità si è aperta
la crisi dello Stato Sociale (di “quello” Stato Sociale), la crisi
fiscale dello stato, il corrompimento radicale del compromesso
fiscale e della sua funzione di strumento di coesione sociale (la
cittadinanza integrata attraverso la spesa pubblica). Ma anche la
crisi di una classe politica incapace di trovare altri elementi e
strategie di sviluppo. Ma anche la crisi dello Stato tout court come
luogo di arrivo del processo di integrazione dell’individuo nel
cittadino. Luogo “esclusivo” per certe concezioni della cittadinanza
(bisognerebbe tornarci a riflettere su cosa è la cittadinanza oggi).
7. Il
precipitare di queste condizioni si è avuto, nel nostro Paese, a
partire dagli anni ’80. Basterebbe ricordare che in un decennio il
debito pubblico è raddoppiato, il paese è andato incontro ad una
progressiva deindustrializzazione, la politica monetaria ha coperto
sia lo spostamento della ricchezza nazionale verso i dei redditi di
impresa rispetto a quelli da lavoro (contro offensiva storica), sia
la scarsa competitività internazionale del capitalismo italiano. Si
è disfatto quel compromesso sociale che aveva portato un paese
analfabeta e contadino a diventare, nell’arco di un trentennio la
settima potenza industriale.
Ma “questa” crisi dello Stato, così specifica della storia del
nostro Paese si intreccia con quella assolutamente generale
dell’affievolirsi della funzione dello Stato come luogo delle regole
e del diritto, nei processi di internazionalizzazione di
unificazione mondiale del mercato (la cosiddetta globalizzazione).
Dunque non è cosa che sia risolvibile nel solo nostro confronto
politico.
Che la risposta a tale crisi da parte della cultura politica,
economica, o della cultura tout court del nostro Paese sia stata
quella del cosiddetto “federalismo” (per come la si è elaborata: ma
ho già speso troppe parole di esortazione ad una buona pulizia
semantica) testimonia solo del suo ritardo e della sua incapacità a
leggere e interpretare quella crisi. In questo senso è assolutamente
speculare all’atteggiamento di chi vede nel federalismo la “causa”
di tutti i mali possibili, e non l’effetto di processi storici
radicali.
La crisi dello Stato, per le condizioni nelle quali si afferma, è
però insieme la perdita del “popolo”. E questa dovrebbe essere la
preoccupazione fondamentale, altro che disquisire sui poteri e le
possibili deviazioni o sciocchezze folkloristico/culturali della
regionalizzazione..
8. La
terza rivoluzione industriale (elettronica e microelettronica,
energia nucleare, biochimica, scienza dei materiali) capovolge il
rapporto tra “produzione di merci” e “conoscenza”, integrando
quest’ultima totalmente nella produzione della ricchezza.
Per la produzione e circolazione della ricchezza l’appropriazione
del plus valore del lavoro, come direbbe Marx “è davvero poca
cosa” (la frase è di Marx stesso: ogni tanto vedeva in
anticipo). Sono il livello, la velocità, la profondità
dell’integrazione tra produzione, consumo, riproduzione garantiti
dalla stessa tecnologia “intelligente” sia dei processi produttivi,
sia della comunicazione, a realizzare la ricchezza.
La “finanziarizzazione dell’economia” e la sua mondializzazione
corrispondono a tali processi e la costruzione delle oligarchie
esclusive legate a tale finanziarizzazione ridisegna lo schema dei
poteri e della potestà deliberativa nella formazione economico
sociale corrispondente.
Questo “modo di produzione” ha bisogno di grandi talenti e dunque
“predica” il valore della conoscenza, dei saperi, dell’istruzione.
(Si vedano i documenti UE dalla “società della conoscenza” alle
“competenze”. Ho scritto altrove per una analisi critica sulla
“ideologia” della società della conoscenza. Vedi Società della
conoscenza? Realtà e ideologie su
www.scuolaoggi.org). Dunque sembrerebbe delineare una ulteriore
tappa dell’inveramento “storico” del valore universale del sapere
quale ci è stato tramandato dal protoilluminismo del V secolo
ateniese attraverso quello che ho chiamato il “mito pedagogico”.
Ma il modo di produzione della terza rivoluzione industriale, mentre
integra talenti di grande livello nella produzione stessa della
ricchezza, è in grado di valorizzarli solo selettivamente, nel
momento in cui si presentano sul mercato (e allora si chiamano
“competenze”). Non è un caso che si parli di merito e meritocrazia o
di ”ascensore sociale”: tutte categorie “selettive” (anche
l’ascensore è un contenitore “piccolo”).
Per semplificare: mezzo miliardo di uomini lavorano nelle imprese
della terza rivoluzione industriale nei paesi “dell’occidente”
usufruendo (ancora…) dei prodotti storici dei sistemi di diritti e
di welfare maturati dalla formazione sociale precedente… un miliardo
e mezzo di uomini lavora in condizioni di ambiente e diritti
lontanissime da quelle di cui godono i primi, ma non diverse per la
tecnologia utilizzata né per il mercato dei beni prodotti. Dove
andrà la dinamica del “mercato mondiale”, o dove sapremo guidarla?
