SCUOLA
L’esperto: con Edimar anche intervista a Daniela Lucangeli, il Sussidiario 10.3.2010 Imparare a studiare, a superare le difficoltà, a concentrarsi? È possibile, se si mette in campo la giusta strategia. A Padova ne sono convinti da tempo, ma ancor più dopo che un mese fa la prestigiosa Iarld (International Academy for Research in Learning Disabilities), la più importante accademica scientifica mondiale nel campo delle difficoltà e dei disturbi dell’apprendimento, ha premiato uno dei borsisti del Centro Regionale per le Difficoltà di Apprendimento, diretto da Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione e prorettore dell’Università di Padova. Il Centro, premiato per la migliore ricerca applicata,vede lavorare fianco a fianco un team dell’Università di Padova e la fondazione Opera Edimar Onlus. Ma a chi si rivolge il Centro per le Difficoltà di Apprendimento? «Ai “bambini di confine”», spiega Daniela Lucangeli a ilsussidiario.net. «E cioè a quel 20/30 per cento di bambini che se non è aiutato non ce la farà. Oggi si sente tanto parlare di dislessia, discalculia, disturbi dell’attenzione, tutte patologie del sistema nervoso centrale. Ma questi casi sono da differenziare rispetto ai bambini che fanno fatica ed hanno bisogno d’aiuto. Sono bambini che per un anno vengono seguiti ed arrivano alla normalizzazione del profilo». E i risultati sono sorprendenti.
Il premio dello Iarld è un fatto
assolutamente significativo - spiega Lucangeli - perché è la prima
volta che si riconosce, a livello scientifico internazionale, che
attraverso l’educazione si può ottenere il meglio di “plasticità
cerebrale” da un bambino». In altre parole, che non va reso
patologico quello che è educabile.
Abbiamo scelto di far interagire
continuamente competenze diverse. Le competenze scientifiche -
quelle dei borsisti di ricerca - fungono da ponte tra gli esiti
della ricerca e la loro applicazione, mirata alle caratteristiche
individuali di ciascuno dei bambini che incontriamo. In questo senso
l’apporto dell’educatore esperto è fondamentale.
Perché è solo con lui che il bambino
si mette in rapporto e solo in base a questo rapporto si chiede uno
sforzo di fiducia e una fatica congiunta, quella di “modificare” le
proprie difficoltà. Abbiamo riscontrato che questo rapporto
favorisce il potenziamento delle capacità cognitive, ma soprattutto
un evidente cambiamento delle capacità di comunicazione con l’adulto
stesso, con evidenti ricadute sulla motivazione a farcela.
Sì. Con risultati evidenti: ogni
bambino ottiene il meglio dal proprio potenziale di sviluppo. È
quello che Lev Vygotskij definiva «sviluppo prossimale»: il
differenziale tra ciò che il bambino sa fare da solo e ciò che sa
fare se correttamente aiutato.
Sono tutti competenti in una specifica
materia. Aiutare un bambino nel calcolo matematico è diverso da
potenziare il suo metodo di studio, ed è ancora diverso
dall’aiutarlo nella comprensione di un testo o nella lettura veloce.
Per ciascuna competenza il bambino ottiene una proposta d’aiuto
specifica, personalizzata. Si parte cioè dalle sue caratteristiche
individuali, della sua struttura neuropsicologica di base. È così
che la zona di sviluppo prossimale - intuita da Vygotskij - diventa
il punto di lavoro.
Per molti versi sorprendenti. I dati
di questi primi tre anni ci hanno dimostrato che il 90 per cento dei
bambini e ragazzi ce la può fare. All’interno della rete, gli
specialisti lavorano, coinvolgendo le scuole, i sistemi sociali, le
reti istituzionali, le famiglie. I numeri sono impressionanti, sono
quasi 900 i bambini che vengono seguiti per un intero anno. Ancora
più significativo il dato dei quasi mille bambini che hanno
usufruito del nostro aiuto tramite l’intervento svolto con le
scuole. Se cinque borsisti e pochi educatori riescono a centrare un
simile obiettivo, significa che il modello è da imitare.
