In difesa dell'inclusione scolastica
«La necessità di dedicare una maggiore
attenzione al tema della difesa dell'inclusione scolastica degli
alunni con disabilità nasce dallo stato di emergenza in cui ormai la
scuola italiana si è venuta a trovare. La nostra percezione di
addetti ai lavori, infatti, è quella di una volontà politica di
smantellamento di un'eccellenza unica al mondo della scuola italiana
e cioè proprio l'inclusione scolastica dei ragazzi con disabilità».
È da queste premesse che Vito Bardascino, responsabile dell'Area
Integrazione del Progetto "Scuole Aperte" (Assessorato
all'Istruzione, alla Formazione e al Lavoro della Regione Campania),
ha deciso di avviare una serie di interviste che nascono e
proseguiranno con l'obiettivo dichiarato di «difendere l'inclusione
scolastica», partendo da quella ad Andrea Canevaro, da anni una
delle figure più autorevoli del settore. Ringraziamo naturalmente
Vito Bardascino per la cortese concessione di tale intervista al
nostro sito
intervista
ad Andrea Canevaro* da
Superando
25.3.2010
Il livello di emergenza cui siamo
arrivati, in riferimento all’inclusione scolastica degli
alunni con disabilità, richiede un
intervento straordinario a difesa di quei diritti che hanno permesso
a migliaia di ragazzi di costruirsi un futuro qualitativamente
migliore. Gli sforzi che quotidianamente, tutti insieme, operatori
del mondo della scuola, famiglie e associazioni di volontariato
spendono per una scuola di qualità, sono puntualmente
cancellati dalle scelte di un Governo che considera la
persona solo e unicamente come un "costo passivo" e
non come portatore di diritti, questo anche in riferimento alla
sanità e alle politiche sociali, oltre che alla scuola.
Per tali motivi, riteniamo fondamentale rinnovare i nostri sforzi a
difesa della scuola pubblica, ove per pubblica intendiamo
una scuola per tutti e abbiamo pensato di iniziare proprio
dall’analisi dello stato attuale dell’inclusione scolastica degli
alunni con disabilità, attraverso una serie di interviste a chi da
sempre si occupa di questo tema. Non vogliamo però fermarci solo
all’analisi, ma se possibile anche presentare delle proposte
con un approccio pedagogico alternativo alle scelte
politiche scolastiche dei "tagli e delle economie presunte".
Chiaramente non potevamo non iniziare dal professor Andrea
Canevaro. (Vito Bardascino, responsabile Area Integrazione
del Progetto
Scuole Aperte - Assessorato all'Istruzione, alla
Formazione e al Lavoro della Regione Campania)
L'8
ottobre 2008 tutte le agenzie stampa e i siti web che si interessano
di disabilità pubblicavano la lettera di dimissioni di Andrea
Canevaro e Dario Ianes dall'Osservatorio Ministeriale
sull'Integrazione Scolastica [se ne
legga nel nostro sito cliccando
qui, N.d.R.].
Il 17 novembre 2009, poi, nella mozione finale del Settimo Convegno
Internazionale di Rimini sulla Qualità dell'integrazione
scolastica della Erickson, dal titolo Una vita non si
boccia. Mai, veniva dichiarato: «Altrettanto denunciamo i
rischi di deriva sociale che viviamo ogni giorno e che temiamo
portino oggi a un punto di non ritorno, a seguire un appello...
Anche a voi diciamo chiaro e tondo basta, rivolto ai Signori
politici, amministratori, responsabili istituzionali!...
sindacalisti!... delle chiese e del terzo settore!... dell'economia
e della produzione!... cittadini qualsiasi della nostra Italia!»
[se ne legga nel nostro sito
cliccando
qui, N.d.R.].
Le chiedo quindi, professor Canevaro, a distanza di alcuni mesi da
quel Convegno di Rimini e a pochi giorni dal Convegno
L'integrazione delle persone con disabilità. Lo sguardo della
pedagogia speciale (Milano, 25-26 febbraio 2010), si è
registrata un'inversione di tendenza oppure no?
«Direi proprio di no. Si è
perfezionato il dispositivo che permette - o consente - di affermare
princìpi costituzionali con solennità e nelle pratiche quotidiane
disattenderli. Inoltre si sta verificando qualcosa che rende
ingovernabile il sistema educativo. Vengono annunciati con
clamore provvedimenti chiaramente non applicabili, come quello delle
quote di alunni di altre culture (immigrati). Il clamore del
provvedimento è quello che si vuole. La confusione che genera non
interessa chi l’ha proclamato. È la logica dello spot,
che permette di superare con la massima disinvoltura l’impaccio
della coerenza di un disegno, permettendo di affascinare in un
istante con un’affermazione e nell’istante dopo con il suo
contrario.
