L’inglese all’asilo cambierà la scuola

In Italia ritardiamo i processi di apprendimento in nome dell’idea che i bambini non vadano tormentati e oppressi. Il ministero introdurrà l’insegnamento di lingue straniere e anticiparà l’approccio ai numeri

di Giorgio Israel, il Giornale 20.5.2010

Esiste un generale consenso nel desiderare che i nostri figli possano contare su una scuola che li prepari più degnamente, una scuola che riesca a qualificarsi ai primi posti a livello internazionale. Forse però non è chiaro a tutti che, per ottenere questo, bisogna cambiare mentalità, indirizzi scolastici, obbiettivi di apprendimento. Tanto per fare qualche esempio, non possiamo pensare di andare avanti assegnando come obbiettivo l’apprendimento delle tabelline in terza elementare, quando un bambino indiano o cinese le conosce a cinque anni. Non possiamo pensare che in prima elementare la maestra dica «Aprite il libro a pagina tre, due», perché non può dire «trentadue», in quanto nella prima non si può andare oltre il numero venti. È esperienza comune che un bambino possa apprendere a contare e avere un’idea «ordinale» dei numeri fin da tre anni. Anzi, contare quasi sempre diventa per lui una delle attività più entusiasmanti. Ma nelle scuole materne è vietato parlare di numeri. Si ciancia di baggianate come l’acquisizione della nozione di spazialità («sopra», «sotto», «davanti», «dietro») e di temporalità («prima», «dopo») ma dal leggere, scrivere e contare ci si tiene lontani come dalla peste.

Tutti sanno che quanto più si è piccoli tanto più è facile apprendere una lingua. Nelle famiglie i cui genitori sono di nazionalità diversa è sufficiente che ognuno di essi parli ai figli nella sua lingua perché questi diventino bilingui fin da tre-quattro anni. Ma se si ritarda l’insegnamento di una lingua a sette-otto anni e oltre, tutto diventa più lento e difficile. Parliamo tanto, a vanvera, di educare bambini che sappiano perfettamente l’esperanto dei nostri giorni, l’inglese, ma l’insegnamento di questa lingua inizia in modo carente e poco intensivo soltanto dalle elementari. Non sarebbe sensato che fin dalle scuole materne i bambini sentano parlare, ovviamente in termini semplici e giocosi, anche in inglese?

Invece no. Ritardiamo i processi di apprendimento in nome dell’idea che i bambini non vanno tormentati e oppressi, quando chiunque sa che un bambino è tanto più nervoso, annoiato, distratto e mentalmente labile quanto più non viene impegnato in svariate attività.

È in corso un intenso impegno nella riscrittura delle Indicazioni nazionali per la scuola, che ha avuto inizio con i Licei e che dovrà investire tutto il primo ciclo, dalla scuola materna alle scuole secondarie di primo grado. È da attendersi una forte riqualificazione dei percorsi di studio che prepari i giovani a livelli adeguati per le sfide che ci stanno di fronte, tanto più difficili a causa della crisi da cui siamo travolti. Ma tutto si tiene. Questi nuovi obbiettivi di apprendimento non serviranno a molto se non saranno gestiti da insegnanti capaci, motivati e preparati. Perciò, non soltanto la valutazione degli insegnanti ma anche i processi della loro formazione iniziale e della loro formazione in servizio sono altrettanti tasselli fondamentali di un rinnovamento e di una riqualificazione della scuola italiana.

È all’esame della Camera, per il parere finale, un regolamento per la formazione iniziale degli insegnanti che è in gestazione da tempo e sta giungendo alle fasi conclusive di approvazione. Esso contiene molte innovazioni importanti che si spera diano frutti in futuro. Tra queste una delle più delicate e difficili, che sta sollevando perplessità e dubbi, è la creazione di una laurea per la formazione dei maestri della scuola primaria dell’infanzia unificata e a ciclo unico quinquennale. Ci si chiede: ma è davvero necessario un percorso così lungo anche per le maestre delle scuole dell’infanzia? non basterebbe un percorso triennale differenziato da quello delle primarie?

Pur non tenendo conto del fatto che il parere unanime di tutte le Facoltà di Scienze della Formazione è che questa innovazione costituisca un importante e necessario progresso, se quel che abbiamo detto all’inizio ha un senso, è facile capire perché questo sia un punto decisivo. Vogliamo davvero continuare a credere, di fronte alla crisi educativa e dell’istruzione, che la scuola dell’infanzia sia un luogo dove si fanno soltanto girotondi e si cambiano pannolini? È mai pensabile che un insegnante di queste scuole debba avere soltanto un’infarinatura superficiale di materie psicopedagogiche e di tecniche di gestione dei piccoli e non anche una preparazione adeguata a introdurre i bambini alle prime attività di lettura, scrittura, e di quello che Laurent Lafforgue ha bene definito come lo sviluppo di un senso di «intimità» con i numeri? Ma per questo occorre non soltanto essere capaci di far giocare i bambini, ma aver acquisito specifiche conoscenze di cosa sia il concetto di numero, come nasca nella mente, la sua differenza con le lettere (che rappresentano un universo simbolico di ben altra natura), come si sviluppi il procedimento del contare, e saper liberare questa capacità nel bambino. E oltre alle prime introduzioni alla lettura e alla scrittura, non sarebbe male che qualche canzoncina e qualche gioco venisse fatto anche in inglese.

Esistono numerose ricerche internazionali contemporanee che confermano le intuizioni dei fondatori della scuola dell’infanzia che erano ben distanti dalle attuali visioni riduttive. Chi voglia saperne di più può leggere il recente libro di Margaret Donaldson, «Come ragionano i bambini» (Springer Italia) che mostra come sia perfettamente possibile costruire prestissimo i primi significati matematici. Recenti esperienze in scuole dell’infanzia, tra cui una illustrata alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre, hanno confermato non soltanto la fattibilità di questo approccio ma anche i grandi vantaggi che ne derivano per i bambini, che si mostrano più interessati, motivati e capaci di iniziativa.

I compiti che stanno di fronte a un insegnante dell’infanzia che affronti la sfida di educare dei bambini che non diventino ritardati non sono meno gravosi e complessi di quelli che stanno di fronte a un insegnante delle elementari, e non richiedono minore preparazione e competenza. È inoltre certo che l’unificazione delle lauree non potrà che essere un motivo di soddisfazione per gli insegnanti delle scuole dell’infanzia e produrre un sentimento di maggiore considerazione del proprio ruolo. Senza dire che va anche considerato l’enorme vantaggio che può derivare da una intercambiabilità dei ruoli, che può permettere a un insegnante di passare da una scuola all’altra, creando situazioni più soddisfacenti sul piano personale, e la possibilità di trasferire esperienze da un contesto all’altro. Inoltre, diminuendo la rigidità dei ruoli si crea una possibilità di una collocazione adeguata del personale insegnante.

Per tutte queste ragioni è da augurarsi che questo punto qualificante della nuova normativa della formazione iniziale degli insegnanti resti intatto, sempre nell’ottica che «tutto si tiene» e ricordando che, se vogliamo puntare a una scuola di qualità, non possiamo creare falle in cui vadano a disperdersi gli sforzi prodotti altrove.