scuola

Troppo Gentile fa danno
all'istruzione professionale. E al paese...

Roberto Pellegatta il Sussidiario, 22.9.2010

C’è un futuro per i nostri Istituti Professionali, in questo difficile avvio del Riordino Gelmini? Tento qualche prospettiva a partire dal lavoro in corso con una rete nazionale di Istituti per l’Industria e l’Artigianato del settore mobile-arredamento.

1. Cominciamo con i dati, che non appaiono confortanti. Le attese per le iscrizioni agli Istituti Professionali ed ai Tecnici erano alte: da anni si levano appelli sulla “necessità” della ripresa di questi indirizzi, in continuo calo. Soprattutto Confindustria vi ha investito molto con impegni mediatici ed interventi giornalistici. L’esito è stato opposto. Il flauto magico delle liceizzazione continua ad attrarre. Dieci anni fa tecnici e professionali assieme erano oltre il 64% del totale degli studenti iscritti. Quest’anno i Tecnici sono al 30,9% (dal 2004 -3,5%; dal 2009 -1,4%); i Professionali sono al 19,8% (dal 2004 -3%; dal 2009 -1,7%; in Lombardia e Veneto il calo supera il 3%, fonte: Miur giugno 2010). Assieme ora, pur costituendo ancora la scelta prevalente degli adolescenti, sono calati al 50,7% del totale. Il crollo è evidente ed il sorpasso dei licei è vicino.
Vi è poi la novità, dopo la legge 40/2004, dei percorsi triennali regionali di Istruzione e Formazione Professionale. Secondo i dati Isfol questi hanno visto le schiere dei loro alunni passare dai 23.500 dell’anno scolastico 2003-2004 agli oltre 150.000 dell’anno 2008-2009. Di questi la maggioranza si concentra in cinque regioni del Centro Nord e circa un quarto nella sola Lombardia. Qui, unico caso a tutt’oggi, questi corsi triennali sono possibili anche negli istituti statali. Ma in realtà sono attivi, nella quasi totalità, nei Centri di Formazione regionali e le esperienze negli istituti statali sembrano dare, nell’ultimo anno, segnali di calo.

2. Cosa significano questi dati? Innanzitutto occorre ricordare che il settore dell’istruzione tecnica e professionale, come preparazione all’ingresso nel mondo del lavoro, è oggi in situazione critica, ma resta quello decisivo per il futuro dell’istruzione secondaria: lo ricordava con chiarezza un esperto europeo come Norberto Bottani nel suo intervento fatto al workshop DiSAL durante il Meeting di Rimini. Non potendo qui seguirne le ragioni rimando a quell’intervento .
Se si pensa alla forte domanda nazionale di tecnici diplomati, c’è poco da rallegrarsi. L’esito delle iscrizioni di questi mesi era prevedibile: il travaso dell’ex Liceo tecnologico e del Liceo economico dai Tecnici ai Licei ne è la causa principale. Ma questo non basta a spiegare sia il costante calo, sia lo stesso fenomeno nei Professionali. C’è in gioco ben di più e comprenderlo è indispensabile per affrontare in modo adeguato il futuro di questi indirizzi e, già ora nelle scuole, l’occasione offerta dall’attuale Riordino.

Una cosa è certa: la nuova offerta formativa proposta dal Riordino non ha sortito l’effetto desiderato. Come mai? Su quale direzione lavorare? Se ci limitiamo ai Professionali, come già diverse voci hanno rilevato, la crisi va ricercata in una molteplicità di fattori, tutti già iniziati in passato e confermati dall’attuale Riordino. Si è iniziato col Progetto ’92, confermato nel 2002: il progressivo calo delle attività laboratoriali; il corrispondente aumento di discipline teoriche specie nel biennio; la progressiva rigidezza organizzativa e di gestione, che ha influito soprattutto sul rapporto con le aziende e sullo spazio per le esperienze di lavoro. A questo va aggiunta l’assenza cronica di un sistema di istruzione superiore, quindi di un effetto di “traino” che sarebbe derivato da un’offerta formativa di figure professionali ad avanzata specializzazione.
I Regolamenti attuali, poi, attraverso una rigida interpretazione del comma 622 della finanziaria 2006 (attuata in Regolamento sul nuovo obbligo con il DM 22.08.2007) hanno generalizzato i fattori sopra ricordati. In tutti i curricoli dei bienni tecnici e professionali si sono inserite le stesse materie: è, ad esempio, il caso di diritto-economia, fisica e chimica. Questo a prescindere dall’invito dello stesso DM del 2007 al “rispetto dell’identità dell’offerta formativa e degli obiettivi che caratterizzano i curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio”.
Come quindi escludere, nelle scelte delle famiglie, la difficoltà a capire la differenza tra un biennio nei tecnici da quello dei professionali? In presenza poi dell’aumento di attenzione (per fortuna!) da parte di giovani e famiglie verso i percorsi triennali di Formazione Professionale regionali.