In questo momento l’Italia sta disattendendo in maniera sfacciata la
Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità,
ratificata dalla Legge dello Stato
18/09».
E quindi ciò vuol significare che in
Italia stiamo correndo realmente il rischio di azzeramento del
processo trentennale dell'inclusione scolastica degli alunni con
disabilità...
«Non è per fortuna semplice disfare in
un attimo alcuni decenni di storia, che è anche storia del diritto e
dei diritti. Vi sono resistenze molteplici e anche efficaci. E il
vero nemico è il malgoverno mascherato da efficientismo. L’aumento
degli effettivi per classe è in contrasto con le norme di sicurezza.
È uno dei tanti esempi di incapacità di governare, nascondendo tale
incapacità dietro la maschera dell’efficientismo e del fare».
Ma le responsabilità a chi sono da
addebitare? Alla scarsa o quasi nulla attenzione dell'attuale classe
politica governativa, alla qualità dell'inclusione degli alunni con
disabilità con bisogni educativi speciali oppure le responsabilità
di questa deriva sono da ricercare anche altrove?
«Le responsabilità sono innanzitutto
di chi in questo momento governa. E anche di chi dimentica o non
vuole conoscere il percorso che è stato fatto. La responsabilità
viene evitata con l’ignoranza colpevole, che è perdita di memoria.
In certi momenti essere responsabili vuol dire saper trasgredire.
Chi cresce ha quasi il bisogno di "trasgredire". Edelman
[Gerald Maurice Edelman, biologo, Premio Nobel per la Medicina,
N.d.R.] sostiene che l’evoluzione dell’intelligenza umana è
passata attraverso la possibilità e la capacità di trasgredire,
ovvero di non conseguire una routine troppo stretta e tale da
diventare "un destino senza sorprese". A maggior ragione chi
vive con una disabilità deve liberarsi dal "destino segnato".
E questo è diventato un impegno proclamato in tante sedi, ma non
sempre seguito da pratiche coerenti.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità riguarda
650 milioni di individui nel mondo. È un mondo in cui la mobilità
delle popolazioni è in continuo aumento; in cui la media della
durata della vita, in Paesi come il nostro, è aumentata
(invecchiamento della popolazione); in cui si calcola che, in media,
un individuo che viva 70 anni avrebbe 7 anni - anche cumulativi - di
condizione di disabilità. La disabilità, come emerge dalla
Convenzione, è un concetto in evoluzione.
L’articolo 1, ad esempio, ribadisce che la disabilità è il risultato
dell’interazione tra le caratteristiche delle persone e le barriere
attitudinali e ambientali che esse incontrano. È inscindibile dalla
qualità della vita; che può dipendere da una rete sociale attiva,
dall’accessibilità dell’informazione, dall’esigibilità dei diritti
(non per un procedimento giudiziario apposito, ma già presenti, in
una società inclusiva) e da una buona accessibilità di prodotti di
mercato facilitanti, oltre che dalla complementarietà con i servizi
sociosanitari con competenze specifiche.
Queste annotazioni dovrebbero indurre a pensare che un buon
accompagnamento verso il progetto di vita (la vita indipendente) di
persone con bisogni speciali può avere ricadute fondamentali
anche per chi si ritiene con bisogni normali. Chi è attento
alle risorse economiche dovrebbe sapere che in questo caso la spesa
può essere un buon investimento».
Cosa potremo quindi chiedere al
Ministero dell'Istruzione? Quali le proposte da sottoporre ai
funzionari ministeriali per garantire una migliore qualità
dell'inclusione scolastica?
«Non chiedo a chi ha dimostrato di non
voler sapere. Mi dispiace dirlo, ma l’unica cosa che vorrei chiedere
è di farsi da parte».
E agli operatori del mondo della
scuola cosa possiamo chiedere?
«Di continuare a vivere una passione
con professionalità».
E alle famiglie?
«Di avere la pazienza, la tenacia, di
trovare alleati negli operatori».
Uno degli interventi (unico in Italia)
svolto dallo Sportello Integrazione di Scuole Aperte
dell'Assessorato all'Istruzione della Regione Campania, è stato il
monitoraggio sul sovraffollamento delle classi in presenza di alunni
con disabilità. I dati inviatici dalle scuole sono a dir poco
drammatici. Come possiamo definire l'offerta formativa delle scuole
in queste situazioni e cosa possono fare le scuole stesse per
evitare tutto ciò?
«È, palesemente, un’offerta illegale
indotta dal Ministro».
