ANALISI
Così l'università dei capelli
bianchi allontana i giovani
Massimiliano Bucchi La Stampa,
3.11.2010
UNIVERSITA’ DI TRENTO
C’è un dato che meglio di ogni altro
fa comprendere la difficoltà di intervenire sull'università e sulla
ricerca italiana. E' quello relativo all'età del personale docente.
L'Italia ha la quota più bassa di docenti con meno di 40 anni di
tutti i 27 Paesi europei: meno del 16%. In Francia e Spagna la
percentuale di docenti «giovani» è esattamente doppia della nostra.
In Svezia, Olanda e Germania supera il 40%. Ma perfino in Bulgaria,
Belgio e Portogallo - Paesi che certamente non brillano su scala
internazionale per investimenti in ricerca - gli «under 40» sono
nettamente più rappresentati che da noi. Su 10 docenti attivi in
Italia, quasi sei hanno più di 50 anni e anche questo, purtroppo, è
un record assoluto: nella gran parte degli altri Paesi gli
ultracinquantenni sono un terzo del totale, se non di meno.
Il dato non deve naturalmente essere tradotto nella necessità, come
a volte semplicisticamente si sostiene, di «rottamare»
indiscriminatamente le fasce più anziane della docenza.
E' chiaro che ci sono situazioni estremamente diverse e che non
mancano gli studiosi in età avanzata ancora attivi o in grado di
rappresentare punti di riferimento per le nuove generazioni.
Tuttavia è altrettanto evidente, come numerosi studiosi a cominciare
da quello classico di Thomas Kuhn hanno dimostrato, che è proprio
nelle fasce di età più elevate che si concentra la maggiore
resistenza al cambiamento, inteso sia come rinnovamento dei
contenuti e dei metodi della ricerca, sia come cambiamento sul piano
organizzativo.
L'età elevata del personale docente rappresenta però un aspetto
critico, soprattutto se la si considera nel contesto delle
opportunità per i ricercatori più giovani. Prendiamo un esempio
concreto e certamente animato da intenzioni lodevoli, come il
recente programma «Futuro nella ricerca». Questi finanziamenti,
rivolti a «giovani» ricercatori sotto i 36 anni, prevedono tra i
requisiti almeno sei pubblicazioni su riviste internazionali.
Requisito, di per sé, certamente ragionevole e indiscutibile in un
Paese che ambisce a confrontarsi con la competizione europea e
globale nella ricerca.
Il problema è che i vincitori selezionati dal programma si
troveranno a lavorare in contesti in cui tali requisiti sono
tutt'altro che scontati. A decidere sul futuro delle loro carriere
saranno, infatti, in molti casi, docenti appartenenti a una
generazione che non ha dovuto necessariamente confrontarsi con
standard internazionali così rigorosi - e spesso, anzi, neppure con
veri e propri concorsi né con gli studi di dottorato. Perdipiù, in
un meccanismo di progressioni di carriera che sinora si è basato
quasi esclusivamente sull'anzianità, è evidente che le decisioni
strategiche e la «governance» sono prerogativa proprio di questi
ultimi.
Insomma, è inutile girarci attorno. Come numerosi altri settori
dell'amministrazione pubblica, l'università e la ricerca italiana si
trovano nel pieno di una frattura generazionale: da un lato
aspiranti ricercatori a cui sin dall'inizio sono applicati (e lo
ripeto: giustamente) rigorosi standard internazionali; dall'altro,
un 'ampia maggioranza di docenti in età elevata, la cui qualità e
produttività è stata sinora affidata (talvolta con esiti anche molto
positivi, ma pur sempre idiosincratici) alla buona volontà
individuale.
L'attuale scarsità di risorse non fa che esasperare questa frattura,
scoraggiando proprio quei giovani più promettenti che, potendo
contare su valide alternative all'estero, non hanno intenzione di
inserirsi in un simile quadro. Affrontare questa situazione con
misure drasticamente schematiche o facilmente demagogiche non è
certamente auspicabile. Ma continuare a ignorarla, e fingere che
possa essere risolta con piccoli aggiustamenti o modeste iniezioni
di risorse aggiuntive, sarebbe ancora peggio.