Buone e cattive notizie sull’apprendistato di Fabrizio Dacrema da ScuolaOggi 29.10.2010
Sull’apprendistato arrivano due
notizie, una buona e una cattiva. La notizia buona è che sindacati e
rappresentati delle imprese hanno trovato un’intesa con il Governo
per rilanciare il contratto di apprendistato professionalizzante
(quello che riguarda la fascia d'età fino ai 29 anni e successiva
all’adempimento dell’obbligo di istruzione e formazione). La notizia
cattiva è che nel “collegato lavoro” approvato dal Parlamento è
stata inserita la possibilità di assolvere all’obbligo di istruzione
attraverso il contratto di apprendistato, vanificando ulteriormente
l’obiettivo di assicurare a tutti i giovani le competenze chiave di
cittadinanza. L’accordo della parti sociali con il governo si muove sulla scia del confronto in corso tra sindacati e rappresentanti delle imprese sullo sviluppo e la crescita, un tavolo che indica nella ricerca e nell’innovazione le leve per tornare a crescere. In questo quadro tornano ad essere utili strumenti per favorire un ingresso qualificato dei giovani nel mercato del lavoro, alternativo all’attuale moltiplicazione delle forme di lavoro precario e alla esclusione dal lavoro e dalla formazione (sono quasi due milioni i giovani senza lavoro e non inseriti in percorsi educativi o formativi). L’accordo sottoscritto da governo, regioni e parti sociali prevede che l’apprendistato diventi il contratto d’ingresso “tipico” dei giovani nel mercato del lavoro, garantendo agli apprendisti una formazione effettiva e qualificata. Oggi le cose non stanno così, l’apprendistato, nella gran parte dei casi si riduce ad una forma riduzione del costo del lavoro (decontribuzione e sottoinquadramento) per le imprese che assumono gli apprendisti, a cui non corrisponde l’attività formativa per i giovani (secondo i dati Isfol, meno del 20 per cento degli apprendisti segue un’attività formativa). A peggiorare la situazione ci si è messo anche il governo con l’introduzione della possibilità di un apprendistato con realizzazione della formazione esclusivamente in azienda, bypassando le competenze delle regioni a garanzia dei percorsi formativi: un vero e proprio “via libera” per le aziende che assumono apprendisti e non li formano. Tanto che una sentenza della Corte Costituzionale (n.176 ottobre 2010) ha recentemente riaffermato il ruolo imprescindibile delle regioni. Inoltre lo scorso anno, a causa della crisi, si è registrata una drastica contrazione del numero dei contratti di apprendistato attivati (dai 645.986 del 2008 si è passati ai 567.842 del 2009 con una di riduzione di ben 78.144 unità) unitamente a un preoccupante incremento dei tassi di disoccupazione giovanile che risultano tra i più alti in Europa. Di qui la decisione di arrivare, a seguito dell’intesa del 27 ottobre, a definire linee guida per una riforma dell'apprendistato 'professionalizzante' che garantisca ai giovani il massimo di formazione, responsabilizzando tutti gli attori che devono gestire questo strumento contrattuale. A questo fine l’intesa sottoscritta apre una fase transitoria, la cui durata non deve superare i 12 mesi, nel corso della quale continua a valere il quadro normativo attualmente esistente riguardo alla formazione in apprendistato (efficacia delle disposizioni regionali, in loro assenza funzione surrogatoria e temporanea della contrattazione collettiva, anche relativa alla formazione esclusivamente aziendale). Dopo entreranno in vigore le nuove regole previste dalla linee guida che saranno concordate dalle parti sociali con regioni e governo: dovranno essere semplificate le attuali norme, chiarite le competenze dei diversi soggetti e, soprattutto, dovranno essere definite le condizioni per una formazione certa, efficace, certificata.
È significativo, a questo proposito,
che già nella presente intesa si faccia riferimento alla formazione
di tipo formale anche per la formazione svolta in azienda e, quindi,
ad attività formative essenzialmente diverse dal mero affiancamento,
perché intenzionali, progettate, con obiettivi definiti, contenuti e
attività coerenti, forme di valutazione e certificazione delle
competenze raggiunte (a partire dalla loro registrazione nel
libretto formativo). Una formazione con caratteristiche qualitative
tali da essere attuabile non in una qualsiasi azienda, ma solo in
imprese dotate di adeguata capacità formativa, cioè dei necessari
requisiti di idoneità (spazi, strutture, competenze professionali
specifiche, tutor). Al tavolo del confronto la Cgil ha esplicitato che l’oggetto del confronto è esclusivamente l’apprendistato professionalizzante, data la sua totale contrarietà all’esercizio dell’apprendistato in diritto dovere a partire dal 15° anno di età (come previsto dal collegato lavoro). È davvero singolare che si possa pensare di utilizzare, per l’obbligo di istruzione e la lotta alla dispersione scolastica, uno strumento che ad oggi non ha funzionato nemmeno per il raggiungimento del compito, più congeniale alla sua natura, di formare competenze tecnico-professionali. A meno che il vero obiettivo del governo non sia ancora una volta quello di ridurre i costi: dopo la formazione professionale (anch’essa colpita, come la scuola, dal taglio dei finanziamenti), si apre un altro canale, ancor meno costoso, in cui far assolvere in modo fittizio l’obbligo di istruzione alle fasce sociali più svantaggiate. L’intesa sull’apprendistato, sottoscritta recentemente dalla Regione Lombardia con i Ministeri del Lavoro e dell’Istruzione, conferma che gli obiettivi dell’obbligo di istruzione non si raggiungono con l’apprendistato. Un monte ore annuo di 400 ore di formazione, come previsto dall’intesa lombarda, costituisce una risorsa temporale insufficiente per l’apprendimento delle competenze culturali di base fissate quale esito in uscita dell’obbligo di istruzione (oltretutto è previsto che l’attività formativa possa essere realizzata anche integralmente in azienda). Per i percorsi scolatici o di formazione professionale sono previsti monte ore annui di 1000/1100 ore, mentre per l’apprendistato dovrebbero essere equivalenti 400 ore, svolte anche integralmente in produzione con affiancamento di un tutor o più semplicemente del titolare dell’azienda. L’accordo non garantisce nemmeno che le 400 ore siano costituite da formazione formale. Se almeno questo tipo di attività formativa fosse garantita, l’impianto prospettato dall’accordo lombardo potrebbe essere utile per l’apprendimento di competenze tecnico-professionali ai fini del raggiungimento di una qualifica professionale, non certo per la cultura di base necessaria alla formazione del cittadino.