Lei ha dichiarato che oggi uno dei
rischi che corriamo è quello «di vivere nelle nostre scuole una
falsa integrazione o peggio ancora un'integrazione a pagamento».
Come si potrebbe, secondo lei, evitare tutto ciò e strutturare
invece una scuola inclusiva, di effettiva qualità, basata sulla
valorizzazione della diversità?
«Cercherei di avere più attenzioni per
i profili professionali. Le necessità organizzative dei servizi sono
indiscutibili. Misurare i bisogni e quantificare le risposte è
necessario. È chiaro che non si possono non fare i conti. Ma la
logica organizzativa può rispondere in maniera equa
alle esigenze delle risorse economiche (con limiti) e alle esigenze
dei soggetti? Si possono tenere in equilibrio le necessità
che portano a oggettivare i bisogni e quelle che portano a
identificarsi con chi vive i bisogni?
Potremmo cercare di semplificare il problema utilizzando strumenti
di rilevazione dei bisogni e affidandone l’impiego a chi vive la
quotidianità accanto ai soggetti con bisogni speciali. Questo è un
modo di arrivare a una soluzione equilibrata, ma non mette al riparo
da rischi. I rischi maggiori, come già accennato, sono di due
ordini: da una parte l'oggettivazione del bisogno
di un individuo, che non è più "il signor Filippo", ma
"un'appendicite"; dall'altra parte l'identificazione con
l'altro, con il "signor Filippo". Nel primo ordine di
rischi troviamo la categorizzazione e la sua ossessione.
Una larga maggioranza di studiosi e di operatori sottoscrive con
facilità la dichiarazione circa la relativa irrealtà delle
distinzioni in categorie. All’interno della categoria "ritardo
mentale", ad esempio, vi sono tali e tante variabili e
differenze individuali, da rendere scarsamente
significativa la categoria stessa. Ma anche la categoria "sindrome
di Down" può dar luogo alle stesse considerazioni.
Si potrebbe dunque concludere che le categorie sono dannose e
inutili? Sarebbe una semplificazione frettolosa e sbagliata. È vero,
però, che vi sono usi delle categorie che sono frettolosi e
sbagliati: è sbagliato l’uso delle categorie per
determinare una lettura dei bisogni - che risulterebbe anche
frettolosa e per questo probabilmente apprezzata da chi ritiene che
gli accertamenti dei bisogni siano "costi passivi"; è sbagliato
l’uso delle categorie per decidere risposte adeguate.
Se queste infatti sono tarate su finte omogeneità, non potranno
essere adeguate e costituiranno un sistema violento; e ancora, è
sbagliato l’uso delle categorie per stabilire le
professionalità da impegnare.
Le categorie sono utili invece per aprire delle differenze
che si trovano sotto la stessa dizione. Si pensi ad esempio
a "diagnosi di spettro autistico" e alla straordinaria varietà di
caratteristiche che contiene questa indicazione. Sono poi utili
per stabilire reti informative che permettano il
miglioramento della qualità della vita dei soggetti con bisogni
speciali. Questo è tanto più importante per le sindromi rare, che
non possono creare competenze sulla base dell’esperienza del singolo
operatore. Paradossalmente, infine, le categorie sono utili
per essere messe in discussione. Scoprire l’inadeguatezza
di un sistema di classificazione è l’inevitabile premessa della
rimozione degli ostacoli per la nostra comprensione. Nello stesso
tempo è il modo per ricordarci che le nostre possibilità di
comprensione sono relative al tempo storico che viviamo.
Importante è quindi:
- considerare
l’accertamento dei bisogni come tempo costruttivo e quindi le spese
che lo sostengono come investimento;
- attribuire le
necessità organizzative dei servizi (misurare i bisogni e
quantificare le risposte) agli stessi Educatori Sociali, prevedendo
uno sviluppo di carriera di questa figura professionale che
solitamente - se occupa un ruolo dirigenziale - lo fa cambiando la
propria identità professionale e sforzandosi di identificarsi con
professioni manageriali;
- evitare di creare
gerarchie di servizi su presunte classifiche di maggiore o minore
gravità delle condizioni e per questo avere modelli di riferimento
per le risposte ai bisogni rilevati sul tipo della proposta di
Booth e Ainscow [T. Booth e M. Ainscow, L'Index
per l'inclusione. Promuovere l'apprendimento e la partecipazione
nella scuola, Spini di Gardolo, Trento, Erickson, 2008, N.d.R.]
che hanno elaborato un’analisi partecipata e di
automiglioramento dell’inclusione (scolastica) di chi presenta
bisogni speciali.
