C’è un futuro per i
nostri Istituti Professionali, in questo difficile avvio del
Riordino Gelmini? Tento qualche prospettiva a partire dal lavoro in
corso con una rete nazionale di Istituti per l’Industria e
l’Artigianato del settore mobile-arredamento.
1. Cominciamo con i
dati, che non appaiono confortanti. Le attese per le iscrizioni agli
Istituti Professionali ed ai Tecnici erano alte: da anni si levano
appelli sulla “necessità” della ripresa di questi indirizzi, in
continuo calo. Soprattutto Confindustria vi ha investito molto con
impegni mediatici ed interventi giornalistici. L’esito è stato
opposto. Il flauto magico delle liceizzazione continua ad attrarre.
Dieci anni fa tecnici e professionali assieme erano oltre il 64% del
totale degli studenti iscritti. Quest’anno i Tecnici sono al 30,9%
(dal 2004 -3,5%; dal 2009 -1,4%); i Professionali sono al 19,8% (dal
2004 -3%; dal 2009 -1,7%; in Lombardia e Veneto il calo supera il
3%, fonte: Miur giugno 2010). Assieme ora, pur costituendo ancora la
scelta prevalente degli adolescenti, sono calati al 50,7% del
totale. Il crollo è evidente ed il sorpasso dei licei è vicino.
Vi è poi la novità, dopo la legge 40/2004, dei percorsi triennali
regionali di Istruzione e Formazione Professionale. Secondo i dati
Isfol questi hanno visto le schiere dei loro alunni passare dai
23.500 dell’anno scolastico 2003-2004 agli oltre 150.000 dell’anno
2008-2009. Di questi la maggioranza si concentra in cinque regioni
del Centro Nord e circa un quarto nella sola Lombardia. Qui, unico
caso a tutt’oggi, questi corsi triennali sono possibili anche negli
istituti statali. Ma in realtà sono attivi, nella quasi totalità,
nei Centri di Formazione regionali e le esperienze negli istituti
statali sembrano dare, nell’ultimo anno, segnali di calo.
2. Cosa significano
questi dati? Innanzitutto occorre ricordare che il settore
dell’istruzione tecnica e professionale, come preparazione
all’ingresso nel mondo del lavoro, è oggi in situazione critica, ma
resta quello decisivo per il futuro dell’istruzione secondaria: lo
ricordava con chiarezza un esperto europeo come Norberto Bottani nel
suo intervento fatto al workshop DiSAL durante il Meeting di Rimini.
Non potendo qui seguirne le ragioni rimando a
quell’intervento .
Se si pensa alla forte domanda nazionale di tecnici diplomati, c’è
poco da rallegrarsi. L’esito delle iscrizioni di questi mesi era
prevedibile: il travaso dell’ex Liceo tecnologico e del Liceo
economico dai Tecnici ai Licei ne è la causa principale. Ma questo
non basta a spiegare sia il costante calo, sia lo stesso fenomeno
nei Professionali. C’è in gioco ben di più e comprenderlo è
indispensabile per affrontare in modo adeguato il futuro di questi
indirizzi e, già ora nelle scuole, l’occasione offerta dall’attuale
Riordino.
Una cosa è certa: la nuova offerta formativa proposta dal Riordino
non ha sortito l’effetto desiderato. Come mai? Su quale direzione
lavorare? Se ci limitiamo ai Professionali, come già diverse voci
hanno rilevato, la crisi va ricercata in una molteplicità di
fattori, tutti già iniziati in passato e confermati dall’attuale
Riordino. Si è iniziato col Progetto ’92, confermato nel 2002: il
progressivo calo delle attività laboratoriali; il corrispondente
aumento di discipline teoriche specie nel biennio; la progressiva
rigidezza organizzativa e di gestione, che ha influito soprattutto
sul rapporto con le aziende e sullo spazio per le esperienze di
lavoro. A questo va aggiunta l’assenza cronica di un sistema di
istruzione superiore, quindi di un effetto di “traino” che sarebbe
derivato da un’offerta formativa di figure professionali ad avanzata
specializzazione.
I Regolamenti attuali, poi, attraverso una rigida interpretazione
del comma 622 della finanziaria 2006 (attuata in Regolamento sul
nuovo obbligo con il DM 22.08.2007) hanno generalizzato i fattori
sopra ricordati. In tutti i curricoli dei bienni tecnici e
professionali si sono inserite le stesse materie: è, ad esempio, il
caso di diritto-economia, fisica e chimica. Questo a prescindere
dall’invito dello stesso DM del 2007 al “rispetto dell’identità
dell’offerta formativa e degli obiettivi che caratterizzano i
curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio”.