3. Una considerazione a parte va ripresa sul mancato avvio di un sistema di Istruzione Tecnica Superiore, pur essendo tutto già delineato sulla carta. Infatti, mentre ad esempio in Germania o Francia, questo data ormai da un trentennio, da noi le indicazioni sono state emanate con il DPCM 25 gennaio 2008. Il Decreto (che attua l’art. 13 della finanziaria 2007, in accordo con le Regioni) contiene le Linee guida per la riorganizzazione (che strano: come si fa a ri-organizzare un sistema che non esiste?) del Sistema di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore e la costituzione degli I.T.S. Si tratta di uno degli ultimi atti del ministro Fioroni. Per sua natura giuridica purtroppo il Decreto manca a tutt’oggi di strumenti operativi e di specifici stanziamenti di bilancio.
La creazione in Italia di una seria Formazione Tecnico-Professionale di livello terziario non universitario, si sa, ha diversi nemici, a cominciare dalle lobby universitarie, oltre al dominio italico della cultura umanistico-gentiliana che ha sempre guardato al lavoro come dimensione opposta alla cultura.

4. In questo contesto come si sono mossi gli Istituti Professionali? Di fatto esiste il rischio (per tutti) che le novità delle Linee Guida Nazionali siano semplicemente adottate e non fatte proprie e trasformate in attività formativa adeguata alla propria realtà. Si sa che la scuola italiana vive, da tempo, per la generosità di tanti che, nonostante tutto, fanno bene il loro mestiere, di nascosto: come ancora ricordava a Rimini Norberto Bottani.
Per i nostri istituti i fattori di crisi e le problematiche descritte hanno dettato le piste di lavoro a breve e medio termine, o proseguendo azioni già avviate da qualche anno o utilizzando i ristretti margini di autonomia e flessibilità del nuovo Regolamento. Il lavoro fatto è partito (e dovrà sempre tener presente) da una domanda: cosa può dare alla comunità nazionale dei decenni a venire l’istruzione tecnico-professionale? Tutti conosciamo la svalutazione sociale per il lavoro manuale, per i mestieri artigianali e industriali e nello stesso tempo tutti ne lamentiamo la mancanza, dai livelli dell’operatore fino a quelli più specializzati.
La prima sfida è quindi culturale: ridare dignità alla cultura che prepara al lavoro, al fare ed al suo significato, perché così un adolescente ritrovi motivazione allo studio, proprio laddove questo saprà coniugarsi costantemente con il reale, con il mondo fuori della scuola, con quello che attende dopo la scuola.
Per questo l’ambito di azione è stato quello della progettazione formativa, del cambiamento della metodologia didattica, utilizzando l’occasione formale del Riordino per cercare di aprire le scuole secondarie di secondo grado al vento del vero cambiamento di cui hanno bisogno. Iniziare a scrivere per competenze e abilità i percorsi dell’imparare ed i traguardi da raggiungere con gli studenti attraverso il cammino della conoscenza; ricercare i continui contatti tra teoria e pratica; ripensare la programmazione interdisciplinare non per nessi forzosi ma per ambiti reali e prodotti da ottenere; ricorrere sistematicamente al laboratorio come metodo per agevolare l’apprendere: sono le indicazioni proposte con insistenza anche da Dario Nicoli in tutti i seminari nazionali degli Istituti Professionali da maggio in poi. Quante esperienze di questo genere già in atto da valorizzare e far circolare...
A questo lavoro potrà servire anche la scelta di avviare i Dipartimenti non come “cambio di targa”, semplice assemblamento dei gruppi di materie, ma come percorso che, imparando da alcuni lavori fatti fin’ora, favorisca il passaggio dalla scuola dei programmi (conservati dai tradizionali gruppi di materie), alla scuola delle competenze. È un lavoro di correlazioni disciplinari, di progettazione per temi e prodotti che, rapportando le conoscenze da acquisire ai loro aspetti reali, costituisce di fatto il tentativo più difficile per una scuola nuova. Infatti, passare dalla collegialità alla cooperazione professionale significa saper fare scelte di contenuti culturali e di organizzazione didattica.