Ianes [D. Ianes,
Bisogni Educativi Speciali e inclusione, Spini di Gardolo,
Trento, Erickson, 2005, N.d.R.] ha illustrato come sia nato il
concetto di Bisogno Educativo Speciale e come lo si possa
fondare sull'ICF [la
Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e
della Disabilità prodotta nel 2001 daall'Organizzazione Mondiale
della Sanità, N.d.R.]. È il segno di una prospettiva che vuole
superare il parametro biomedico, andando oltre le categorie di
disabilità e occupandosi di tanti che vivono diverse
difficoltà.
L’Index di Booth e Ainscow "è una risorsa di sostegno allo
sviluppo inclusivo" e può costituire un ottimo modello di
riferimento per un lavoro analogo prodotto da Educatori Sociali.
L’attuale lettura dei bisogni, invece, attribuita secondo una logica
di divisione del lavoro, impone un modello inadeguato
il cui costo risulta inevitabilmente poco produttivo.
Per quanto poi riguarda i rischi derivati dall’altro ordine di
problemi (l’identificazione con l'altro), essi sono
speculari a quelli già esposti riguardo all’oggettivazione del
bisogno di un individuo. In particolare:
- può accadere che
chi è Educatore Sociale ritenga che le necessità organizzative dei
servizi (misurare i bisogni e quantificare le risposte) siano - come
tutte le incombenze amministrative - attività che esulano dal
proprio impegno. La conseguenza va nel rinforzo di quella divisione
del lavoro che è all’origine dell’inadeguatezza del sistema;
- l'identificazione con
l'altro come compito esclusivo di un Educatore Sociale
logora (burn out);
- l'identificazione con
l'altro può isolare e impedire di "leggere" i bisogni
includendoli in una "lettura" sociale che permetta di mettere
davvero in crisi la "categorizzazione" cui storicamente ci si
riferisce. Le risposte individualizzate a bisogni individuali
possono non essere per "categorie" e non essere individuali (isolate),
ma intrecciare diversi individui in un'eterogeneità
compatibile. Il bisogno di avere un’abitazione, ad esempio,
non riguarda una categoria ("ritardo mentale"), ma individui
non "categorizzabili". Se la risposta è tale da esigere una
certa prossimalità, la stessa risposta deve tener conto della
compatibilità (eterogeneità compatibile)».
Qual è il suo parere sulla riforma in
corso per la formazione iniziale e sull'obbligatorietà di tutto il
personale della scuola?
«Non si può parlare di riforma. È un
cambiamento imposto dalla contabilità ottusa, che non sa fare
investimenti».
Scuole Aperte è alla sua
quarta edizione e in questi quattro anni ha modificato la modalità
di fare scuola della maggior parte degli istituti nella Regione
Campania. Anche quest'anno, ad esempio (2009-2010), 12 milioni e
500.000 euro sono stati investiti per le 478 scuole che a loro volta
hanno coinvolto 1.506 partners per garantire l'apertura e la
fruibilità a tutti, nessuno escluso, alle attività laboratoriali
programmate dalle stesse scuole in orario extracurricolare. Anno
dopo anno è aumentato l'impegno delle scuole per favorire la
partecipazione dei ragazzi con disabilità, con il risultato che
negli anni scolastici 2007-2009, circa 800 ragazzi e adulti con
disabilità hanno frequentato le varie attività di Scuole Aperte
(si pensi al Premio Europeo Handinnov 2008, ricevuto a Parigi
[se ne legga nel nostro sito
cliccando
qui, N.d.R.]).
Inoltre, nell'ultimo bando, è stato chiesto esplicitamente che le
attività extracurricolari, dove possibile, vengano svolte in
coerenza con gli obiettivi previsti dal Piano Educativo
Individulizzato (PEI) e con riferimento ai criteri stabiliti dalla
Convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità. Alla luce
di quanto già svolto, le chiedo: quale potrebbe essere il ruolo
della pedagogia speciale nelle attività laboratoriali di Scuole
Aperte, per migliorare e favorire il processo
inclusivo e formativo dei ragazzi con disabilità per la definizione
del progetto di vita?
«Occorre ripensare l’autonomia. E
occorre partire dalla necessità di sfuggire al rapporto diadico
[ovvero quando aspetti del proprio Sé vengono incarnati e mantenuti
dall'altro, N.d.R.]. Che non vogliamo demonizzare. Esso è
presente nella vita dell’essere umano in alcune fasi dell’esistenza.
Sostanzialmente alla nascita, nella vita di
coppia, nei tempi di malattia (ma non
necessariamente) e nell’età avanzata (ma non
necessariamente). A noi interessa capire quando esso ha un carattere
evolutivo e quando invece condiziona staticamente una situazione.
