Se vera inclusione è,
dev'esserlo anche a scuola!
«Dobbiamo difendere questa nostra scuola
pubblica, basata proprio sulle diversità», scrive Giampiero Griffo,
«dobbiamo difenderla perché le sfide del mondo futuro saranno quelle
di confrontarsi con nuove culture, con nuove etnie, con persone che
hanno vissuto in modo diverso la vita, lo sviluppo sociale e
culturale, ma che nello stesso tempo sono come noi titolari di
diritti umani. E dev'essere una scuola inclusiva, senza classi
speciali, che garantisca a tutti i sostegni adeguati, come bene ha
compreso chi ha elaborato la Convenzione ONU sui Diritti delle
Persone con Disabilità, dalla quale arriva uno straordinario
passaggio culturale: dal riconoscimento dei bisogni a quello dei
diritti». Un'impresa ardua, forse, in un Paese come il nostro che
non sa nemmeno valorizzare il proprio "primato" di educazione
inclusiva, un Paese dove è proprio il Ministero dell'Istruzione a
non far rispettare le leggi dello Stato. Ma un'impresa
indispensabile
di
Giampiero Griffo* da
Superando,
3 marzo 2010
Per prima cosa, l’Italia - che su
questi temi si pone come il più avanzato tra i Paesi - non
era presente a quella Conferenza e già questo "sgomenta",
in quanto vuol dire che lo Stato che in Europa e nel mondo promuove
una linea totalmente inclusiva, non sa nemmeno valorizzare
quello che fa.
A Salamanca è stato evidenziato come siano circa 67 milioni nel
mondo i bambini che non vanno a scuola, la gran parte dei quali nei
Paesi in Cerca di Sviluppo. 25 milioni sono bambini con
disabilità. Se esaminiamo i dati dell'Agenzia
Europea per lo Sviluppo dei Bisogni Educativi Speciali, scopriamo
che in Europa il 60,9 % di bambini delle scuole primarie - pari a un
milione e 384.000 - frequenta classi o scuole speciali.
Il che significa che il processo avviato in Italia - che oggi vive
delle difficoltà per una serie di "miopie istituzionali" - in altri
Paesi è ancora lungi dall'essere raggiunto. Abbiamo
in sostanza 400.000 bambini in Germania, 240.000 in Francia, 100.000
nel Regno Unito che sono in classi speciali, anche se negli ultimi
anni la tendenza va nella direzione di sistemi educativi inclusivi,
sul modello italiano.
A questo punto va ricordato che la scuola speciale in Italia - prima
della Legge
517/77 - vedeva circa 40.000 bambini che frequentavano le classi
speciali primarie. Oggi siamo arrivati a circa 186.000
studenti con disabilità iscritti nelle scuole di ogni ordine e grado
e la popolazione italiana non è aumentata in proporzione. Il che
significa che la scuola speciale esclude, cancella,
non permette l’accesso all’educazione.
Se andiamo poi a vedere cosa sta succedendo nel mondo, una ricerca
curata da
Inclusion International e presentata proprio a Salamanca - dopo
avere raccolto questionari dalle associazioni aderenti in
settantacinque Paesi - dimostra che il percorso è ancora lungi
dall’essere raggiunto. E tuttavia, confrontando i dati di oggi con
quelli di quindici anni fa, la strada verso la scuola inclusiva
sembra tracciata.
Va detto poi che la questione dell’inclusione non riguarda solo la
garanzia del diritto allo studio per gli studenti con disabilità, ma
le stesse famiglie. Infatti, quando si esclude un bambino si
esclude anche la sua famiglia. E al tempo stesso la
segregazione in classi speciali coincide anche con
l'esclusione degli altri bambini, che in tal modo non
potranno conoscere la condizione di disabilità.
Oggi ci troviamo in una situazione, a livello mondiale, in cui
esiste una lunga storia di globalizzazione dei diritti,
che parte dal dopoguerra e che si riconosce nelle Convenzioni
Internazionali delle Nazioni Unite. Tra le fasce sociali a rischio
di violazione dei diritti umani siamo entrati anche noi,
persone con disabilità. Dall’altra parte c’è un processo
che tende a ridurre la logica di tutti i diritti all’economia. A
cancellare e a ridurre il ruolo dello Stato e a dire: «Visto che non
ci sono soldi, non ti posso garantire i diritti». Il confronto tra
la globalizzzione dell’economia e quella dei diritti è aspro e le
associazioni di persone con disabilità devono schierarsi con
chiarezza.
