SCUOLA
Bottani: l’educazione di Stato è finita, Tiziana Pedrizzi intervista Norberto Bottani il Sussidiario, 15.11.2010
Il tramonto dello
statalismo scolastico e la vocazione formativa della scuola; il
problema di una formazione tecnica e professionale insufficiente,
schiacciata dall’educazione generalista; la necessità di potenziare
la cultura della valutazione; la strada per una transizione efficace
al federalismo scolastico. Sono alcuni degli spunti che emergono da
una conversazione del sussidiario con Norberto Bottani, già
direttore della ricerca educativa dell’Ocse e ora alla testa dello
Sred - Service de la récherche en éducation, del cantone di Ginevra.
L’epoca contemporanea è
contraddistinta tra l’altro dalla creazione e dallo sviluppo di un
servizio scolastico obbligatorio, pubblico, controllato e pilotato
dallo Stato. Gli Stati moderni si sono progressivamente dotati di
tutta una serie di servizi pubblici come per esempio i servizi dei
trasporti oppure quello sanitario, che nell’insieme compongono quel
che si usa chiamare il “welfare state”. Il servizio scolastico è il
prodotto di un’operazione pomposamente presentata come un atto di
progresso, come un’iniziativa lodevole contro le barbarie, lo
sfruttamento e la miseria. All’opinione pubblica, che dopo tutto
finanzia con il gettito fiscale queste operazioni, e al personale
reclutato per fare funzionare il servizio scolastico si è fatto
credere che le politiche scolastiche avrebbero servito ad emancipare
gli individui, a correggere le ingiustizie sociali e rendere più
civili le società.
Dico semplicemente che
è giunto il momento di rileggere queste operazioni per verificare se
gli obiettivi con i quali gli Stati moderni hanno venduto ed imposto
questi servizi come se fossero una conquista superiore,
corrispondono con quanto successo veramente in realtà e per
conoscere l’origine di queste iniziative, i fattori che le hanno
condizionate, le loro radici, le vicende anteriori che le hanno
preparate e che hanno modellato la struttura di questi servizi, la
quale avrebbe potuto essere anche del tutto diversa di quella che
abbiamo sotto gli occhi. Per quel che riguarda l’istruzione pubblica, l’analisi ovviamente deve risalire all’epoca nella quale sono sorte le università, prendere in considerazione quanto successo durante il Rinascimento, rifarsi alle operazioni attuate dagli ordini religiosi, in particolare dai gesuiti all’epoca della Controriforma, considerare i tentativi di generalizzazione dell’alfabetizzazione attuati prima e durante l’illuminismo. Inoltre, questa rilettura non può fare a meno di prendere in considerazione quanto successo con la globalizzazione…
Perché senza questi
riferimenti non si potrebbe capire lo straordinario sviluppo dei
sistemi scolastici statali nel corso dell’Ottocento del Novecento.
Questa evoluzione ha indubbiamente favorito l’alfabetizzazione,
elevato il livello d’istruzione della popolazione, ma resta ancora
da dimostrare che abbia ingentilito negli animi, ridotto la violenza
collettiva, corrette le disparità sociali, ridotte le ingiustizie
sociali di fronte all’istruzione.
Le società globalizzata
odierne non sono meno inibite di quelle del passato e probabilmente
non sono né meno ingiuste né meno violente. Se non ci si lascia
accecare dal moralismo e dall’angelismo, si può dubitare che la
funzione principale dello sviluppo dell’istruzione statale sia
quello di ingentilire gli animi, di diffondere la passione per la
cultura disinteressata e la razionalità tra la popolazione, di
contribuire a creare una società di amici, fraterna, composta di
persone tra loro solidali. Nelle società contemporanee il servizio
scolastico è stato lo strumento straordinario di governo della
popolazione, di disciplinamento delle masse, di inculcazione di
verità acquisite. Gli assiomi ai quali ci si aggrappa per
giustificarne l’espansione sono esistiti solo in parte e sono spesso
fumo negli occhi per coloro che si dedicano all’istruzione e per
coloro che sono obbligati ad andare a scuola. Probabilmente questa è
solo una parte della verità, per cui non si può affermare che questi
assiomi siano del tutto falsi, tanto più che hanno funzionato a
lungo e che continuano ad operare per tutti coloro predisposti a
crederci.
