Onore al merito, tra retorica del diritto, Tito Martello, AetnaNet 28.11.2010 Nel paese delle deputate ex veline (o meglio delle adolescenti che sognano di diventare veline o, in subordine, deputate), dei ministri inadeguati e inquisiti (e talvolta ministri in quanto inquisiti), dei figli e degli (o delle) consorti/amanti dei potenti destinati a esser potenti (ma chi può biasimare un genitore amorevole, un coniuge devoto o un papi generoso), aleggia incontrastato il “pensiero unico” della meritocrazia. Ecco che riforme deformanti e tagli umilianti colpiscono la società intellettuale, che si ostina a voler mangiare (con la) cultura, con indiscriminata e vìndice virulenza, nel sacro nome della meritocrazia, ideologia d’antan attraverso cui dominanti e forti sono costretti a convalidare e difendere la loro posizione e la loro forza, quasi all’altezza delle aristocrazie del passato, di cui sono legittimi eredi e che, in diretto contatto con Dio, erano capaci di nascondere l’inesorabile disumanità dei loro privilegi dietro la distinzione delle abilità e dei comportamenti (un’ideologia peraltro che maggioranze plaudenti alle pensose riflessioni di arguti “terzisti” e minoranze silenziosamente consenzienti mostrano di preferire alla democrazia). Certo i diffusi meriti culturali, al plurale e con tutte le lettere rigorosamente minuscole, fanno correre il rischio a questo stesso paese di vedere crescere le proprie conoscenze e migliorare la loro trasmissione, ma come abiti appena dignitosi da indossare ogni giorno per lavorare, non come preziose risorse per competere in un’appassionante gara dall’esito scontato (che piace tanto a chi ha la certezza di vincere) tra i forti e i deboli, opportunamente slegate da atteggiamenti che espongono gli spiriti più vigorosi alla corruzione, cioè dalla motivazione a contribuire alla qualità dei saperi e della vita di tutti, dalla fiducia dei maestri, dalla solidarietà dei pari. Guardiamoci dunque dal pensare criticamente, che mette in questione tale alata concezione elitaria e classista del merito e l’ideologia meritocratica di cui è parte, insieme all’opportunismo, così moderatamente centrista, delle “anime belle” che promuovono le virtù per salvaguardare quei vizi che solo le virtù sono in grado di alimentare, che cioè sono impegnati a riprodurre un modello di formazione basato sulla frustrazione e sul sacrificio (una volta si diceva “per abituare i giovani alla selezione della vita e della Democrazia Cristiana” e anche oggi si dice una cosa simile), capaci di generare quell’aggressività e quell’urgenza di rivalsa di cui c’è tanto bisogno nella nuova società dell’amore. D’altronde bisogna riconoscere che le soluzioni prospettate ai problemi che affliggono il mondo della scuola e dell’università sono in linea con il meglio della nostra storia, in quanto cambiano molte cose, se non tutto, per non cambiare nulla e mantenere tutte le contraddizioni non risolte di questo nostro lungo inizio secolo (1980-2010), in particolare tra la pervicace domanda di democrazia e le moderne tendenze aziendalistiche (nella scuola) o i pre-moderni residui feudali (nell’università); così come sono in grado di riutilizzare vecchi ma ancora lucidi armamentari del revisionismo storico e della mistificazione politica, come l’idea, che da qualche parte riemerge insieme ad altri residuati, di “blocco” generazionale che unisca nella lotta (ma soprattutto nella rassegnazione) i giovani di destra e di sinistra, vecchia paccottiglia culturale ma ancora ben quotata. Nell’accogliere le complesse e meritocratiche soluzioni offerte dal mercato politico, è anche necessario prendere le distanze da ciò che è rivendicato come dovuto nell’età dei diritti, per il solo fatto che è stato conquistato attraverso lotte pluridecennali e senza tener conto che è stato compromesso e rischia di essere liquidato in pochissimo tempo: cittadinanza, anche per chì è reso clandestino da leggi xenofobe; stabilità e sicurezze per chi lavora; formazione umana e civile e conoscenza a prescindere dalle condizioni oggettive e soggettive di partenza; uguaglianza come principio formale, e quindi come metodo, e come pratica, quindi obiettivo concreto da realizzare qui e ora; democrazia come pensiero critico e come azione innovativa; libertà come percezione dell’altro e consapevolezza che l’utile di ciascuno non può essere scisso dal benessere di tutti (ma per fortuna di tutto questo non c’è quasi traccia nell’orizzonte valoriale e negli elenchi da leggere in televisione della sinistra più responsabile).
Mera retorica sui diritti, autorevolmente definiti recentemente un
lusso, come quella sull’insegnamento e sulla ricerca liberi e messi
nelle condizioni di liberare, sulla cultura capace di contrastare la
smemoratezza, attraverso il rispetto e la cura di ciò che rimane del
passato, di interpretare il presente e di immaginare il futuro, su
un’informamzione coraggiosa che contribuisca a denudare il re. Tutti
in verità generi non commestibili per la parte migliore, più moderna
e meritevole (nonché meritocratica) della nostra classe dirigente,
che rischia di star male per la semplice esposizione a essi. Ai
cittadini elettori e telespettatori non resta che salvaguardare la
salute fisica e mentale dei migliori (politici moderati, a-politici
volenterosi, anti-politici anti-velleitari, imprenditori miracolosi,
banchieri miracolati), plaudendo proni all’insindacabile
distribuzione delle ricchezze e dei poteri operata dalla “mano
invisibile” del Dio, più che trino, quattrino. |