scuola Chiosso: serve un artigiano per vincere l'individualismo dei docenti intervista a Giorgio Chiosso il Sussidiario, 7.10.2010
È in grado, la scuola,
di riconoscere i “talenti” degli allievi nel rispetto delle
differenze? Come svilupparli, nel quadro di un sistema scuola che
sulla scorta di una vecchia cultura di impianto statalista, tende
ancora a livellare tutto e tutti? Il sussidiario ha parlato di
questo e altro con Giorgio Chiosso, pedagogista, che oggi a Torino
aprirà i lavori del convegno Un’altra scuola è veramente possibile?
quattro questioni aperte, un’unica sfida, promosso dal Dipartimento
di Scienze dell’educazione e della formazione dell’Università di
Torino.
Non da oggi la scuola
appare più “arretrata” del resto della società. Questo perché la
scuola è, per sua natura, prima di tutto un luogo di deposito di
saperi ed esperienze che una generazione trasmette all’altra. Lo può
fare con i libri e lo può fare con i computer: nell’uno e nell’altro
caso essi sono strumenti, non fini. Tutto dipende dal fattore “uomo”
e cioè da come gli insegnanti concepiscono e usano libri e computer.
Se un docente fa studiare a memoria il testo non serve a niente e fa
solo danni, ma lo stesso accade se un insegnante si limita a far
“smanettare” i suoi allievi sulla tastiera di un pc. Ciò che conta è
il senso che viene dato - da docenti e allievi - all’esperienza
dell’apprendimento.
La scuola attuale si
trova di fronte ad un bivio che già Maritain nel lontano 1943 aveva
lucidamente previsto in un saggio proprio intitolato L’educazione al
bivio. Da una parte la tesi di quanti pensano alla scuola in termini
funzionalistici e cioè principalmente (se non proprio
esclusivamente) come leva dello sviluppo e della concorrenza
economica. Di qui l’ossessione del “sapere utile” o di quella che
uno studioso francese ha definito “l’ideologia della
professionalizzazione”. Dall’altra sta la prospettiva di una scuola
primariamente al servizio della crescita della consapevolezza e
della libertà personale. Una scuola che è innervata di saperi
apparentemente “inutili”, ma ben finalizzati a potenziare la
riflessione personale anche in funzione (dopo) del soddisfacimento
dei compiti professionali.
Non sono affatto un
fautore della licealizzazione e non ho pregiudizi verso l’istruzione
tecnica e professionale. Sono convinto che nel mondo del lavoro
esistano potenzialità educative straordinarie che spesso in passato
- e forse anche oggi - abbiamo poco valorizzato o limitato
(sbagliando) agli studenti giudicati meno bravi secondo standard
davvero discutibili. Il problema - visto in prospettiva educativa e
pedagogica - sta nel modo in cui i saperi sono veicolati e fatti
propri dall’allievo. Ci sono saperi cosiddetti “tecnici” che possono
favorire livelli di coscientizzazione personale molto alta e ci sono
saperi “umanistici” che subiscono il logorio della ripetitività e
dello mnemonismo. Torno al punto iniziale: tutto è affidato alle
mani di governa il processo di apprendimento e di acculturazione e
lo sa gestire in modo personalizzato.
Oggi siamo in presenza
di un’esagerata fiducia nelle prove obiettive di valutazione. La
cultura della valutazione promossa dalle grandi campagne di
rilevazione dell’Ocse si è tradotta nel nostro Paese nella
convinzione che sia possibile migliorare la qualità scolastica
ricorrendo a una massiccia dose di test e quiz di varia natura.
Certamente sono stati compiuti in questo campo molti progressi e
oggi disponiamo di strumenti più efficaci del passato. Il
monitoraggio del sistema d’istruzione nazionale è certamente
essenziale, ma dobbiamo stare attenti a non correre il rischio di
confondere la rilevazione di un fenomeno con l’automatica soluzione
delle criticità che esso manifesta.
È come se una persona
fosse convinta di guarire misurando spesso il proprio stato
febbrile. Il miglioramento della scuola può avvenire solo se le
comunità degli insegnanti sono in grado di esaminare se stesse e di
intervenire là dove si manifestano i punti più critici, se sono
capaci di stabilire alleanze educative con la società civile, se
creano reti di scuole con cui lavorare superando l’individualismo di
scuola, se si va oltre quella specie di nicchia di “socialismo
reale” (velenoso frutto sessantottino) secondo cui nella scuola
tutti gli insegnanti sono uguali, hanno tutti lo stesso stipendio; e
se una buona volta alle scuole è consentito di scegliere i docenti.
Bisogna riconoscere che
se è facile dire “personalizziamo l’insegnamento” è molto più
complesso realizzare un piano di intervento “personalizzato” (che,
beninteso, non vuol dire individualistico). Laddove la
personalizzazione è in corso d’opera (Australia, Canada, Gran
Bretagna, in qualche Stato degli Usa) essa è stata preceduta da
molte sperimentazioni e simulazioni e soprattutto da imponenti
campagne di formazione dei docenti. Credo che, didatticamente
parlando - e cioè sotto il profilo dell’organizzazione delle classi,
degli orari, ecc. - già oggi molte scuole italiane del ciclo
primario si muovono nel solco della personalizzazione. Più complesso
il problema appare a livello di scuola secondaria, ma neppure lì
impossibile. Il fulcro della personalizzazione non sta tuttavia solo
nelle procedure didattiche, bensì nella qualità del rapporto tra
docente e allievo. Dico solo che i talenti (e ogni allievo, anche il meno bravo, è depositario di qualcuno) non si scoprono con un test e neppure si coltivano in modo impersonale. La personalizzazione si svolge insomma nella logica della bottega dell’artigiano e non attraverso la “produzione di massa”. |