L'università intera si basa su questa figura,
ormai non più giovane, Sottopagato e sfruttato ma indispensabile
Sono 25 mila (pochi rispetto alla media europea)
Benedetta Tobagi la Repubblica 21.7.2010 Non sono più giovanissimi: hanno in media 45 anni. Il loro lavoro nelle università statali e negli enti di ricerca pubblici amplia gli orizzonti della conoscenza a beneficio di tutta la società: dalle nanotecnologie alla biogenetica, dalla fisica delle particelle alla paleontologia, dalla ricostruzione dei papiri alessandrini al diritto del lavoro. La ricerca in università dovrebbero farla tutti, dai dottorandi ai professori, ma solo loro la portano iscritta nel nome come un destino. Eppure, spesso non possono praticarla come dovrebbero (e vorrebbero): perché mancano i fondi, o perché oberati di incarichi che poco hanno a che fare con il loro contratto. I reportage spesso ce li hanno mostrati come carbonari, rintanati in laboratori privi delle infrastrutture essenziali, mentre la retorica governativa oggi li accomuna ai "baroni", arroccati a difesa dei propri privilegi. Che spesso, per loro, si riducono alla mensa a prezzo politico. Martiri o fannulloni: chi sono i ricercatori? Nella gerarchia accademica, sono la fascia intermedia tra i gironi dei dottorandi, dottori di ricerca, "borsisti" e "assegnisti" (i "precari" dell'università) e l'empireo dei professori. Sono circa 25 mila (pochi in rapporto alla popolazione attiva, rispetto alla media Ue). Navigando nei blog in cui si scambiano esperienze e doglianze scopriamo una vita di grossi sacrifici, innanzitutto economici. I ricercatori guadagnano poco. Questo, oltre a mortificare socialmente e mettere a dura prova la resistenza di chi svolge un lavoro impegnativo e super-qualificato, riduce la competitività: a queste cifre, i più bravi cercano un posto all'estero, dove si può guadagnare più del doppio. Ma sono soprattutto le frustrazioni e i soprusi di un sistema di fatto feudale (magistralmente Nicola Gardini nel libro I baroni, Feltrinelli) ad avvelenargli l'esistenza. Molti abbandonano: sopravvivere richiede una capacità di adattamento e di sopportazione molto elevata. Certo, il lavoro intellettuale ha bisogno di volontà, autodisciplina e spirito di sacrificio. Ma siamo certi che tacere e adattarsi siano le virtù migliori da promuovere in figure la cui attività principe, la ricerca, richiede originalità di visione e spirito critico? Per cui ben vengano, i fermenti di questi mesi. Perché l'università è assai poco democratica: i ricercatori rappresentano il 40 per cento del personale di ruolo, ma non hanno quasi voce in capitolo nelle scelte strategiche di un ateneo. Con la riforma Gelmini andrà peggio: cda e senato accademico perderanno gli attuali caratteri di rappresentatività, lamenta Piero Graglia, un ricercatore come tanti, uno dei coordinatori della "Rete 29 aprile" che censisce e dà voce alle posizioni di ben 15 mila ricercatori in tutta Italia, impegnati per ovviare a questo deficit di democraticità e contro la riforma Gelmini. Ma servono davvero i ricercatori? Se sparissero, cosa accadrebbe?
Per prima cosa, la
paralisi della didattica universitaria. Non è un esercizio di
fantascienza: per protesta i ricercatori minacciano di astenersi
dall'attività didattica, mettendo a rischio l'anno accademico e
interi corsi di laurea in molti atenei. Si limitano ad applicare la
legge: anche se molti studenti li chiamano "prof", sono solo "dott"
(vedi box). Ma la didattica universitaria oggi è "drogata", il
massiccio ricorso alle docenze dei ricercatori (circa il 30 per
cento degli insegnamenti), spesso non retribuite, sempre
sottopagate, è coinciso con l'esplosione dell'offerta formativa
nell'università del "3+2". Spesso non c'è una maggiore articolazione
dei saperi, specchio dell'accresciuta complessità del presente, ma
doppioni e frammentazione che rispondono piuttosto a logiche di
marketing («e di "bulimia baronale"», aggiunge Graglia). I
ricercatori hanno sempre insegnato: per formarsi, per senso del
dovere, passione, prestigio. La riforma Moratti ha messo una pezza
(vedi box), ma è iniquo che l'università speri di sopravvivere
sfruttando i ricercatori in veste di professori, senza che ne
abbiano lo status né la retribuzione. La nuova riforma non affronta
questo nodo, e nemmeno razionalizza l'offerta formativa.
L'astensione dalla didattica, che preoccupa ministero, presidi e
rettori, dovrebbe funzionare (questo è l'intento dei ricercatori)
come black out, che mette a nudo un deficit di energia strutturale:
occorre far prendere coscienza al governo e a tutti i cittadini che
il sistema veleggia verso il collasso. I pensionamenti nei prossimi
anni lasceranno scoperte molte cattedre. Non ci sono soldi per
rimpiazzare tutti i professori. Si può dissentire col metodo della
protesta, ma l'emergenza che impone all'attenzione del pubblico è
reale. Le proteste dei ricercatori pongono problemi da risolvere nell'interesse di tutta la società, che sarà danneggiata se l'università, impoverita e ridotta a un super-liceo, smetterà di essere la fucina di innovazione, cultura e pensiero che dovrebbe essere. |