I neuroni specchio, l’apprendistato cognitivo
e l’insegnamento delle competenze

 di Cinzia Mion Educazione & Scuola, 1.5.2010

Mi hanno  stimolato ad intervenire i contributi di Pasquale D’Avolio su questo sito e la diatriba tra Giorgio Israel e Silvano Tagliagambe sul sito “ilsussidiario”. Il tema è quello, a proposito dell’emanazione delle indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento dei licei, di avviare un confronto sulla necessità di sostenere a scuola l’insegnamento delle competenze oppure se deve trionfare nuovamente il “disciplinarismo” .

Secondo il mio modesto avviso comprendere il senso dei testi che si leggono, scrivere un testo pertinente, chiaro, plausibile, efficace, incisivo in relazione agli scopi prefissati, saper utilizzare il problem posing  oltre che padroneggiare il problem solving, paradigma essenziale per sviluppare lo spirito scientifico,  sono competenze  che la scuola deve saper insegnare e non è vero che derivano automaticamente dall’insegnamento delle discipline. ..

Comunque rimando agli autori appena citati la conoscenza delle argomentazioni reciproche, sottolineo soltanto lo sconcerto provato nel registrare la supponenza e l’aggressività , (la sua sì arroganza intellettuale!) che Israel esplicita nelle risposte a chi osa criticare le sue posizioni con l’implicita domanda “ma chi è questo pidocchio” che osa contraddirmi?

Io non riceverò nemmeno l’onore di questo epiteto, essendo per il professore Israel una illustre sconosciuta, anzi presumendo di  far  parte di quella corporazione di “ esperti” scolastici che pur privi di competenze specifiche  - ( allora esistono le competenze!) – ritengono di dettar legge in nome di una fumosa dottrina metodologica “dell’education”

 

Sono d’accordo che sia difficile “misurare” le competenze (mancando l’unità di misura) ma si potrebbe valutarne la differente padronanza se solo separassimo il concetto di misurazione da quello di valutazione e contemporaneamente abbandonassimo la fantasia illusoria dell’oggettività .

Non entrerò perciò nel merito di questo argomento già abbondantemente  affrontato da altri.

 

Vorrei invece provare ad inoltrarmi nel terreno difficile dell’opportunità che la scuola italiana programmi ed insegni le competenze ma soprattutto cercherò di affrontare il problema della necessità ineludibile di trasformare la metodologia se si vogliono cogliere questi obiettivi

Eviterò con cura le secche della definizione del termine competenza ma mi appoggerò prima di tutto a Perrenoud ( anche lui un pidocchio?) che dice che l’approccio per competenze richiede lo sviluppo di schemi logici di mobilitazione delle conoscenze. Tali schemi logici si acquisiscono non con la semplice assimilazione di conoscenze,( su cui qualcuno pensa poi avviare delle abilità e quindi la famosa competenza) ma attraverso la pratica. La costruzione di competenze è dunque inseparabile dalla costruzione di schemi di mobilitazione intenzionale di conoscenze,  in tempo reale, messe al servizio di un’azione efficace. La formazione di competenze richiede una piccola “rivoluzione culturale” per passare da una logica dell’insegnamento ad una dell’allenamento, sulla base di un postulato semplice : le competenze si costruiscono esercitandosi sulla base di situazioni d’insieme complesse.

SI TRATTA DI APPRENDERE A FARE CIO’ CHE  NON  SI  SA FARE  FACENDOLO.

Questa affermazione mi permette di introdurre la metodologia dell’apprendistato cognitivo.

So benissimo che parlare di metodologia farà accapponare la pelle al prof. Israel ma tanto non mi leggerà …

 Gli autori delle ricerche su questo approccio - Collis, A, Brown, J.S, Newman, S.E.-  affermano che l’apprendistato cognitivo mutua dall’apprendistato tradizionale  le quattro fasi fondamentali:

1) l’apprendista osserva la competenza esperta al lavoro e poi la imita (modeling)

2) il maestro assiste il  principiante ,  ne agevola il lavoro, interviene secondo le necessità, dirige l’attenzione su un aspetto, fornisce feedback,(coaching)

3) il maestro fornisce un sostegno in termini di stimoli e di risorse, reimposta il lavoro (scaffolding)

4) il maestro diminuisce progressivamente il supporto fornito per lasciare via via maggiore autonomia e un crescente spazio di responsabilità a chi apprende.