Ai “bambini di confine”. E cioè a quel
20/30 per cento di bambini che se non è aiutato non ce la farà. Ad
aiutarli nei centri trovano esperti di cognizione, e questo fa sì
che si risolva il problema dell’eccessiva patologizzazione dei
bambini di confine. Oggi si sente tanto parlare di dislessia,
discalculia, disturbi dell’attenzione, tutte patologie del sistema
nervoso centrale. Ma non bisogna confondere questi casi con i
bambini che fanno fatica ed hanno bisogno d’aiuto. Solo così si
consegue quasi sempre il risultato della normalizzazione del
profilo.
La formazione dei docenti in questi
ambiti è molto difficile da progettare quindi è necessario che anche
le università se ne facciano carico. Occorre una formazione
multidisciplinare. Non basta la specificità delle conoscenze o delle
competenze di matematica, lettura o scrittura. Occorre capire
l’importanza di quello che prima definivo “sistema di sviluppo
prossimale” nell’intero processo evolutivo. Mi rendo conto però che
formare così gli insegnanti da un punto di vista di sistema è molto
complesso.
È al contempo il nostro punto di forza
e di debolezza. Punto di forza perché mette insieme competenze
diverse per garantire lo sviluppo delle possibilità della persona, e
quindi è molto rivolta all’io. Punto di debolezza perché la
generalizzazione del metodo dipende sempre dalla capacità di
lavorare insieme tra operatori di diversa competenza. Chiaro che
mettendo in campo una figura unitaria tutto sarebbe più semplice. Ma
non più efficace. Da noi il lavoro di équipe tra ricercatori ed
educatori vale in tutte le fasi: valutazione, somministrazione delle
prove, potenziamento, lavoro con gli insegnanti e i genitori.
Con una formula forse fin troppo
facile si potrebbe sintetizzare così: lasciarsi mettere
continuamente in discussione. O meglio: il segreto del nostro lavoro
è essere convinti che ciascuno aiuta nella misura in cui è davvero
aiutato. Voglio dire che non basta pensare di essere d’aiuto,
bisogna che il risultato sia percepito da chi ne ha bisogno.
Noi non abbiamo il compito di
facilitare, abbiamo il compito di aiutare. Aiutare non rende più
facile, ma significa dare una mano perché il bambino cammini da
solo. Il modello che mi piace di più è quello che recupera l’idea
classica di aiutare i bambini a trovare il modo di sviluppare il
meglio di quanto possono.
C’è un unico disturbo
dell’apprendimento che non ha una base organica: l’impotenza
appresa, cioè il fatto che impariamo che non siamo capaci. Se tu sei
convinto che non sei capace, blocchi l’apprendimento. In bambini
seguiti con questo metodo l’impotenza appresa è un’onda che si
rovescia e si trasforma in auto-competenza. Se cioè il bambino
sperimenta che ce la fa, va da una sensazione d’impotenza a una
sensazione di competenza, di forza, di autostima. Questo è anche il
meccanismo che gli insegnanti riconoscono come il più valido, perché
spinge i bambini a rimettersi in gioco. Noi abbiamo la possibilità di pubblicare su riviste scientifiche internazionali, ma se le nostre ricerche avanzate vengono lette da cinque persone nel mondo, non c’è nessuna ricaduta sulla situazione di migliaia di bambini in difficoltà. È proprio qui l’importanza del Centro, un modello certamente complesso in cui ci mettiamo tutti quanti in gioco in ambiti in cui ciascuno di noi deve imparare dall’altro. Ma questo è anche un grande arricchimento per noi ricercatori. S’immagini cosa posso sapere io, che mi occupo di scienze cognitive, di capacità educative ed umane o di formazione dell’io: lo so attraverso il modo in cui se ne fa esperienza qui.
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