Come quindi escludere, nelle scelte delle famiglie, la difficoltà a
capire la differenza tra un biennio nei tecnici da quello dei
professionali? In presenza poi dell’aumento di attenzione (per
fortuna!) da parte di giovani e famiglie verso i percorsi triennali
di Formazione Professionale regionali.
3. Una considerazione a parte va
ripresa sul mancato avvio di un sistema di Istruzione Tecnica
Superiore, pur essendo tutto già delineato sulla carta. Infatti,
mentre ad esempio in Germania o Francia, questo data ormai da un
trentennio, da noi le indicazioni sono state emanate con il DPCM 25
gennaio 2008. Il Decreto (che attua l’art. 13 della finanziaria
2007, in accordo con le Regioni) contiene le Linee guida per la
riorganizzazione (che strano: come si fa a ri-organizzare un sistema
che non esiste?) del Sistema di Istruzione e Formazione Tecnica
Superiore e la costituzione degli I.T.S. Si tratta di uno degli
ultimi atti del ministro Fioroni. Per sua natura giuridica purtroppo
il Decreto manca a tutt’oggi di strumenti operativi e di specifici
stanziamenti di bilancio.
La creazione in Italia di una seria Formazione Tecnico-Professionale
di livello terziario non universitario, si sa, ha diversi nemici, a
cominciare dalle lobby universitarie, oltre al dominio italico della
cultura umanistico-gentiliana che ha sempre guardato al lavoro come
dimensione opposta alla cultura.
4. In questo contesto come si sono
mossi gli Istituti Professionali? Di fatto esiste il rischio (per
tutti) che le novità delle Linee Guida Nazionali siano semplicemente
adottate e non fatte proprie e trasformate in attività formativa
adeguata alla propria realtà. Si sa che la scuola italiana vive, da
tempo, per la generosità di tanti che, nonostante tutto, fanno bene
il loro mestiere, di nascosto: come ancora ricordava a Rimini
Norberto Bottani.
Per i nostri istituti i fattori di crisi e le problematiche
descritte hanno dettato le piste di lavoro a breve e medio termine,
o proseguendo azioni già avviate da qualche anno o utilizzando i
ristretti margini di autonomia e flessibilità del nuovo Regolamento.
Il lavoro fatto è partito (e dovrà sempre tener presente) da una
domanda: cosa può dare alla comunità nazionale dei decenni a venire
l’istruzione tecnico-professionale? Tutti conosciamo la svalutazione
sociale per il lavoro manuale, per i mestieri artigianali e
industriali e nello stesso tempo tutti ne lamentiamo la mancanza,
dai livelli dell’operatore fino a quelli più specializzati.
La prima sfida è quindi culturale: ridare dignità alla cultura che
prepara al lavoro, al fare ed al suo significato, perché così un
adolescente ritrovi motivazione allo studio, proprio laddove questo
saprà coniugarsi costantemente con il reale, con il mondo fuori
della scuola, con quello che attende dopo la scuola.
Per questo l’ambito di azione è stato quello della progettazione
formativa, del cambiamento della metodologia didattica, utilizzando
l’occasione formale del Riordino per cercare di aprire le scuole
secondarie di secondo grado al vento del vero cambiamento di cui
hanno bisogno. Iniziare a scrivere per competenze e abilità i
percorsi dell’imparare ed i traguardi da raggiungere con gli
studenti attraverso il cammino della conoscenza; ricercare i
continui contatti tra teoria e pratica; ripensare la programmazione
interdisciplinare non per nessi forzosi ma per ambiti reali e
prodotti da ottenere; ricorrere sistematicamente al laboratorio come
metodo per agevolare l’apprendere: sono le indicazioni proposte con
insistenza anche da Dario Nicoli in tutti i seminari nazionali degli
Istituti Professionali da maggio in poi. Quante esperienze di questo
genere già in atto da valorizzare e far circolare...
A questo lavoro potrà servire anche la scelta di avviare i
Dipartimenti non come “cambio di targa”, semplice assemblamento dei
gruppi di materie, ma come percorso che, imparando da alcuni lavori
fatti fin’ora, favorisca il passaggio dalla scuola dei programmi
(conservati dai tradizionali gruppi di materie), alla scuola delle
competenze. È un lavoro di correlazioni disciplinari, di
progettazione per temi e prodotti che, rapportando le conoscenze da
acquisire ai loro aspetti reali, costituisce di fatto il tentativo
più difficile per una scuola nuova. Infatti, passare dalla
collegialità alla cooperazione professionale significa saper fare
scelte di contenuti culturali e di organizzazione didattica.