Mi sembra strana
l’affermazione secondo la quale in Italia la formazione di tipo
scientifico e tecnologico collegata al lavoro è stata ed è spesso
vista con sospetto per una sua presunta natura “strumentale”. La
storia della formazione professionale e tecnologica in Italia merita
di essere ripercorsa e forse addirittura riscritta. In ogni modo, mi
sembra che si debba risalire fino a Salvemini, ovverossia fino agli
inizi del Novecento, poiché è lì che si trovano le radici dei
malintesi all’origine di molti problemi di cui soffre la formazione
e l’istruzione professionale in Italia. Per altro, se ben ricordo,
una delle correnti egemoniche della cultura italiana degli anni 50 e
60 non era affatto diffidente nei confronti della formazione e
istruzione professionali, perché propugnava un sistema scolastico
nel quale si coltivasse quella che allora si chiamava “cultura
politecnica”. La cultura generalista di tipo umanistico era vista
con una certa diffidenza, ma anche con una certa ambiguità ed
ammirazione tra gli esponenti principali della cultura marxista.
Non c’è dubbio che uno
dei punti deboli del sistema italiano d’istruzione e formazione sia
la formazione tecnica e professionale. Tutte le statistiche
comparate internazionali concordano a questo riguardo: da qualsiasi
punto si analizza lo stato della formazione tecnica e professionale,
l’Italia si trova in coda al treno. Da almeno un ventennio le
organizzazioni internazionali che analizzano le politiche
scolastiche e di transizione dai sistemi scolastici al mercato del
lavoro segnalano ai governi italiani che qualcosa non va in Italia,
che occorrerebbe ristrutturare l’intero settore, che la
scolarizzazione a spada tratta della formazione e istruzione
professionale è un errore, che occorre ripensare l’architettura
d’assieme, promuovere la formazione duale o in alternanza tra scuola
e lavoro, non per i liceali o gli universitari ma per i minori degli
istituti professionali, sviluppare le università tecnologiche o
com’è stato fatto in Germania le università di scienze applicate.
Questo è un enorme
cantiere che non si può aprire a piacimento o a sprazzi, non è
ancora programmato nonostante quella che si chiama pomposamente la
riforma epocale dei licei. Il sistema scolastico italiano assomiglia
a una grande incubatrice o a un gigantesco posteggio per i giovani,
ignora in gran parte l’orientamento scolastico e professionale,
trascura completamente la seconda via alla formazione, ovverossia i
percorsi scolastici non verticali ma orizzontali che consentono di
non andare all’università ma di iscriversi, dopo la maturità o il
diploma, ad una formazione professionale, non contempla la
complessità dei meccanismi della transizione dalla scuola al lavoro.
La metodologia delle
valutazioni su larga scala dei risultati scolastici ha compiuto
passi da gigante in questi ultimi cinquant’anni, da quando nel 1961
si è condotta la prima indagine internazionale comparata sulla
cultura matematica. Da allora in poi, i progressi metodologici sono
stati continui. Da un’indagine all’altra si sono corretti i difetti,
migliorate le analisi, chiarite le procedure. L’indagine
internazionale Pisa non è che l’ultimo tassello di questa vicenda la
quale non è ancora per nulla conclusa. Nonostante le critiche, le
obiezioni, le diffidenze suscitate dagli studi comparati sui
risultati dei sistemi scolastici, le informazioni prodotte da questi
studi sono talmente originali, uniche, da non lasciare indifferente
nessun attore della scuola. Il perfezionamento dei metodi di calcolo
nonché l’evoluzione delle attrezzature informatiche rendono
possibile in primo luogo verifiche approfondite della validità dei
dati raccolti, e in secondo luogo analisi statistiche dettagliate
che incrociano tra loro dati di natura diversa, come per esempio
quelli forniti dai punteggi nelle prove strutturate di conoscenza e
quelli provenienti dai questionari concepiti per gli studenti e gli
insegnanti o le famiglie. I risultati e le analisi delle valutazioni
non sono perfetti e vanno esaminati, discussi e presentati con
cautela, possono e devono essere verificati e contestati, ma
nonostante i difetti e le imprecisioni (la cui gravità può essere
stimata) aiutano ad esplorare il rendimento della vita scolastica e
a rendere trasparenti angoli remoti, finora spesso in ombra, dei
servizi scolastici.
