La lettera
La mistica del merito Pier Luigi Celli* la Repubblica 19.7.2010 Caro Direttore, partiamo da due concezioni, abbastanza chiare oggi, di giustizia sociale. L’una fa riferimento alla uguaglianza dei posti occupati dalle persone nell’organizzazione sociale: tende a ridurre i divari interni alle strutture delle posizioni, derivati dalle ineguaglianze del reddito, dalle condizioni di vita, dalla possibilità di accesso ai servizi, che danno vita a forti diseguaglianze. L’altra, oggi largamente maggioritaria, fa riferimento alla uguaglianza delle chances (opportunità), e descrive la possibilità di ognuno di occupare le migliori posizioni in funzione di un principio meritocratico. In questo caso le disuguaglianze di arrivo risulterebbero ‘giuste’ perché i posti sono aperti a tutti, e la gerarchia finale che si determina è solo frutto dei meriti acquisiti nel percorso. Questa prospettiva prevede che ogni generazione debba distribuirsi equamente tra tutte le posizioni sociali in funzione dei progetti e dei meriti di ciascuno. Le due concezioni sono entrambe legittime, ma non indifferenti. Richiedono scelte politiche e una gerarchia inevitabile di priorità. Con la dichiarazione della rivoluzione francese che ‘tutti gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti’, in realtà si è aperte una contraddizione tra l’affermazione delle uguaglianze fondamentali di tutti e le ineguaglianze sociali reali, che dividono le persone sulla base del reddito, delle condizioni di vita, di cultura etc. Dal momento che si nasce a caso, non è semplice prescindere da fattori come l’eredità, l’educazione, i luoghi stessi in cui si vive, i modelli culturali che orientano e condizionano. Lungo queste prospettive generali non è così pacifico che puntare sulla neutralità delle regole, che conducono da uno stato iniziale, quasi generalmente disomogeneo, ad uno finale, necessariamente segnato da dislivelli e gerarchie, consenta di sottrarre alla discussione un concetto come ‘merito’. Se la sua connotazione è di tipo competitivo, come emerge dall’enfasi un po’ retorica con cui ci viene proposto nelle letture correnti, è abbastanza pacifico che qualche dubbio sulla sua capacità di alimentare selezioni eque sia più che giustificata. Questo, tanto più quanto viene attribuita alla logica meritocratica una valenza prevalentemente quantitativa, affidata alla capacità salvifica di test più o meno universali, mutuati da culture distanti dalle nostre e non così inequivoche, oggi, sulla reale portata delle soluzioni raggiunte. Parlare di uguaglianza delle opportunità offerte, solo perché le griglie selettive sono le stesse per tutti, senza prendere in considerazione la disparità oggettiva dei punti di partenza, può spesso apparire come una astuzia di non grande portata, larvatamente ideologica, che finisce per riprodurre le condizioni che quelle disparità hanno generato. Per parlare sensatamente di merito, che allora può diventare un valore non discriminante, non si può non porsi il problema su come intervenire per ridurre gli handicap di partenza, considerando che la questione non è solo quantitativa, legata magari a sussidi o borse di studio (oltretutto in un periodo in cui le risorse sembrano tutt’altro che abbondanti per la scuola e per l’università), ma molto più culturale, sociale, legata a fattori di cura e promozione individuale. Alla liberazione delle potenzialità compresse, e spesso degradate, di certe condizioni territoriali in cui sarebbe ininfluente, e un po’ ridicolo, pensare di risolvere i problemi sulla base dei risultati di un test. E questo riporta ad una questione sollevata dalle due concezioni citate in apertura: è quasi sempre lo stato di disuguaglianza delle posizioni occupate (dalle famiglie e dai suoi membri) che determina la disuguaglianza delle chances. La mobilità sociale, che misura statisticamente l’uguaglianza delle chances, è un effetto positivo degli interventi sulle disuguaglianze di partenza; il che richiede interventi precisi, continuati e ‘di sistema’, che hanno valenza politica: economica, sociale, culturale. Se le opportunità sono definite come la possibilità di elevarsi all’interno della struttura sociale in funzioni del proprio merito, del proprio valore, della propria voglia di intraprendere, è abbastanza chiaro che queste ‘ virtù civili ‘ devono potersi radicare. Non possono solo essere evocate, senza alcun tentativo di rimuovere gli ostacoli che non permettono loro di dispiegarsi. L’uso dei test, con tutta la loro limitazione, possono anche avere una funzione, purché non si attribuisca loro un peso che non possono avere, servendo al massimo a certificare delle differenze, ma non ad operare sulla gran parte delle variabili culturali e sociali che determinano valori soggettivi, propensioni personali, ricchezze di intelligenza non strumentali e di impegno, che potrebbero influenzare diversamente la valutazione.
Quello che andrebbe
evitato è una sorta di mistica del merito. Col rischio di non
risolvere il problema ma di attribuire un peso ingiustificato ai
suoi profeti. |