La formazione culturale di base non
può che competere alle istituzioni formative – e non alle aziende –
e questo vale anche per i percorsi formativi finalizzati
all’apprendimento delle competenze chiave di cittadinanza basate,
come indicano le norme sull’obbligo di istruzione, sui quattro assi
culturali fondamentali (linguaggi, matematico,
scientifico-tecnologico, storico-sociale). Riconoscere la necessaria
titolarità delle istituzioni formative per i percorsi dell’obbligo
di istruzione non significa che non si possa valorizzare la valenza
formativa del lavoro attraverso progetti di integrazione e di
alternanza scuola-lavoro. Privi di un sufficiente bagaglio culturale
di base, i percorsi per l’obbligo in apprendistato saranno, invece,
inevitabilmente incapaci di assicurare ai giovani la possibilità di
continuare la formazione e di impedire la rapida obsolescenza delle
abilità professionali conseguite. Nell’intesa lombarda non solo non sono garantiti per i giovani apprendisti percorsi di formazione formale, ma non sono nemmeno individuati i requisiti per riconoscere la capacità formativa delle imprese, senza i quali un quindicenne potrebbe trovarsi a lavorare in un luogo di lavoro privo degli spazi, delle strutture e delle professionalità specifiche necessarie per realizzare una effettiva attività formativa. Così come manca ogni indicazione di raccordo con le istituzioni scolastiche ai fini di un loro coinvolgimento in percorsi integrati con le strutture accreditate. L’unico vincolo qualitativo indicato dall’allegato tecnico è rappresentato dal tutor aziendale, spesso il titolare stesso dell’impresa, cui è affidato il compito di definire il Piano formativo Individuale “coinvolgendo in maniera protagonistica in questo percorso il giovane e la sua famiglia.” Alla stessa figura aziendale è affidato il coordinamento generale delle diverse attività previste dal percorso formativo complessivo, in attuazione del piano formativo individuale dell’apprendista. E, se non bastasse, gli è chiesto di eseguire il monitoraggio e la valutazione delle attività e del raggiungimento degli obiettivi formativi previsti dal piano formativo individuale, che potrebbe prevedere, come abbiamo già detto, l’ipotesi che le 400 ore di formazione siano svolte tutte all’interno dell’azienda. Solo alla fine di tutto questo totale affidamento del percorso formativo del giovane ad un datore di lavoro (spesso purtroppo non molto acculturato), con l’unico controllo della propria famiglia (spesso purtroppo in difficoltà con le questioni formative), appare un soggetto accreditato del sistema regionale con il compito di valutare e certificare o forse, sarebbe meglio dire, di prendere atto.
Il prevalere dell’ideologia
aziendalista, filo rosso di tutto l’approccio del governo ai temi
formativi, arriva a far scrivere agli estensori dell’intesa che il
lavoro non solo è “mezzo della formazione”, ma addirittura è “fine
della formazione per l’acquisizione delle competenze chiave di
cittadinanza”. Secondo Formigoni, Sacconi e Gelmini i giovani
apprendisti devono essere formati solo come lavoratori, la
formazione della persona consapevole e del cittadino attivo è
probabilmente ritenuta un lusso riservato ad altri ragazzi più
fortunati. Anche nell’accordo lombardo la lotta alla dispersione scolastica (126 mila ragazzi 14-17enni fuori dalla scuola, dalla formazione e dal lavoro) è il leit-motiv principale per far assolvere anche l’obbligo di istruzione nell’apprendistato. Seguendo la logica, secondo cui l’apprendistato è meglio di niente, si rinuncia a offrire l’opportunità di acquisire quelle competenze di base ormai indispensabili per essere cittadini consapevoli e lavoratori occupabili, cioè capaci di riconvertirsi e di acquisire nuove competenze in un mondo del lavoro sempre più mutevole e turbolento. Non ci sono scorciatoie. Per affrontare seriamente il problema della dispersione scolastica si deve innanzi tutto di investire nella scuola pubblica e nel potenziamento dell’autonomia scolastica, invece di aggiungere canali paralleli di serie b e c, destinati supplire le carenze della scuola e a rafforzarne le resistenze al cambiamento. Per ottenere risultati contro la dispersione scolastica occorre investire nella costruzione di un biennio obbligatorio unitario; cambiare il modo di fare scuola per valorizzare il rapporto tra sapere e saper fare, i laboratori, le esperienze di alternanza scuola-lavoro; diffondere e qualificare i servizi educativi per l’infanzia e difendere i modelli di qualità della scuola elementare (gli interventi di decondizionamento precoce sono i più efficaci); rafforzare i raccordi e la continuità contro le fratture traumatiche nei passaggi tra i cicli scolatici; attivare le anagrafi degli studenti per intercettare/riorientare chi abbandona la scuola e per conoscere il fenomeno ai fini della prevenzione. |