5. Questo rinnovamento dell’insegnare
va sostenuto con scelte organizzative e progettuali (e molti hanno
fatto così). Si è cominciato con le modifiche dei piani orari
deliberate prima dell’estate. I tentativi avviati mirano a:
incrementare il sapere pratico, ridurre l’eccesso di astrattismo,
spostando materie nell’arco del quinquennio, allo scopo di dare peso
a quelle professionali o attività di laboratorio già dal biennio,
recuperando per questo le compresenze necessarie. Operando anche
sulla riduzione dei 60’ di lezione orari, si è potuto avviare spazi
per attività che favoriscono attenzione più personale ed esperienze
di laboratorio. Anche se per poter fare questo i vincoli sono
drastici: non creare esuberi di personale, non comportare oneri di
bilancio.
Dal punto di vista dell’organizzazione didattica del tempo-scuola,
la progettazione, da qualche anno, tenta di seguire
contemporaneamente due binari paralleli: l’accompagnamento delle
difficoltà e delle debolezze (specie di energia e motivazione,
quando non di preparazione) per il loro recupero; la valorizzazione
di capacità ed il sostegno del merito, fino alle eccellenze. Sono
due componenti indispensabili allo stesso cammino, due polmoni dello
stesso respiro scolastico, in certe attività chiamate ad occuparsi
fattivamente l’una dell’altra.
Ma per fare questo si sono dovuti ricavare spazi orari (portando le
32 ore settimanali delle prime a 34) e disponibilità per giungere a
formare gruppi classe dove si potessero meglio personalizzare i
percorsi.
Un’altra pista che alcuni Istituti stanno seguendo è il ripensamento
della pratica dell’orientamento: quante scelte non hanno nulla a che
fare o con le doti personali di un adolescente, o con le possibilità
effettive di lavoro. Quante mode imperversano: è stato il boom
dell’informatica ieri, dell’alberghiero oggi. I ragazzi hanno
bisogno di conoscere di persona, di fare esperienze dirette e
guidate, di avere modelli di riferimento, invece che ascoltare
conferenze o fare giochini simulati in classe.
C’è poi da allargare lo sguardo: per capire meglio come “innovare”,
per molti dei nostri istituti si sono rivelati vitali i rapporti
internazionali di questi anni. Lì il confronto e lo scambio con le
esperienze europee più avanzate, non ha portato solo l’inevitabile
mortificazione del paragone con la nostra situazione italica, ma ha
aperto a metodi didattici e soluzioni organizzative non immaginate.
Anche se poi tornando ci si scontra con l’ottusità
dell’amministrazione, il corporativismo sindacale ed i ritardi
riformatori. È il caso della tanto osannata alternanza
scuola-lavoro, in Francia (ad esempio) governata e sostenuta da una
apposita legislazione che garantisce legami stabili tra aziende
(incentivate) e scuole che si vedono garantiti posti per stages e
periodi lavorativi.
6. Il Riordino, eliminando la Terza
Area nei Professionali e mantenendo rigidezze di quadro, mette in
difficoltà le esperienze di collaborazione con il mondo del lavoro.
In molti istituti questo era il fiore all’occhiello del curricolo
ordinario delle quarte e quinte classi: ora la fine dei
finanziamenti ordinari dal Miur (unita all’assenza ormai da 15 anni
di finanziamenti per rinnovare macchinari e laboratori) renderà
difficile se non impossibile sottoscrivere contratti con
professionisti, esperti esterni o sostenere moduli professionali,
stage ed esperienze lavorative.
Diversi Istituti già da qualche anno hanno iniziato a stringere
alleanze con partner privilegiati, anche se non sempre facili con un
mondo del lavoro talvolta poco sensibile alla formazione. È il caso
delle banche, che da anni non accettano più alunni in stage. In
altri istituti si è cominciato a studiare nelle pieghe normative per
ampliare i periodi di lavoro in azienda. Si tratta ora di vedere
quanto le Regioni decidano di investire in questo compito.
Resta il fatto che, per fare tutto questo, Istituti Tecnici e
Professionali, che in passato hanno “scimmiottato” troppo i licei,
debbono invece riscoprire la loro vocazione originaria, ritrovare le
alleanze giuste. Laddove si lavora seriamente per recuperare i
rapporti con le imprese, per meglio leggere la domanda delle
comunità locali o dei processi tecnici nazionali, per ampliare le
esperienze di lavoro, per innalzare i livelli di preparazione con i
corsi post-diploma, per educare ad una visione positiva e
umanizzante del lavoro manuale, i risultati (leggi: le iscrizioni)
hanno pagato.
Queste sono solo opportunità e percorsi per resistere al degrado,
per tenere viva la passione educativa, per cercare nelle pieghe
delle norme quello che queste non danno, per non fare di questo
riordino un occasione sprecata di ripresa di quello che ritengo il
più importante ramo dell’istruzione e formazione giovanile oggi.