La dedizione quotidiana di tanti docenti

L'insostenibile declino
di chi deve educare il Paese

Non è mai esistita un'età dell'oro dei docenti presso l'opinione pubblica. I luoghi comuni sono di antica data e duri a morire, ma nascono dai problemi reali irrisolti
È rimasto insoluto per oltre un secolo il problema della convivenza tra la concezione elitaria della cultura e la necessità della scolarizzazione di massa

Le polemiche sui tagli alla scuola e le proteste dei professori precari riportano d'attualità la questione della qualità dell'istruzione in Italia

Domenico Starnone la Repubblica 9.9.2010

C'è un libro che si chiama Il manuale del perfetto professore di Dino Provenzal. Si rivolge agli insegnanti di scuola media di inizio secolo (quelli che Papini partendo da "scuola media" aveva battezzato mezzani). La scuola è rappresentata come luogo di conflitto con gli alunni («il primo e più arduo problema è mantenere la disciplina», ci sono «professori che non oserebbero salire in cattedra una sola volta, senza quel fido compagno che è il registro») ; i docenti si interrogano per capire se sono miserabili impiegati (allora c'era anche chi li chiamava impiagati) o qualcosa in più; si ammette che «non tutti gli insegnanti sono cime»; si racconta la battaglia dura dei professori "rigorosi" contro quelli "lassisti"; si accenna alle piccole corruzioni, al mercato delle lezioni private (prezzo d'epoca: venticinque lire; lo stipendio di un docente era centotrentasei lire; con mille lire ci si poteva comprare sottobanco la licenza); si sottolinea l'avversione dei docenti per la pedagogia e per ogni didattica; si tratteggia l'ottusità degli ispettori ministeriali e, in un'epoca in cui non c'erano la tv e internet, si lancia persino il seguente grido d'allarme: «i giovani non leggono più nulla». Di conseguenza Provenzal così arringa i suoi colleghi: «Se appena puoi cavartela col solo stipendio, segui il mio paterno consiglio: fa' poche ore di lezione e in quelle che ti rimangono libere, studia, leggi, scrivi, passeggia, vivi la vita di tutti gli altri uomini e fuggi lontano dalla scuola quanto più è possibile».

Questo libro è del 1921, in quell'anno era alla terza edizione.

Ce n'è un altro che si chiama Gli insegnanti bocciati, è di Evaristo Breccia. Non si rivolge ai professori ma sostanzialmente alle famiglie. Breccia, dopo aver spulciato negli elaborati degli insegnanti che hanno fatto concorsi a cattedra e sono stati bocciati, si dà da fare per dimostrare al suo pubblico che dall'università viene fuori gente di inimmaginabile ignoranza, che i docenti che non sono mai riusciti a superare un concorso insegnano tranquillamente da anni mentre invece andrebbero licenziati, che l'intero ingranaggio della pubblica istruzione è ormai privo di affidabilità.

Questo libro è del 1957, in quell'anno era alla settima edizione. Rispetto a Provenzal rincara la dose: se la prende con tutti gli insegnanti non di ruolo; bravi per lui sono solo quelli che hanno vinto un concorso: via i precari.

Cito questi due libri a mo' d'esempio, per ricordare che forse non c'è mai stata un'età dell'oro dei docenti, presso l'opinione pubblica. Li cito anche per sottolineare che la crisi della figura del professore non ha inizio col fatale 1968, come il senso comune ripete di continuo, ma ha una lunga storia alle spalle che si può ripercorrere utilmente attraverso la pubblicistica, i romanzi, il cinema (ve li ricordate i professori di Fellini?) e la televisione. Li cito infine perché sono utili per segnalare che i luoghi comuni sulla categoria sono di lunga data, e se sono così duri a morire significa, anche quando sono beceri, che segnalano problemi seri irrisolti.

Voglio dire che la vecchia concezione elitaria degli studi non ha mai fatto veramente i conti, lungo tutto il Novecento, con il problema del diritto allo studio di tutti. Voglio dire che il docente è stato sempre più lasciato solo, dentro strutture inadeguate, con mezzi inadeguati, con una formazione inadeguata, a fare un lavoro mai veramente ed efficacemente ripensato in funzione dell'ostacolo degli ostacoli: la diseguaglianza naturale ed economico-sociale. Voglio dire che un lavoro durissimo, esposto in linea di massima sempre al fallimento (chi insegna con onestà sa che un'istruzione di qualità per tutti è nel migliore dei casi una spinta ideale contraddetta dalla brutalità dei fatti), è stato continuamente umiliato innanzitutto dallo scarsissimo credito che la politica gli ha assegnato, a partire dal momento in cui i docenti non sono più risultati un serbatoio affidabile di voti, e poi dalla sostanziale caduta del valore del titolo di studio. Voglio dire che negli ultimi trent'anni una scuola sempre più povera fatta da docenti sempre più poveri, se l'è dovuta vedere con lo strapotere delle immagini, con il tramonto della cultura del libro, con la perdita di autorità di una serie di profili professionali prima autorevoli che lavoravano con la scrittura, con strumenti tecnici e figure professionali nuove di una potenza formatrice non comparabile con quella della vecchia cattedra.

Concluderei perciò così: la crisi del docente, pensato come formatore di élites, è di vecchia data e comincia con gli albori della scuola di massa; sottoposto a due spinte divergenti (selezionatore autorevole e scontroso di classe dirigente o artefice sempre disponibile di un'istruzione qualitativamente alta per tutti), lasciato solo di fronte a problemi che non poteva risolvere da solo, è finito in stato di stallo, vale a dire nell'impossibilità di tornare alla vecchia funzione di selezionatore classista e, insieme, nell'impossibilità di lavorare in una scuola in grado di assicurare davvero il diritto di tutti a un'istruzione elevata. Crocifisso dunque alla storica incapacità (o impossibilità) della politica e della società civile di reinventare la scuola, oggi l'insegnante è una figura al tramonto, in tragico declino come tante altre figure intellettuali dell'era predigitale? Sì, se si continua a non muovere un dito. O a muoverlo malissimo, aggiungendo danno al danno, e naturalmente spaccando il centesimo.