5. Questo rinnovamento dell’insegnare va sostenuto con scelte organizzative e progettuali (e molti hanno fatto così). Si è cominciato con le modifiche dei piani orari deliberate prima dell’estate. I tentativi avviati mirano a: incrementare il sapere pratico, ridurre l’eccesso di astrattismo, spostando materie nell’arco del quinquennio, allo scopo di dare peso a quelle professionali o attività di laboratorio già dal biennio, recuperando per questo le compresenze necessarie. Operando anche sulla riduzione dei 60’ di lezione orari, si è potuto avviare spazi per attività che favoriscono attenzione più personale ed esperienze di laboratorio. Anche se per poter fare questo i vincoli sono drastici: non creare esuberi di personale, non comportare oneri di bilancio.
Dal punto di vista dell’organizzazione didattica del tempo-scuola, la progettazione, da qualche anno, tenta di seguire contemporaneamente due binari paralleli: l’accompagnamento delle difficoltà e delle debolezze (specie di energia e motivazione, quando non di preparazione) per il loro recupero; la valorizzazione di capacità ed il sostegno del merito, fino alle eccellenze. Sono due componenti indispensabili allo stesso cammino, due polmoni dello stesso respiro scolastico, in certe attività chiamate ad occuparsi fattivamente l’una dell’altra.
Ma per fare questo si sono dovuti ricavare spazi orari (portando le 32 ore settimanali delle prime a 34) e disponibilità per giungere a formare gruppi classe dove si potessero meglio personalizzare i percorsi.
Un’altra pista che alcuni Istituti stanno seguendo è il ripensamento della pratica dell’orientamento: quante scelte non hanno nulla a che fare o con le doti personali di un adolescente, o con le possibilità effettive di lavoro. Quante mode imperversano: è stato il boom dell’informatica ieri, dell’alberghiero oggi. I ragazzi hanno bisogno di conoscere di persona, di fare esperienze dirette e guidate, di avere modelli di riferimento, invece che ascoltare conferenze o fare giochini simulati in classe.
C’è poi da allargare lo sguardo: per capire meglio come “innovare”, per molti dei nostri istituti si sono rivelati vitali i rapporti internazionali di questi anni. Lì il confronto e lo scambio con le esperienze europee più avanzate, non ha portato solo l’inevitabile mortificazione del paragone con la nostra situazione italica, ma ha aperto a metodi didattici e soluzioni organizzative non immaginate. Anche se poi tornando ci si scontra con l’ottusità dell’amministrazione, il corporativismo sindacale ed i ritardi riformatori. È il caso della tanto osannata alternanza scuola-lavoro, in Francia (ad esempio) governata e sostenuta da una apposita legislazione che garantisce legami stabili tra aziende (incentivate) e scuole che si vedono garantiti posti per stages e periodi lavorativi.

6. Il Riordino, eliminando la Terza Area nei Professionali e mantenendo rigidezze di quadro, mette in difficoltà le esperienze di collaborazione con il mondo del lavoro. In molti istituti questo era il fiore all’occhiello del curricolo ordinario delle quarte e quinte classi: ora la fine dei finanziamenti ordinari dal Miur (unita all’assenza ormai da 15 anni di finanziamenti per rinnovare macchinari e laboratori) renderà difficile se non impossibile sottoscrivere contratti con professionisti, esperti esterni o sostenere moduli professionali, stage ed esperienze lavorative.
Diversi Istituti già da qualche anno hanno iniziato a stringere alleanze con partner privilegiati, anche se non sempre facili con un mondo del lavoro talvolta poco sensibile alla formazione. È il caso delle banche, che da anni non accettano più alunni in stage. In altri istituti si è cominciato a studiare nelle pieghe normative per ampliare i periodi di lavoro in azienda. Si tratta ora di vedere quanto le Regioni decidano di investire in questo compito.
Resta il fatto che, per fare tutto questo, Istituti Tecnici e Professionali, che in passato hanno “scimmiottato” troppo i licei, debbono invece riscoprire la loro vocazione originaria, ritrovare le alleanze giuste. Laddove si lavora seriamente per recuperare i rapporti con le imprese, per meglio leggere la domanda delle comunità locali o dei processi tecnici nazionali, per ampliare le esperienze di lavoro, per innalzare i livelli di preparazione con i corsi post-diploma, per educare ad una visione positiva e umanizzante del lavoro manuale, i risultati (leggi: le iscrizioni) hanno pagato.
Queste sono solo opportunità e percorsi per resistere al degrado, per tenere viva la passione educativa, per cercare nelle pieghe delle norme quello che queste non danno, per non fare di questo riordino un occasione sprecata di ripresa di quello che ritengo il più importante ramo dell’istruzione e formazione giovanile oggi.