Il mondo dalla
pedagogia italiana è rimasto fin qui ai bordi di questa vicenda. Per
decenni, dagli anni 70, l’Italia ha partecipato alle indagini
internazionali comparate dell’Iea (l’Associazione internazionale di
valutazione del profitto scolastico sorta nell’ambito dell’Unesco
nel 1961 proprio per condurre queste indagini internazionali, ndr)
ma non ne ha tratto nessun beneficio, sia dal punto di visto della
politica scolastica che da quello della ricerca scientifica nel
campo scolastico. Sin dalla prima indagine internazionale dell’Iea
alla quale l’Italia ha partecipato, nella prima metà degli anni 70,
i risultati dei tredicenni italiani erano scadenti rispetto a quelli
degli studenti di altri sistemi scolastici.
Indagine dopo indagine,
nella classifica stilata sulla base dei punteggi medi degli studenti
nei test il rango degli studenti italiani non è cambiato gran che.
La politica scolastica italiana ha sempre ignorato questi campanelli
d’allarme. Quadro sconfortante anche per quel che riguarda il
versante scientifico: in Italia i valutatori esperti, con contatti
regolari con la comunità scientifica internazionale, in grado di
dialogare da pari a pari con i colleghi, sono quattro gatti. Per
farla breve si può affermare, senza paura di essere smentiti che in
Italia non esiste finora una cultura della valutazione né del
sistema scolastico, né delle scuole, né degli insegnanti, né
dell’amministrazione della scuola. Qualcosa di nuovo però è spuntato
all’orizzonte con l’ultima presidenza dell’Invalsi.
A furia di indagini
qualcosa è attecchito e gli ultimi lavori dell’Invalsi sono
accettabili. Purtroppo mancano i valutatori professionisti.
Valutatori non ci si improvvisa. La formazione è lunga. Non si
possono catapultare insegnanti distaccati a pilotare indagini
valutative complesse, a costruire test, a analizzare con tecniche
statistiche elaborate punteggi delle prove standardizzate e risposte
ai questionari. Indubbiamente occorre potenziare l’Invalsi,
rivederne lo statuto, farne un centro di ricerca valutativa,
reclutare dei professionisti, rendere autonomo l’istituto nei
confronti del ministero, come si conviene a qualsiasi centro
scientifico. Le indagini dell’Invalsi non sono neutre, come non è
neutra nessuna valutazione, sono in bilico con la politica, ma sono
tanto più migliori ed utili, quanto più sono solide dal punto di
vista scientifico. Le interferenze della politica vanno pertanto
isolate.
All’Invalsi
incomberebbe il compito di valutare l’insieme del sistema scolastico
e d’istruzione. Si può e si deve discutere se il campo d’indagine
dell’Invalsi debba includere l’insegnamento superiore e l’educazione
degli adulti. Questa è materia opinabile, ma è indubbio che
l’istituto debba essere in grado di produrre una valutazione globale
del servizio scolastico, incluse le scuole paritarie, un po’ come
sta facendo con le ultime indagini. A questo proposito vanno
promosse, difese e arricchite le indagini nazionali. Non si può
valutare un sistema nazionale facendo affidamento soltanto alle
indagini internazionali, tanto per intendersi sulle indagini Pisa o
le indagini Iea. Queste non sono state concepite per valutare i
sistemi scolastici nazionali, ma per altri scopi.
Vale la pena segnalare
tre punti ai quali prestare attenzione e che non mancheranno di
comparire presto o tardi nell’agenda politica scolastica.
L’articolazione tra l’Invalsi e le strutture scolastiche regionali.
Il federalismo scolastico (che esiste per esempio in Svizzera, in
Germania, nel Canada, negli Stati Uniti, in Australia, per farla
breve nella maggioranza dei paesi) non esclude affatto la presenza
di strutture valutative regionali che dialoghino con quella federale
o nazionale che dir si voglia. Viene poi lo sviluppo della
valutazione delle scuole che in Italia è ancora del tutto
embrionale. E infine lo sviluppo della valutazione degli insegnanti,
problema scottante dal punto di vista politico e molto arduo da
quello scientifico, ma in questi ultimissimi anni si sono fatti
progressi fantastici da questo punto di vista nel campo della
ricerca.