Sono stati individuati diversi stili del cosiddetto coping
diadico (Guy Bodenmann, 2005). Il coping diadico supportivo
strumentale, che consiste nel tentativo di un partner di
aiutare l’altro a riformulare il problema o a guardare la situazione
da un’altra prospettiva; il coping diadico supportivo emotivo,
che si manifesta mostrando vicinanza emotiva o comprensione empatica
al partner; il coping diadico negativo, che comprende
comportamenti ostili, ambivalenti o superficiali che accompagnano il
supporto: ovvero il partner che dovrebbe fornire supporto lo fa in
modo negativo, in quanto l’aiuto al partner è squalificato da
critiche (spesso a livello preverbale e non verbale) (R. Iafrate, A.
Bertoni, D. Barni, S. Donato, 2009).
Il rapporto diadico ha una dinamica positiva se è evolutivo,
aprendosi all’impiego di mediatori e quindi al rapporto
triadico, che potremmo anche chiamare rapporto
plurale. A volte si ritiene che le persone con una
disabilità abbiano bisogno di vivere continuamente nel rapporto
diadico. E a volte è così. Ma anche questo aspetto non ha un
valore assoluto e potrebbe essere utile capire come sono
cambiate le condizioni di crescita e di vita ad esempio di chi è
cieco. Dobbiamo considerare infatti che il nostro cervello non è una
"tabula rasa" in cui si accumulano delle costruzioni culturali. È un
organo fortemente strutturato che realizza il nuovo
utilizzando il vecchio. Per apprendere nuove competenze,
ricicliamo i nostri vecchi circuiti cerebrali di primati, nella
misura in cui questi tollerano un minimo di cambiamenti.
Il rapporto diadico propone, o vorrebbe proporre, la garanzia di una
stabilità senza cambiamenti. Ma conviene? Certamente è necessario in
alcune fasi della vita. Chi cresce essendo cieco, deve avere un
periodo di sicuro riferimento in un rapporto diadico. Ma se questo
si prolunga eccessivamente, evitando cambiamenti, può
danneggiare il processo di crescita».
Nel ringraziarla per la sua
disponibilità, chiuderei questa intervista con la pubblicazione -
se me lo permette - di una frase di Sergio Neri che le ho sentito
pronunciare per la prima volta al Convegno del 2003 di Rimini, e che
non ho mai più dimenticato, con la quale lei ha chiuso il suo
intervento in plenaria nell'ultima edizione del 2009: «Il problema è
che per fare l'educatore devi inventare sempre nuovi appuntamenti,
nuove attese… ma se non hai un progetto, anche un progettino
piccolo, è un guaio…» (Sergio Neri).
(V.B.)
*
Scienziato
sociale, Andrea Canevaro ha speso la sua carriera
accademica nell'ambito della Pedagogia, con particolare attenzione
verso i temi della devianza e della disabilità.
Inizia la sua formazione umanistica nella Facoltà di Lettere e
Filosofia, per poi proseguire i suoi studi in Francia, presso
l'Università di Lyon 2, dove ha la possibilità di frequentare i
corsi in Pedagogia Speciale di Claude
Kohler.
Nel 1973 ha inizio la sua carriera universitaria presso l'Università
di Bologna, la quale gli affiderà l'insegnamento di
Pedagogia Speciale due anni dopo. La professione accademica conosce
negli anni a seguire un'irresistibile scalata, fino a portarlo a
divenire, nel 1983, presidente del Corso di Laurea in Pedagogia e
dal 1987 al 1993 (e di nuovo nel 1996), direttore del Dipartimento
di Scienze dell’Educazione.
La brillante carriera accademica di Canevaro è testimone del suo
notevole contributo offerto alla studio della Pedagogia
Speciale: in particolare sui temi relativi alla formazione
di educatori professionali per giovani disabili e sul mondo della
disabilità affrontata attraverso il tema del’inclusione, come
diritto alla ricerca e al riconoscimento del valore della diversità.
Numerose sono le sue pubblicazioni su tali questioni, così come le
collaborazioni con case editrici e con riviste nazionali e
internazionali del settore.
Tra le sue opere di maggiore interesse:
Educazione e handicappati (1982); L'educazione degli
handicappati. Dai primi tentativi alla pedagogia moderna (1988);
La relazione di aiuto. L'incontro con l’altro nelle professioni
educative (1999); Pedagogia speciale. La riduzione
dell’handicap (1999); Le logiche del confine e del
sentiero. Una pedagogia dell’inclusione (per tutti, disabili
inclusi) (2006).