università
Berlinguer (Pd): una riforma centralista intervista di Federico Ferraù a Luigi Berlinguer, il Sussidiario 4.5.2010 Il disegno di legge di riforma del sistema universitario è in discussione al Senato. Il suo iter è ancora lungo e cosa ci sia da aspettarsi alla fine non è dato sapere, anche se l’impianto di fondo appare delineato. Molti i plausi, che sottolineano la svolta di una riforma che taglia gli sprechi, riordina il diritto allo studio, rimette mano al reclutamento. Ma molte anche le critiche, che puntano il dito contro l’impianto centralistico del decreto e lo schiaffo all’autogoverno.
«Il testo attuale del ddl è piuttosto
lontano dalle idee originarie - dice a ilsussidiario.net l’ex
ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer -: è diventato
un testo farraginoso, burocratico e pieno di centralismo. E questo
lo appesantisce non poco, minacciando di renderlo inadatto alle
sfide che il nostro sistema si appresta ad affrontare».
Non è solo questione di autonomia. È
la fisiologia stessa della vita accademica che viene intaccata, col
rischio di neutralizzare gli effetti virtualmente positivi della
riforma. Mentre le idee originarie che aveva manifestato il ministro
Gelmini avevano dei punti decisamente positivi. La mia opinione è
che bisognerebbe tornare a quelli.
Primo, bisognerebbe evitare di
comprendere in un unico testo, che risulta enorme, tutti gli aspetti
che attualmente ne fanno parte. L’università ha bisogno di
interventi più mirati. Secondo, c’è una questione di metodo:
bisognerebbe trovare un terreno di intesa tra maggioranza e
opposizione. La condizione politica per farlo è quella di poter
lavorare su un testo aperto, mentre il governo ha chiuso, o quasi,
il testo al confronto. A mio parere su un tema così rilevante è
invece essenziale che la maggioranza trovi prima con l’opposizione
il terreno su cui costruire, insieme, il testo stesso.
Mi sarei limitato in prima battuta a
due punti che considero cruciali e prioritari rispetto agli altri,
vale a dire la governance e la valutazione. Se non si affronta prima
di tutto la governance, eventuali decisioni in altri campi avrebbero
esito negativo nella pratica attuativa. E il motivo è che oggi la
composizione degli organi accademici è troppo corporativa ed
interna, e confonde la gestione scientifico-didattica con la
gestione strategica e di amministrazione. Questi due aspetti invece
vanno separati di più.
Per quanto riguarda la gestione
strategico-amministrativa è indispensabile la presenza, negli
organi, dei rappresentanti degli stakeholders: l’università non può
non alimentarsi di interessi più ampi di quelli accademici. Su
questo aspetto nel campo della maggioranza e in quello
dell’opposizione si sono già esercitate ricerche di soluzione.
Occorre mettersi a un tavolo parlamentare e farle emergere, senza
che nessuna delle due parti ponga veti iniziali.
Con la valutazione si sono fatti
importanti passi avanti, perché Mussi aveva disciplinato l’Anvur,
poi il successivo governo l’aveva sospesa, ora il ministro Gelmini
l’ha reintrodotta nel pacchetto. Ma anche in questo caso
occorrerebbe trovare un terreno comune di confronto per garantire la
bontà del risultato e dare subito attuazione a forme indipendenti e
autonome di valutazione di tutta l’attività: didattica, scientifica,
amministrativa, strategica. Del sistema universitario complessivo,
ma anche dei singoli atenei e delle singole attività all’interno
dell’ateneo. Perché oggi la politica universitaria si fa prima di
tutto con la valutazione.
Trovare un accordo su questi due punti
sarebbe un fatto storico. Anche perché in entrambi i casi le misure
da adottare non sono popolari nel mondo accademico. Incontrerebbero
reazioni ostili in quegli ambienti che da una gestione improntata al
corporativismo hanno tratto vantaggi inaccettabili. Queste forze non
rinuncerebbero ai privilegi consolidati e soltanto uno schieramento
politico molto ampio potrebbe resistere alle pressioni contrarie.
Pressioni che potrebbero anche avere la forza di attenuare una serie
di misure radicali ma necessarie. Raggiungere un buon risultato è
nell’interesse di entrambi gli schieramenti, ma occorre mettersi
nelle migliori condizioni per ottenerlo.
Questa riforma dell’università, a
differenza di quella scolastica che è stata prevalentemente di
risparmio, era partita diversamente. Non la riforma, ma gli
interventi economici svolti dal governo sono stati di riduzione
della spesa, nella ricerca e nell’università. Per questo dico che
dove ci sono sprechi non si deve esitare, ma gli sprechi sono
piccola cosa rispetto al bisogno finanziario vero: l’Italia è un
paese che ha un rapporto spesa universitaria/Pil vergognoso. Le
cifre parlano chiare: siamo ampiamente sotto il minimo vitale. La
questione del finanziamento della ricerca - soprattutto della
ricerca nel suo complesso, universitaria e non - è oggi cruciale e
si può risolvere solo con una netta inversione di tendenza,
altrimenti siamo destinati a sprofondare.
Un momento, un conto sono gli sprechi,
un conto gli investimenti. Ci vogliono molti più soldi: non si
trovano? Si cerchi altrove. Ci sono e si possono trovare facendo
sacrifici in altri campi. In periodi di carestia i contadini hanno
risparmiato su tutto fino a fare la fame, ma mai nelle sementi,
perché avrebbe voluto dire precludersi l’avvenire. È il nostro caso,
mi pare.
Dico solo che mettere questa
disciplina insieme alle altre due, governance e valutazione, rischia
di rendere difficilissima l’approvazione della legge.
Andrebbero prima riformate valutazione
e governance. Per cambiare il reclutamento è indispensabile che la
governance funzioni diversamente, altrimenti qualunque disciplina si
introduca adesso il corpo accademico la gestisce a modo suo. Mi pare
buona invece - e ci tengo a sottolinearlo - la politica premiale.
Vanno finanziate con incentivi ed altro le situazioni, le iniziative
e le ricerche che rispondono a criteri di serietà e produttività. Lo accenna. Lo pone come un obiettivo e questo è un fatto positivo. Ma se poi quel testo lo si osserva nel suo complesso, si vede il rischio che anche la gestione del merito sia fatta dai corpi accademici. Sfuggendo puntualmente a logiche di qualità.
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