 

Nell’apprendistato cognitivo a queste strategie di base se ne affiancano altre che danno maggior rilievo ai processi cognitivi e alle strategie metacognitive.

1) si incoraggiano gli studenti a verbalizzare (pensare a voce alta)  -come ha fatto precedentemente il docente come modello- mentre realizzano l’esperienza;

2) li si induce a confrontare i propri problemi con quelli di un esperto, facendo così emergere le conoscenze tacite (facilitazione procedurale)

3) li si spinge ad esplorare, porre e risolvere i problemi in forma nuova.

 

In questo modo anche lo studente più debole si mette alla prova cimentandosi in contesti non minacciosi per il Sé e sperimentando progressivamente la propria autoefficacia. In questo modo egli  inoltre è condotto ad assumere in proprio la regolazione dei suoi processi cognitivi.

 

C’è da aggiungere che nell’apprendistato cognitivo la classe è una comunità che apprende.

Tutti insegnanti ed allievi assicurano una responsabilità congiunta di apprendere ed insegnare reciprocamente.

 Credo che risulti chiaro che questo metodo si inscrive a pieno titolo all’interno dell’approccio socioculturale vigotskiano (mi viene da spanciarmi dal ridere se provo a rappresentarmi cosa penserebbe il Prof.Israel di  tutto ciò…) 

 

A proposito poi di neuroni specchio-  favolosa scoperta dei neuroscienziati  italiani Rizzolatti e Gallese-  secondo me va sottolineato il collegamento tra l’apprendistato cognitivo e l’acquisizione delle competenze. Tale connessione mi chiedo, e chiedo agli esperti in materia, se viene  spiegata  scientificamente  proprio dal sistema dei neuroni mirror , attraverso il nesso percezione-simulazione.

In altre parole la modalità interattiva dell’apprendimento  sottolineata da Vygotskij , a livello socioculturale, viene confermata dalle neuroscienze?

Dice Gallese che i neuroni specchio sono le basi neurofisiologiche della intersoggettività. Gli stessi circuiti neuronali attivati nel soggetto che esegue azioni, esprime emozioni e prova sensazioni vengono automaticamente attivati anche nel soggetto che osserva queste azioni, emozioni e sensazioni. Questa attivazione condivisa suggerisce un meccanismo funzionale di simulazione incarnata che costituisce la base biologica per la comprensione della mente altrui.

 

 Nell’apprendistato cognitivo abbiamo detto che il docente esplicita i processi del suo pensiero (pensa a voce alta) sia quelli cognitivi che quelli  metacognitivi mentre cerca e trova il senso, o la polisemia, dei testi che propone attraverso la sua lettura, mentre imposta la procedura pertinente e complessa di un testo scritto, mentre trova il bandolo nella traduzione dei testi di greco o di latino,  mentre esplicita le connessioni e i processi soggiacenti al ragionamento matematico o geometrico nella esplorazione delle varie situazioni problematiche, ecc. Risulta pertanto ovvio che sono i docenti che per primi devono padroneggiare i processi mentali che stanno sollecitando, processi che  invece spesso  rimangono taciti e non espressi perché affidati a procedure automatizzate.

Sono pertanto i docenti universitari disciplinaristi che devono conoscere ed insegnare ai futuri docenti  la loro disciplina scorporandone ed evidenziandone i processi mentali implicati!

Successivamente a turno saranno gli allievi ad essere messi alla prova con la  medesima prassi, naturalmente su compiti diversificati ma simili, finchè l’abitudine ad esternare processi cognitivi e metacognitivi sarà consolidata e finchè la competenza , che sappiamo si acquisisce “facendo”, quando ancora  non si sa fare, un po’ alla volta si rafforzerà anche di fronte all’imprevisto.

 Da notare che tutti, allievi e docente, insegnano, man mano che le competenze affiorano.

Si parla infatti di insegnamento reciproco.

 

L’aspetto che piacerà meno ai fautori della scuola selettiva e classista, costruita sui vecchi parametri gentiliani- che al tempo di Gentile però aveva una giustificazione- è che in questo modo le competenze verranno acquisite anche dai soggetti più fragili.

 Verificare operativamente che si sta apprendendo è infatti la più forte molla motivazionale.