Voti, schede o giudizi analitici
Addio alla carta, ma anche al rito della
consegna e del confronto Marco Lodoli la Repubblica 20.7.2010 Era inevitabile, nell'era di Internet le povere vecchie pagelle non potevano sperare di sopravvivere: la carta va al macero, l'inchiostro scorre via e tutto sarà on line. Saranno comunicazioni asciutte che piomberanno nel computer di casa, messaggi privati di salvezza o di condanna, niente da condividere con gli altri studenti. È finito per sempre quel tempo in cui la porta della classe si spalancava come spinta da una bufera: ed era il preside, enorme, cattivissimo, con in mano il fascio delle pagelle. Si sedeva alla cattedra che l'insegnante ossequiosamente gli lasciava e dopo un preambolo minaccioso sul valore dello studio, sull'impegno e i risultati, sul terribile futuro dei giovani, iniziava a consegnare le pagelle. Nessuna rapida distribuzione, il preside chiamava un nome dopo l'altro, e lo studente scattava in piedi e si beccava la sua ramanzina. «Che succede, vedo un rilassamento pericoloso, dove c'erano dei sette e degli otto ora vedo miseri sei. Che succede, abbiamo mollato? Che cos'è, la primavera, l'amore, l'indolenza che cresce?». C'era da tremare nell'attesa del proprio turno, le mani sudavano, il cuore batteva a mille come davanti a un tribunale militare. E finalmente avevamo la pagella in mano, e il peggio doveva ancora arrivare. Già, perché bisognava mostrarla ai genitori, reggere quegli sguardi delusi o, peggio, quegli urli forsennati. Certi padri inforcavano gli occhiali, dicevano: «Vediamo un po' che razza di studente sei», leggevano lentamente quelle due colonnine di voti, scritto e orale, sbuffavano. Era un'agonia. Così, per rimandare sfuriate e punizioni, tenevamo la pagella sepolta nella cartella per una settimana, per due settimane, coi professori che ci sollecitavano a riconsegnarla: e intanto la pagella si ungeva tragicamente a contatto con la pizza, gli angoli si piegavano oscenamente, la carta si stropicciava come il nostro cuore. Mio fratello falsificò la sua prima pagella a sette anni. Corresse a penna i cinque e i sei, li trasformò in nove e dieci, voleva un mondo migliore. Per tormentare gli studenti, in certe scuole producevano anche le pagelline, valutazioni intermedie, ufficiose, rimediabili. Il formato era ridotto, anche il colore era diverso, e i voti non erano scritti con quella grafia ottocentesca, cupa e svolazzante al tempo stesso. Altri tempi, oggi i ragazzi intascano le pagelle senza troppi patimenti, «tanto mio padre lo sa che a me la scuola nun me piace», «tanto a mia madre gliel'ho detto: quest'anno sto a pezzi». Quasi mai arriva il preside a consegnare e commentare, tutto scivola via senza liturgie particolari, nella sciatteria dei nostri anni. Non c'è dramma e non c'è gioia, la pagella è solo un atto amministrativo, non una pagina strappata a una tragedia greca. Ogni sentimento è abolito, si cerca solo la funzionalità, i voti sono solo numeri da sistemare per avere altri numeri, cioè i crediti che servono ad ottenere altri numeri alla fine del corso. E allora tanto vale passare tutto sotto l'asettica giurisdizione del computer. Sui nostri schermi apparirà tutto quello che ci riguarda: messaggi, voti trimestrali o quadrimestrali, valutazioni parziali e finali e forse, un giorno molto lontano, anche la nostra destinazione dopo il Giudizio Universale. |