Sulle linee guida inviato da Vincenzo Pascuzzi, 31.10.2010 La prima edizione del Forum del Partito Democratico per il rilancio dell’istruzione Pubblica (1) (2), tenutasi a Roma il 25 e 26 settembre scorso, ha reso di dominio pubblico le linee guida della politica scolastica del maggior partito di opposizione. Le conclusioni dei gruppi di lavoro nei quali si è articolato il Forum hanno mostrato come il PD intenda rispolverare, a dieci anni di distanza, i progetti di introduzione della valutazione dei docenti e di “valorizzazione del merito” che valsero la perdita della poltrona di Viale Trastevere al ministro Berlinguer. Nel frattempo, parte di quel progetto di ridefinizione della funzione docente e delle modalità di progressione di carriera è stato realizzato dall’attuale maggioranza di centro-destra, cui il PD, evidentemente, non vuole “lasciare la bandiera del merito e della qualità”, come recita il documento preparatorio alla prima Conferenza lombarda del partito dedicata ai temi dell’istruzione.2 Ecco allora un progetto che riprende, nei suoi termini essenziali, la medesima impostazione sottesa al decreto Brunetta e al progetto di legge Aprea, che dividono e gerarchizzano i lavoratori, in nome della valorizzazione del merito individuale. L’introduzione di strumenti di valutazione della professione docente e di differenziazione dei docenti in base al merito, tuttavia, non sembra intrattenere alcuna relazione evidente con l’obiettivo dichiarato di rilanciare la scuola pubblica; piuttosto, rivela l’esigenza di risolvere in maniera ideologica le questioni aperte nella scuola italiana, anziché affrontarle con serietà e competenza. Rivela, altresì, il tentativo mistificante e illusorio di contribuire all’innalzamento dei livelli di istruzione, senza prevedere un contestuale incremento dei finanziamenti destinati alla scuola. Valutazione e merito sono termini che trovano in origine applicazione in un ambito prettamente aziendale, nel quale appaiono congiunti con quelli di produttività e performance. Che i metodi aziendali, selezionati per la loro efficienza, possano giovare a un settore quale quello pubblico, affinché passi da una forma rigidamente burocratica e garantista a una più efficiente e flessibile, è però tutt’altro che scontato. Il problema, infatti, è che la scuola non deve produrre profitto né a breve, né a lungo termine e che, inoltre, essa non possiede quel meccanismo di regolazione esterno che si chiama finanza e che impone ai manager una serie di comportamenti e di obiettivi. A differenza dell'azienda, nella scuola esiste una serie di fattori di autoregolazione che garantiscono quell'efficienza che per il lavoratore dell'azienda, invece, non può che essere etero diretta e procacciata con premi e lusinghe. Valutazione e merito sono gli strumenti concettuali che consentono di incentivare l’intensità del lavoro, senza farla apparire come estorsione di pluslavoro addizionale, ovvero di reintrodurre surrettiziamente, sotto mentite spoglie, il sistema del cottimo. La distinzione tra salario base e premi di produttività, trasferita nella pubblica amministrazione dalla legge Brunetta sotto forma di distinzione tra salario ordinario e trattamento accessorio, riprende infatti la forma classica del “salario al pezzo”. Gli effetti che esso produce sulla classe lavoratrice - accentuazione della concorrenza, e quindi della divisione reciproca; riduzione del salario medio - sono ben noti e motivano il ricorso al camuffamento linguistico, l’introduzione di nuovi termini per indicarlo. A queste conseguenze si aggiunga anche il rischio reale di adagiarsi su metodi e strutture precapitalistiche riprese in chiave capitalistica, quali microcorporativismi e clientele diffuse. Nel caso della professione docente, l’idea stessa di introdurre una forma di retribuzione che si basi sul numero delle merci prodotte nell’unità di tempo produce un effetto stridente; eppure, i meccanismi di ripartizione tra i docenti del salario accessorio, previsti dalla legge Brunetta, si basano implicitamente sulla possibilità di tradurre l’insegnamento nella produzione di un “numero di pezzi”. Senza questa traduzione, verrebbe meno la possibilità stessa della “valutazione del merito”, in base alla quale è stabilita la ripartizione del trattamento salariale aggiuntivo tra i lavoratori. Dalla legge sull’autonomia scolastica, valutazione e merito hanno fatto il loro ingresso nella scuola pubblica insieme a “qualità” e a soddisfazione del cliente. Termini chiave delle forze di centro-destra e centro-sinistra, “merito”, “autonomia”, “qualità” sono solo alcune delle parole su cui per decenni la retorica neoliberista si è esercitata, privandole del loro significato originario e positivo e piegandole a una nuova accezione. Di questo processo di desemantizzazione e risemantizzazione globale, che spegne il pensiero critico costringendolo nella camicia di Nesso del pensiero unico, non c’è ancora piena consapevolezza. È infatti oggi normale che il termine “autonomia” scolastica abbia perso l’accezione di indipendenza dell’istruzione pubblica e dell’insegnamento da condizionamenti esterni, per designare introiezione e soggezione a logiche aziendali, utilitaristiche e mercantili; che dietro al “merito” premiato da Brunetta si nasconda un progetto di gerarchizzazione, precarizzazione e disciplinamento; che la “qualità” della scuola, che dovrebbe riferirsi alle riuscite trasmissione di un immenso patrimonio culturale e acquisizione della capacità di pensiero critico, sia stata declassata a correttezza, trasparenza e rendicontazione delle procedure di erogazione del servizio. Eppure, i