L’urlo di dolore della scuola. REPORTAGE. Un viaggio nei problemi di insegnanti, famiglie e alunni alle prese con la continua riduzione di risorse e personale. Applicata da governi di ogni colore politico. «Così hanno affossato un modello lodato in tutta Europa». di Enrico Campofreda da Terra, 10.3.2010
IL CASO. All’istituto elementare Principe di
Piemonte di Roma Bruna Sferra è una delle maestre che guida didattica e agitazione della scuola elementare “Principe di Piemonte”, luogo quasi magico adagiato su un poggio che guarda la Basilica di San Paolo fuori le Mura. «Le cosiddette riforme di governi di sinistra e di destra - spiega a Terra - hanno affossato il nostro modello scolastico elementare che veniva lodato in tutt’Europa. Iniziò Luigi Berlinguer, barattando una presunta autonomia con sperticati aiuti alla scuola privata. I ministri Moratti e Gelmini hanno completato la svalutazione. Le loro pianificazioni sono incentrate esclusivamente sui tagli al personale e ai finanziamenti. Il budget dell’istituto in cui lavoro che fino all’anno scorso ammontava a tre, dico tre, euro annuali a bambino ora è pari a zero. Qualsiasi strumento utilizzino i 650 scolari - dai pennarelli al computer - viene acquistato dai genitori, le famiglie risultano gli unici finanziatori e naturalmente non tutte possono contribuire. Una situazione umiliante anche per le insegnanti che hanno scelto di servire una scuola pubblica diventata sempre più povera». Sulla stessa linea Giuseppe De Santis, professore di lettere, scrittore e divulgatore culturale, che ha finora dedicato all’Istituto Tecnico “Maddalena” di Adria (Rovigo) venticinque anni di vita. «Da un quindicennio l‘istituzione scolastica ha subito trasformazioni non sempre brillanti e le menomazioni introdotte dall’ultima riforma pesano. L’anno è iniziato con la sostituzione fra materie e competenze (nel caso di lettere sarebbero storia, diritto, educazione civica) ma accanto alla definizione il ministero non ha fornito nessun metodo applicativo. Abbiamo solo constatato ridimensionamenti di materie come diritto e geografia e riduzioni dell’orario settimanale, da 35 a 32 ore nel triennio sceso a 30 nel biennio. Si risparmia sulla forza lavoro eliminando il personale precario e impedendo nuove ammissioni in ruolo. Non ho dati nazionali perché non faccio il sindacalista, so che la mia scuola ha tagliato il 90 per cento delle supplenze. Ora in caso di assenza d’un professore anziché incaricarne un altro le classi vengono divise, oppure ci si chiede di fare ore aggiuntive retribuite. Una sorta di cottimismo». Ma, purtroppo, non è finita qui. «La ricaduta negativa è sull’organizzazione didattica - prosegue De Santis -. Siamo tornati alle classi di trenta alunni e per esperienza dico che oltre i venti l’efficacia del lavoro ne risente. In più s’azzera la possibilità di svolgere attività di approfondimento perché i pochissimi fondi destinati agli istituti vengono usati esclusivamente per le supplenze». Grazie a De Santis e colleghi il Maddalena era considerato nella provincia di Rovigo un esempio per iniziative culturali: animava una pubblicazione scolastica che ospitava contributi famosi (vi scrissero Arslan, Caselli, Caponnetto, Rita Borsellino, Nando Dalla Chiesa, De Luca) e conferenze con scrittori e poeti. Ricordi, ormai. «Per continuare dovremmo cercare fondi fra i privati che però vogliono decidere quali argomenti trattare e con chi, condizionando le scelte culturali. La scuola-azienda che il ministro Gelmini propone apre la porta a modelli d’istruzione gestiti da banche e Confindustria. Purtroppo la qualità del lavoro è da tempo compromessa, il corpo insegnante e i fruitori del servizio non possono più avvalersi neppure di quello strumento d’indirizzo democratico che era il Consiglio di classe». Perché mai? «Oggi - osserva amaro - nei Consigli non si discute di conoscenza, programmi o metodi didattici, si ratificano voti tramite strumenti tecnologici, cosa ben diversa dai confronti fra colleghi incentrati non certo sulle semplici medie matematiche. Un tempo valutavamo col preside il grado di maturità del giovane attraverso molteplici fattori, lui presiedeva un rapporto didattico-conoscitivo che poneva le domande giuste per ottenere giuste risposte a salvaguardia dell’istruzione. C’era circolarità e compenetrazione. L’odierna scuola-azienda dove il preside fa il manager ha interrotto lo scambio, puntando sul rapporto gerarchico: un luogo dove questa sorta di amministratore delegato comanda più che ascoltare».
Anna Maria Lucchese è la manager nella scuola media “Tacito” e nell’annessa elementare di Vitinia, metà borgata, metà paese alle porte di Roma. Dal grosso edificio un tempo lo skyline era dato dal verde intenso delle chiome secolari d’una delle pinete superstiti della zona. Ora predomina l’ocra della cittadella che Caltagirone ha edificato sul lato ovest del Raccordo Anulare. Dirigente da tre anni, insegnante per ventisette fra Milano e Roma, Anna Maria Lucchese conferma come la scuola italiana non sia sempre uguale. Ambiente, tradizioni e non solo producono differenze. «A scuola i ragazzi portano quel che gli gira attorno e non è soltanto questione di nord e sud. In ogni epoca, a ogni latitudine sono sempre esistite scuole migliori di altre: se un istituto si fa una buona fama attira i docenti più capaci e lavorare con chi sa e vuole insegnare riscatta anche le lacune ministeriali. Pur in carenza di risorse possiamo dare alle famiglie un’offerta formativa di qualità avvantaggiando i cittadini del domani. Certo ormai siamo ai salti mortali, a volte bisogna accettare il mercato delle vacche. Davanti a me tempo fa s’è seduto un dirigente di banca che proponeva di finanziare iniziative scolastiche. Il mio intento è stato recuperare fondi difendendo i contenuti culturali. E' durissima ma bisogna provarci. Quest’anno ho un budget di 9mila euro con cui devo pagare anche le supplenze, ne ho raggiunti 17mila facendo la questua fra i genitori, sempre più siamo costretti a chiedere un contributo volontario alle famiglie. Poi ci sono le incongruenze: la Regione mette a disposizione 65mila euro l’anno per pagare l’impresa di pulizie del solo plesso elementare (16 aule, 2 laboratori, 4 atri, 2 rampe di scale), ci lavorano due addetti per quattro ore al giorno. Nella passata stagione la cifra ammontava a 90mila euro dunque l’operatore della ditta costava 38 euro l’ora. Un insegnante ne costa 35. Quelli però sono stanziamenti blindati, non solo a inaccessibili a noi ma anche direttamente all’istituto, che non ha potuto neppure partecipare al bando di gara per il servizio di pulizia».
Settantacinque professori, dodici collaboratori, quattro segretarie,
un direttore amministrativo la scuola della professoressa Lucchese è
più d’una piccola impresa. «Lavoriamo come un’azienda non avendone
le risorse ma abbiamo la coscienza della nostra formidabile
potenzialità: nessuno come la scuola può intervenire nella
formazione culturale in maniera complessiva. Naturalmente occorre
amarla questa trincea, chi tira al ventisette del mese si sente in
gabbia. La stessa figura manageriale tanto criticata ha bisogno di
un’anima, occorre interpretare propositivamente il ruolo per non
renderlo sterile».
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