Il rettore dell'università di Bologna e la nuova legge per gli Atenei

La riforma, L'università e la meritocrazia

"C'è il rischio di mortificare l'autonomia tanto sbandierata
E quel che conta davvero è rispettare la promessa di premiare i virtuosi" 

di Ivano Dionigi, la Repubblica 26.5.2010

Pubblichiamo l'intervento del rettore dell'Università di Bologna sulla riforma universitaria in discussione in questi giorni

Caro Direttore, due interventi su questo giornale di Francesco Erbani e Alberto Asor Rosa, e soprattutto l'imminente dibattito parlamentare sul Disegno di Legge Gelmini mi inducono ad alcune riflessioni.

Sono uno di quei Rettori che hanno deciso di attivarsi in parallelo all'iter della Riforma, sentendosi in dovere non di "fare le barricate" né di preconizzare "conseguenze catastrofiche" e neppure di iscrivermi al partito dei "fedeli interpreti della volontà governativa", ma più semplicemente e realisticamente di guardare avanti: anzi, "con lo sguardo rivolto contemporaneamente avanti e indietro (simul ante retroque prospiciens)", come esortava proprio quel Petrarca del quale con improprio allarmismo si paventa la scomparsa dai programmi didattici dei futuri assetti dei Dipartimenti universitari.

Se è vero che ricerca e didattica vanno tenute insieme perché la bontà della prima fa la bontà della seconda; se la loro organizzazione, funzione e persino natura sono da diversi lustri cambiate; se è giusto ripetere fino alla noia che quella tra umanisti e scienziati è un'alleanza naturale e necessaria, nella consapevolezza che i primi si alimentano col paradigma della memoria e i secondi con quello della dimenticanza; se noi Europei siamo convinti – e gelosi – del rapporto vitale col nostro passato, consapevoli che l'Antico rappresenta la dimensione non solo fondativa ma anche antagonista del Presente e quindi il contraltare di certa modernità impaziente e affannata; se è ormai acquisito, anche epistemologicamente, che la cultura è una e i linguaggi molteplici: dobbiamo prendere atto che gran parte delle nostre strutture dipartimentali hanno logiche culturalmente inadeguate, organizzativamente ipertrofiche, economicamente dispendiose. E che cambiare si deve: atto voluto, ancor prima che dovuto.

Criterio regolatore principe dei riordinandi Dipartimenti (o Strutture di primo livello) dovrà essere un convincente progetto culturale in grado di rifondarne l'impianto e di ricostruire un solido nesso fra ricerca e didattica; fattori quantitativi ed economici, ovvero indice numerico degli afferenti ed entità del budget, sono criteri subordinati. Guai all'algoritmo unico che allinei e omologhi i diversi: ci potranno essere dipartimenti disciplinari e verticali, e dipartimenti di tipo funzionale e orizzontale, come ha proposto la stessa Conferenza dei Rettori, con diverse tipologie di coordinamento in Scuole o Facoltà per quanto concerne la didattica. E che qui stia una delle cruces della riforma è fin troppo evidente e a tutti noto.

Operazione, anzi rivoluzione, non semplice - soprattutto per i gli Atenei configurati in forma di multicampus -, che richiede un supplemento di riflessione e di disponibilità con al centro due priorità: la competitività della ricerca e la centralità dello studente; vale a dire il dovere sacrosanto per l'Università pubblica di formare una nuova classe dirigente del Paese, secondo quanto ci ammoniva Piero Calamandrei: "non solo nel senso di classe politica, di quella classe, cioè, che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) … ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico".

Il nuovo Disegno di Legge può consentire e agevolare tutto questo, anche prefigurando un assetto di governo più funzionale e più responsabile: ma gli strumenti e i percorsi intrapresi rischiano di comprometterne finalità e direzione, là dove esso, a mio avviso, o dice troppo o troppo poco. Dice troppo laddove numeri e numerini, lacci e laccioli – oltre a contraddire l'intento pluridichiarato di semplificazione e snellimento – non solo mortificano il principio costituzionale dell'autogoverno e dell'autonomia dell'Università ma rischiano anche di mettere tra parentesi specificità, storia e complessità, in particolare dei mega-Atenei, per i quale sarà vitale la possibilità di stipulare "specifici accordi di programma con il Ministero". Dice troppo poco laddove non prevede un adeguato finanziamento né per la carriera dei Docenti più giovani e dei Ricercatori dai quali dipende in gran parte la vitalità degli Atenei, né per il non rinviabile ricambio generazionale, né per il sacro diritto allo studio, invocato dal dettato costituzionale secondo il quale "i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi".

Il Disegno di Legge convince soprattutto quando afferma e declina il principio della valutazione e il conseguente riconoscimento del merito: parole sante soprattutto per chi crede che meritocrazia debba fare rima, non solo fonica, con democrazia. Si dà ora, immediata, la prima occasione per verificare autenticità e consistenza di tale principio: vale a dire la prossima assegnazione agli Atenei del Fondo di Finanziamento Ordinario, e vedere se verrà attribuito il promesso e già troppo timido fondo meritocratico del 7%; se verrà mantenuto il fondo di 120 milioni di riequilibrio e accelerazione; se gli Atenei virtuosi potranno contare almeno sulla stessa percentuale di risorse degli anni precedenti. Se queste attese fossero smentite, allora si affermerebbe un duplice e sinistro messaggio: la non credibilità della riforma e l'inutilità della virtù.