docenti hanno sempre avvertito i termini della certificazione di qualità come un corpo estraneo, forzatamente trapiantato dal mondo dell’azienda a una realtà affatto diversa e irriducibile alla dimensione puramente commerciale. Nonostante tutti i tentativi di interiorizzare le regole previste da queste autenticazioni, in generale ripugna all’insegnante pensare agli studenti e alle famiglie come a clienti, e agli apprendimenti come prodotti o merci. Tuttavia, le resistenze frapposte all’introduzione degli strumenti di valutazione di insegnamenti e apprendimenti, sulla cui base differenziare i docenti in base al merito, non nascono da un’irrazionale opposizione al cambiamento, da un arroccamento pregiudizialmente ostile al nuovo. Esse sono, piuttosto, sintomi di rigetto nei confronti di un approccio che disconosce la peculiarità della funzione docente e della relazione didattico-educativa e che affronta in maniera ideologica e fuorviante i reali problemi della scuola. Essa è un organismo sociale complesso e, anche ammettendo che alcune pratiche aziendali come la certificazione di qualità siano esaminate, esse devono essere comunque rielaborate dialetticamente, non semplicemente trapiantate. Ciò nella scuola non si è fatto, e per i docenti è aumentata a dismisura la produzione pletorica di carte inutili, una prassi questa già sconfessata, ma non tanto perché i docenti siano riusciti in blocco ad arginarla corporativisticamente (molti colleghi sono stati anzi colpiti dalla fascinazione aziendalistica), quanto poiché il metodo stesso non ha funzionato. Ci si chiede allora perché non sia stato adottato il percorso opposto, di individuazione, comunicazione e condivisione delle prassi virtuose elaborate all'interno della scuola. Infine, se la formazione e l'istruzione sono da sempre quel forte elemento culturale e distintivo di una società nel cui contesto si aprono prospettive di analisi ed elaborazione del reale e del sociale oltre i limiti dell'attuale, ci si chiede come in un attuale così angusto come l'azienda si possano trovare efficaci elementi di valutazione, piuttosto che un modello di soffocamento efficientistico. Ci si interroga cioè sulla possibilità che nella società globale e mondializzata la scuola possa continuare a essere un luogo dove germinino semi di speranza. La valutazione dell’insegnamento, la valorizzazione del merito, il mutamento dei sistemi di reclutamento, sui quali i principali partiti di centro-destra e centro-sinistra stanno ingaggiando una battaglia apparente, puramente propagandistica - poiché non può esservi vera battaglia allorché si condividono presupposti, prospettive e soluzioni – non rispondono minimamente alle esigenze della scuola italiana per molteplici motivi:
Inoltre, proporre queste novità, con lo scopo dichiarato di rilanciare la scuola italiana, significa dare adito alla mistificazione secondo la quale sarebbe possibile riformare la scuola a costo zero, o addirittura, come mostra la costante riduzione dei finanziamenti che data ormai da un ventennio, risparmiando. I problemi della scuola italiana, che il PD dichiara di avere a cuore, come la dispersione o lo scarso numero di diplomati, sono il risultato di una politica sistematica di taglio alla spesa; non possono quindi essere risolti altrimenti che con una politica di investimento. Non si tratta di impiegare meglio le risorse esistenti, ma di incrementarle. La cosiddetta qualità dell’istruzione richiede classi contenute, non classi-pollaio da 35 studenti; richiede che si possano nominare supplenti anche per le assenze brevi, anziché essere costretti a smembrare le classi ad ogni ora, e che si assumano in ruolo i docenti precari; la lotta alla dispersione richiede la presenza nelle scuole di personale qualificato che orienti, riorienti, sostenga gli studenti in difficoltà; l’integrazione degli alunni stranieri impone l’assunzione di insegnanti di italiano L2; la preparazione degli insegnanti passa attraverso l’erogazione di corsi di aggiornamento gratuiti, e così via.
L’opinione
pubblica può credere che la dispersione scolastica e le carenze
della scuola italiana dipendano dall’impreparazione e dallo scarso
impegno degli insegnanti, dal meccanismo dello scorrimento delle
graduatorie e dalla scarsa selezione in ingresso, dalla mancanza
della valutazione e dall’eccesso di burocrazia. Un partito che
ambisca a governare il paese e che voglia rappresentare una reale
alternativa agli occhi di un milione di lavoratori della scuola e di
milioni di potenziali elettori, però, anziché legittimare quei
pregiudizi e proporre soluzioni che su essi si fondano, dovrebbe
denunciare con onestà e forza le vere cause delle difficoltà in cui
versa la scuola – i tagli alle risorse dell’ultimo ventennio - e
proporre conseguentemente un piano finanziario che la rilanci e che
collochi la spesa italiana per l’istruzione in linea con quella dei
principali paesi europei. Propongono: Lavoratori Auto-organizzati della Scuola – Milano Rete Organizzata Docenti e Ata Precari Scuola Veneto
Sottoscrivono: Coordinamento Precari Scuola Modena Gruppi Azione Precaria Genova Precari Scuola Cobas Napoli Precari Scuola Padova Precari Scuola Cobas Roma Precari Scuola Cobas Latina Precari Scuola Cobas Pisa Precari Scuola Cobas Salerno Precari Scuola Cagliari 18 ottobre 2010
(1) http://www.partitodemocratico.it/dettaglio/107290/i_forum_dellistruzione_pd (2) http://www.pdlombardia.it/agenda/eventi/2010/06/18/prima-conferenza-regionale-sulla-scuoladel-pd-lom
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http://retecomitatiprecariscuola.netsons.org/site/sites/default/files/ |