Una ricerca di qualche anno fa, curata dall’OCSE [Organizzazione
per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, N.d.R.], ha fatto
emergere come l'educazione speciale costi dalle sette
alle nove volte più dell'educazione inclusiva. Quindi
l’approccio economico non ha molto fondamento. Se poi viene
confrontato con il contributo alla società che può dare un cittadino
formato, l’approccio si rovescia proprio: la possibilità di
conseguire finalmente un titolo di studio ha permesso nel nostro
Paese di occupare circa 30.000 persone con disabilità
intellettiva sul mercato del lavoro. Vero è, d’altro canto,
che la
Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha
fatto emergere un dato reale: siamo ancora "ospiti di questa
società", non ne siamo ancora parte. La
Convenzione, infatti, sottolinea il fatto che così come per anni è
accaduto per le donne, gli immigrati e altri, la società non
riconosce i diritti ad alcune fasce di cittadini, anzi pensa
che sia legittimo violarli.
Qui non si può non evidenziare lo straordinario passaggio culturale
attuato dalla Convenzione: si è passati infatti dal
riconoscimento dei bisogni a quello dei diritti delle persone con
disabilità. E anche qui, nella terminologia e negli
approcci culturali che stanno dietro all’educazione inclusiva,
dovremmo forse ripensarne alcuni; forse bisognerebbe
superare la stessa definizione di bisogni educativi speciali,
perché è fuorviante. Perché il bambino immigrato ha special
needs education ["bisogni educativi speciali", appunto, N.d.R.],
il bambino con una famiglia distrutta ha special needs education
e anche il bambino "normale" ce li ha (la parola "normale", del
resto, è di per sé senza senso, perché siamo tutti "normali").
Tutti i bambini, dunque, hanno bisogni educativi speciali e quindi
il termine non ci serve. A noi serve che i bambini
abbiano i sostegni per andare a scuola e siano riconosciuti i loro
diritti umani, indipendentemente dalle loro caratteristiche. Questo
è un punto essenziale della Convenzione e l’Italia, che l'ha
ratificata [con la Legge
18/09, N.d.R.], dovrebbe cominciare a pensare che non si
tratta di un documento tra gli altri, di una carta. Si tratta bensì
di una legge internazionale da applicare, una legge
il cui articolo 24 (Educazione) è stato scritto grazie
anche allo sforzo della Delegazione Italiana di far passare
la logica inclusiva in tutto il mondo.
Quell’articolo, infatti, è frutto anche del lavoro del nostro Paese,
e dei suoi rappresentanti che erano a New York, quando l’articolo
stesso è stato scritto. Erano molti i Paesi che non volevano
l'educazione inclusiva e la battaglia - che ha visto il
grande impegno anche del
CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità) e della FISH
(Federazione Italiana per il Superamento dell'Handicap), insieme a
quello di tante altre associazioni - si è basata su una logica
semplice: se io sono escluso e voglio essere incluso, c’è qualche
parte della società in cui posso fare eccezione? No, anche
la scuola deve garantire l'inclusione.
E tuttavia questo tipo di logica oggi è messo fortemente in
discussione. Nella mia Regione, la Campania, ci sono classi di
36 alunni, 6 dei quali con disabilità.
Un dato che è emerso perché la Regione ha realizzato un'indagine,
non perché l’abbia fatta il Ministero. Eppure vi sono norme precise
che riguardano la disciplina del rapporto tra alunni con disabilità
e numero di alunni per classe. Pensate al paradosso: il
primo a non far rispettare una legge dello Stato è il Ministero
dell'Istruzione!
Inoltre, questa situazione va contro la sicurezza
nelle scuole, che non dovrebbero avere più di 25 alunni per
classe. Esse sono costruite così perché le norme prevedono un
rapporto preciso di sicurezza tra numero di alunni e spazi nelle
classi, fissato proprio a un massimo di 25 studenti. Quella classe
che ho citato, in Campania, verrebbe ad esempio chiusa dai Vigili
del Fuoco...