Verso l’alto, verso il basso, ad una “buona mediazione”? Questa è la
sfida (vedi Pomigliano…). Altro che “nuovo patto sociale”…
9. Ciò
che, per ora, ha prodotto la terza rivoluzione industriale è una
progressiva segmentazione sociale. La figura socialmente
baricentrica del “lavoratore della grande impresa” fordista o è
scomparsa o ha perduto il valore baricentrico nella determinazione
del welfare, del compromesso fiscale, dei diritti sociali. (il suo
essere “riferimento concreto” della narrazione dell’eguaglianza
sociale)
La segmentazione sociale ha approfondito i differenziali non solo di
reddito, ma di distribuzione delle altre componenti del lavoro
(autonomia, responsabilità, protezioni, qualificazione ecc…)
Confrontate per esempio sotto il profilo di tutte queste variabili
la condizione di un artigiano della piccola manutenzione domestica:
larga autonomia operativa (può anche decidere di rifiutare un
lavoro), modesta formazione professionale e modestissima formazione
culturale, buon reddito. Un docente: intrinseca autonomia
professionale, ma vincoli spazio temporali e procedurali
nell’esercizio, alta qualificazione scolastica, reddito men che
mediocre.
E alla base della dispersione sociale troverete un nuovo
proletariato nel quale insieme agli immigrati a bassa qualificazione
professionale, stanno i disoccupati intellettuali ad altra
scolarizzazione.
Tale segmentazione e polarizzazione della stratificazione sociale
nel nostro Paese (abbiamo il più alto indice di Gini dell’Europa) si
è per giunta legata a processi “profondi” e di lunga durata della
sua storia unitaria (il protezionismo verso i ceti medi
professionali, il peso della burocrazia pubblica, i differenziali di
produttività territoriale, fino al controllo territoriale da parte
della malavita organizzata).
10.
In
rapporto al sistema di istruzione il fatto che l’apparente
“promozione della società della conoscenza” si coniughi con la
selettività e la segmentazione del modello sociale e con la
riduzione al mercato della conoscenza stessa, ripropone la
separazione del “doppio valore” dell’istruzione che sembrava avere
trovato una ricombinazione storica, sia pure deformata, nel modello
fordista e nella configurazione di massa dell’istruzione stessa.
Non a caso alle categorie (in parte ideologiche) della società della
conoscenza, delle competenze, della meritocrazia, si affiancano
quelle “economiche” dell’investimento in istruzione.
Se non si casca nella trappola della giaculatoria enfatica
(investire per il futuro… l’istruzione come investimento produttivo…
ecc…) il “costrutto” investimento richiama le condizioni di
redditività, il dove il quando e il cosa investire, e soprattutto il
“per cosa”.
Inutile parlare di investimento in assenza di una “idea di sviluppo”
capace di disegnare i prossimi (almeno) dieci anni… (se ne potrebbe
parlare più ampiamente in altra occasione).
Ma, e qui sta il punto, i sistemi di istruzione massificati hanno
assunto una loro “autonomia” rispetto alle dinamiche economiche,
poiché il loro sviluppo e ascritto al sistema dei diritti, del
compromesso di spesa sociale, sono “apparati autoconsistenti”.
In questo senso si presentano a rischio contraciclico (nelle
condizioni della prima rivoluzione industriale). Si spende molto,
per avere talenti all’altezza, ma se ne possono valorizzare pochi
nel modo di produzione moderno, e sempre all’insegna della
“flessibilità” e del mutamento.
Al di là del richiamo esortativo per catturare il consenso, la
domanda è secca: l’istruzione di massa conviene?
Tra i “due valori” (quello universale del sapere e quello
condizionato economicamente del suo “uso sociale e produttivo”) si è
in realtà aperta una contraddizione che investe come tale tutti i
sistemi di istruzione quali sono sorti e affermati con la storia
degli stati nazionali.
E’ una svolta di fase storica.
Per il nostro paese occorre aggiungere a tutto ciò il carattere
specifico delle contraddizioni accennate nei punti precedenti
rispetto alle questioni dei caratteri del welfare, del compromesso
fiscale, della vera e propria crisi dello Stato come intelaiatura
della cittadinanza.
E’ qui che il popolo scompare o si inabissa e non si fa trovare dal
nostro riformismo. Ma è qui che i nostri rimpianti per ciò che si è
andato dissolvendo e i tentativi di resistere sulla base di essi,
valgono solo come scongiuri o giaculatorie. Come che sia strumenti
di “pensiero magico”.
Io non ho nessun entusiasmo per la predicazione federalista.
Preferisco parlare di
ridistribuzione di responsabilità, deconcentrazione dei poteri,
decentramento amministrativo, razionalizzazione delle tecnostrutture
operative della programmazione territoriale.
Tutte cose fatte in
molti paesi negli anni scorsi, di fronte alla fase critica degli
stati nazionali, dal Regno Unito, alla “centralistica” Francia
(vedere la riforma delle municipalità: il nostro enfatico
federalismo non è stato capace neppure di quello).
Le rigidità che nota
Stefanel nelle mie elaborazioni provengono anche dalla
preoccupazione di tentare di “ripulire” l’alone mediatico che
circonda la predicazione federalista… determinare con precisione le
condizioni del processo per garantire che esso corrisponda a
maturazione dei diritti sociali e non al contrario, che promuova
esercizio anche selettivo della democrazia rispetto ai risultati
delle classi dirigenti locali, privandole della copertura del
compromesso fiscale ormai degradato, contribuisca a costruire il
“primato del pubblico” non come un apritori ideologico, ma come un
risultato operativo capace di riaggregare un “popolo” che nel
“pubblico” ritrovi identità collettiva, convenienza di interessi,
compromesso sensato e progressivo dei conflitti.
E, perché no? Uno
spazio per la costruzione di un modello di cittadinanza che non sia
solo la riconduzione del soggetto allo Stato.
Se quello che purtroppo
ormai chiamiamo “federalismo” dandone per scontata la semantica è
una occasione per mettere in moto questa intera partita io sono, a
quelle condizioni, per cogliere appieno l’occasione.