IL GIUDIZIO DEL MERCATO

La livella agli studenti
appiattisce gli atenei

di Giacomo Vaciago Il Sole 24 Ore, 11.5.2010

Servono riforme che cambiano gli obiettivi o bastano riforme che cambiano gli strumenti? Il dibattito tornato vivace sulla necessità di riforme che aiutino il paese a crescere rischia di dare risultati inferiori alle attese se non precisa di volta in volta qual è lo scopo principale della riforma proposta.

Faccio un esempio concreto che è di grande attualità e importanza: la riforma dell'università che proprio in questi giorni si sta discutendo al Senato. Il disegno di legge presentato l'anno scorso dal ministro dell'Università Mariastella Gelmini contiene molti aspetti positivi e qualche aspetto ancora migliorabile (certo non con gli 828 emendamenti che erano stati presentati in commissione).

Come inevitabile, il dibattito si è finora concentrato sui temi di governance (ormai si dice così, quasi in ogni campo) con particolare riferimento all'apertura degli organi di governo dell'università a includere interessi del territorio, per avere così un'università caratterizzata da una minore autoreferenzialità. Una diversa composizione degli organi di governo dovrebbe anche essere più adatta per realizzare un'università meglio gestita, cioè più efficiente e competitiva.

È chiaro che questa è la riforma di uno strumento che però non modifica il principale obiettivo del nostro sistema universitario, che è ancora quello del servizio pubblico, volto cioè ad assicurare (come ovviamente è tipico di ogni servizio pubblico) soprattutto valori di eguaglianza. Emblematico il fatto che, sempre e in ogni circostanza, il titolo di laurea conseguito in uno qualsiasi dei nostri atenei (pubblici o come tali riconosciuti) si veda attribuito lo stesso valore.

Com'è sempre con legge nazionale e regole nazionali che si continuerà a scegliere i nuovi docenti di ruolo. Auspicabilmente non estraendo a sorte le commissioni giudicatrici, come si è fatto quest'anno all'insegna del principio che l'estrazione casuale almeno serve ad evitare il peggio, cioè l'elezione di una commissione giudicatrice già d'accordo sul candidato da promuovere, senza neppure aver visto quali sono gli altri candidati!

La distribuzione più o meno casuale della qualità di studenti e docenti nelle nostre università ne risulta confermata. In altre parole, come non è ammessa una graduatoria delle università, così non è ammessa una graduatoria di merito dei loro docenti, e le due cose sono due facce della stessa medaglia.

È dunque da prevedere che, anche il giorno dopo che la riforma Gelmini sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, della necessità di una riforma dell'università continueremo a parlare per molti anni! Perché dovremo prima o poi - se davvero vogliamo tornare a crescere - capire che il valore dell'uguaglianza dei risultati, che giustamente caratterizza la scuola dell'obbligo - dove si formano tutti i cittadini - deve poi lasciar spazio al merito, cioè alla valorizzazione dei talenti individuali che solo la competizione può produrre.

Una competizione che non può non riguardare le diverse sedi universitarie, impegnate (con gli strumenti adeguati) a cercare di attirare i docenti e gli studenti migliori.

Una competizione che non può non estendersi, nei casi migliori, al mondo intero. Ma una competizione che non si può applicare ai docenti se non la si chiede anche agli studenti: quando un allievo esce da Oxbridge con un first, tutti capiscono cosa vuol dire.