E non è un'invenzione astratta nemmeno quel rapporto tra alunni con
disabilità e alunni per classe previsto dalle leggi. Esso non può
essere determinato da logiche puramente economiche, ma è esattamente
quell’accomodamento ragionevole che - previsto
dall'articolo 5 della Convenzione - l’Italia ha identificato per
garantire l'uguaglianza di opportunità nell’educazione dell’alunno
con disabilità. Non rispettare ciò è una violazione dei
diritti umani perché (articolo 2 della Convenzione) il
rifiuto di un accomodamento ragionevole è appunto una
discriminazione basata sulla disabilità, ovvero una violazione di
diritti umani.
In questi ultimi anni il Ministero si sta assumendo questa
responsabilità: di violare i diritti umani degli alunni con
disabilità, ma anche di quelli degli altri alunni, perché
si abbassa il livello di qualità dell’educazione per tutti, sulla
base dell’esigenza di risparmiare: ma non si potrebbe risparmiare,
ad esempio, sulle spese militari?
Dai vari viaggi che faccio in Europa, noto come altri Paesi
investano sull'educazione. Essi ritengono che la maggiore
risorsa di un Paese siano i saperi, le conoscenze, la capacità della
popolazione di saper maneggiare il moderno sistema economico, il
moderno sistema sociale. Avere le competenze per entrare sul mercato
del lavoro e quindi essere competitivi - brutta, ma
necessaria parola. L'Italia rischia di non essere
competitiva. Rischia seriamente di perdere una parte dei
suoi patrimoni, che sono quelli educativi, perché non investe in
questo settore.
Attraverso la Convenzione dobbiamo arrivare a costruire un
sistema diverso e nuovo di monitoraggio dei diritti e della
condizione delle persone con disabilità, anche perché la Convenzione
stessa si basa su una definizione della disabilità che non è quella
della legislazione italiana. Perché la disabilità è il
risultato dell'interazione tra persone con menomazione e barriere
comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena
ed efficace partecipazione alla società su una base di uguaglianza
con gli altri. Io non nasco disabile, è la società che mi fa
diventare tale.
Ci sono persone che si muovono in sedia a rotelle, che si orientano
col cane guida, che parlano senza udire, che hanno una comunicazione
di tipo diverso, ma la società si è dimenticata di loro. Perciò
dobbiamo costruire un sistema di monitoraggio che risponda alle
domande: «La scuola italiana, quali ostacoli pone agli studenti con
disabilità?»; «Quali sono i problemi che devono essere superati per
garantire a tutti il diritto costituzionale all’educazione?».
Lo scorso anno Pablo Pineda, uno studente spagnolo,
ha acquisito la laurea [Superando se n'è occupato con il testo
disponibile cliccando
qui, N.d.R.]. Lo scandalo, la sorpresa dov’era? Era una
persona con sindrome di Down. Tutti si sono
chiesti: «Come ha fatto?». Ma il problema è inverso: Pablo,
infatti, ha avuto i sostegni per poter arrivare a diventare,
appunto, un laureato. Quanti Pablo Pineda avrebbero potuto giungere
allo stesso livello di studio? Il problema è: la nostra scuola
garantisce a tutti, e anche a persone come lui, i sostegni adeguati
per essere studenti e arrivare all’università? Questo è il
cambiamento culturale e la Convenzione introduce la
necessità di valutare quali ostacoli e barriere ci
impediscono di arrivare a questo risultato.
In questo senso il movimento di persone con disabilità deve
promuovere ed essere protagonista nel campo della ricerca,
della riflessione culturale e tecnica e allo stesso
tempo costruire appropriati strumenti di monitoraggio.
L’alleanza che in questa sala è evidente, tra associazioni e
operatori del settore della scuola che credono che la scuola di
qualità sia una scuola inclusiva, è uno strumento che dobbiamo saper
utilizzare.