Non c’è nessun dubbio
in merito: la stragrande maggioranza dei sistemi scolastici dei
paesi nei quali l’alfabetizzazione di massa è stata precocemente
realizzata sono decentralizzati. Questo non è il caso dell’Italia,
dove l’alfabetizzazione universale è stata realizzata tardi, solo
nel secondo dopoguerra, ossia una sessantina d’anni fa. Il modello
scolastico centralizzato all’italiana è un’eccezione ed anche nel
prototipo di questo modello, ossia il sistema scolastico francese, è
in corso una decentralizzazione progressiva, in parte larvata,
connessa da un lato a una ridistribuzione delle competenze alle
entità regionali, ai dipartimenti e ai comuni e dall’altro al
movimento pedagogico che propugna l’autonomia delle scuole la quale
è considerata un fattore di miglioramento dei risultati. Il problema
non è tanto quello della decentralizzazione che a mio parere è
ineluttabile e ineludibile, ma quello della «rendicontazione» in un
regime di scuole autonome.
La legge italiana
sull’autonomia delle scuole è molto progressista, ma è stata emanata
senza preparazione, senza che siano state predisposte le risorse di
supporto alle scuole che sono indispensabile per rendere l’autonomia
effettiva. Per altro, la legge italiana è parecchio ambiziosa: da
una lato prevede perfino l’autonomia di ricerca e dall’altro è
carente su alcuni aspetti cruciali dell’autonomia scolastica come
per esempio l’autonomia nella gestione del personale scolastico e
quella finanziaria. La decentralizzazione, ma sarebbe forse meglio
parlare di federalismo scolastico, può essere attuata senza traumi
per le scuole e per gli insegnanti, come è stato il caso in Spagna,
un paese dove il sistema scolastico era fortemente centralistico, e
dove lo si è decentralizzato progressivamente ancorché in modo assai
moderato. Le scuole spagnole fruiscono infatti di minore autonomia
delle scuole italiane. Per altro, come già detto, nel mondo
funzionano decine di sistemi scolastici decentralizzati. È
inimmaginabile oggigiorno ritenere che un servizio nazionale come
quello scolastico possa essere governato e gestito da un solo
centro. La scuola non è una regia nazionale, ed è inverosimile che
una scuola primaria di Bressanone possa avere le stesse esigenze,
nello stesso momento, di una scuola primaria di Marsala. Le due
scuole sono innestate in contesti ecologici del tutto diversi. Il
rispetto dell’ecologia scolastica esige la decentralizzazione. Sarebbe illusorio ritenere che questa strategia sia una panacea che migliori le scuole, il clima delle scuole, le condizioni di lavoro degli insegnanti, i risultati degli allievi. Potrebbe anche succedere il contrario. Questo non è però un argomento sufficiente per rifiutare la decentralizzazione. Per questa ragione però, la decentralizzazione di un sistema scolastico deve essere graduata, vanno cioè previste le necessarie contromisure. Oggigiorno, le analisi comparate delle indagini internazionali indicano che i sistemi scolastici migliori sono tutti decentralizzati e contemplano una forte e reale autonomia delle scuole, controbilanciata però da una serie di contropoteri che equilibrano la decentralizzazione e la regolano, come per esempio la valutazione esterna, la presenza di standard minimi nazionali, ossia di un curricolo nazionale. In ogni modo, questo è un campo di indagine aperto e sarebbe più che mai opportuno che la pedagogia italiana si occupi di queste questioni in priorità e formi ricercatori qualificati in questi settori. In ogni modo, è bene ribadire che non siamo di fronte a una questione di ingegneria sociale ma a un problema prettamente politico, connesso alle trasformazioni profonde delle tecniche di governo della popolazione. Non si governa più un paese con la scuola: questo è un dato scontato. Pertanto, l’occasione è propizia per cambiare i sistemi scolastici. Oggigiorno, il potere politico può fare a meno della scuola per dirigere un paese e quindi può anche permettersi di decentralizzare il sistema scolastico (non di privatizzarlo) e lasciare pertanto alle scuole un’ampia libertà d’organizzazione e di funzionamento. |