L’Osservatorio sulla Condizione delle Persone con Disabilità -
previsto dalla Legge 18/09, che ha ratificato la Convenzione nel
nostro Paese - dovrebbe lavorare su questo. Dovrebbe iniziare a
capire, territorio per territorio, quali sono gli ostacoli, le
barriere, gli elementi che impediscono a questi bambini, a questi
ragazzi di avere gli stessi diritti degli altri. Questo
sistema di monitoraggio ci deve aiutare a "fare politica".
A dimostrare che se un bambino Down non può studiare non è perché
sia "un poverino che non ce la fa", ma perché non ha i sostegni
adeguati. Questo è l’elemento di cambiamento che dobbiamo
introdurre.
La Costituzione Italiana riconosce il diritto di tutti
all'educazione ed è stata una conquista importante. Oggi
non possiamo tornare indietro, pensando che questo diritto venga
rimesso in discussione sulla base di ragionamenti economicistici;
sarebbe un suicidio per la società e per il sistema scolastico, che
si troverebbe progressivamente a perdere colpi nella competitività
internazionale.
Dobbiamo pensare che la scuola - che abbiamo costruito in Italia
anche con il nostro contributo - è una scuola che si basa sulle
diversità. Dobbiamo difenderla, perchè le sfide del mondo del futuro
saranno queste: confrontarsi con nuove culture, con nuove
etnie, confrontarsi con persone che hanno vissuto in modo diverso la
vita, lo sviluppo sociale e culturale, ma che nello stesso tempo
sono come noi titolari di diritti umani.
Allora, se la formazione nella scuola è importante, bisogna anche
promuoverne l’utilizzo. Il sindacato non dovrebbe più
firmare contratti ove non sia riconosciuta la formazione
come elemento essenziale all’interno del corpo docente. Formare sui
diritti umani tutti gli operatori, prima di tutto, e rimotivare un
sistema che oggi viene messo in crisi da tante vere "picconate".
Quando noi diciamo che la diversità ci appartiene,
è perché anche in una sala come questa chi può dire di essere uguale
a un altro? Chi può dire di essere il modello di normalità cui
bisogna configurarsi? Nessuno. Ed è proprio questo che dobbiamo
capire: la scuola non funziona con gli standard astratti, ma
funziona su persone concrete. In tal senso adrebbero
ripensati anche i sistemi di valutazione standard, i PISA dell'OCSE
[Programme for International Student Assessmente, N.d.R.].
I criteri di valutazione e di comparazione tra i vari sistemi
educativi sono validi fino a un certo punto. Oggi abbiamo sempre più
bisogno di entrare nel merito degli interventi di sostegno
all'educazione, e non di standard astratti.
E allora la conclusione è uno slogan, ma anche un stimolo. Quando
diciamo Nulla su di Noi Senza di Noi è uno slogan che vale
per noi, ma anche per gli insegnanti: dobbiamo
recuperare il ruolo di protagonisti all’interno delle singole aree
di intervento.
Per noi significa che finalmente parliamo direttamente.
Nessuno parla a nostro nome. Ma dall'altro lato significa che
bisogna recuperare la dignità, la forza, la capacità,
per dimostrare che non è vero che il sistema Italia non
funziona. C’è bisogno di uno slancio diverso, in cui il settore
pubblico sia riconosciuto come un valore e un bene per tutti e dove
ognuno si senta di appartenere a un sistema educativo inclusivo, che
garantisca, attraverso regole precise, il diritto di tutti
ad essere educati.
In altre parole, non è vero che rimaniamo indietro perché siamo più
deboli, ma perché siamo discriminati e senza uguaglianza di
opportunità. La rimozione delle discriminazioni e il sostegno al
conseguimento della pari opportunità sono compiti primari dello
Stato.
*
Membro dell'Esecutivo Mondiale di
DPI (Disabled peoples'
International). Componente della Delegazione Italiana
che ha contribuito all'elaborazione della Convenzione ONU
sui Diritti delle Persone con Disabilità. Il presente
intervento è stato pronunciato il 13 febbraio 2009 a Roma,
durante il convegno conclusivo del Concorso
Le chiavi di Scuola 2009, promosso
dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell'Handicap).
Ringraziamo Giuliano Giovinazzo per la collaborazione.