Un contributo di Maurizio Tiriticco, da ScuolaOggi 28.7.2010 Non è un caso che l’autrice intitoli la prima parte del suo libro con l’interrogativo “Perché apprendere ad apprendere”. E non è un caso che apprendere ad apprendere costituisca una delle competenze chiave più significative per l’apprendimento permanente, indicateci dall’Unione europea. E non è neanche un caso che tale competenza sia stata assunta dal nostro Paese come la prima da acquisire da tutti i nostri giovani al termine dell’istruzione obbligatoria, come recita il dm 139/07. In effetti, se è vero che oggi viviamo nella cosiddetta società della conoscenza, è anche vero che il conoscere, l’apprendimento continuo di ciascun cittadino costituisce sia un dovere che una necessità: un dovere civico di ciascuno e una necessità sociale per tutti. “Primum vivere, deinde philosophari”, dicevano gli antichi e certamente è vero che la lotta per la sopravvivenza non guarda troppo per il sottile, per cui il pensare, il ragionare può diventare un otium contrapposto al quotidiano e necessario negotium, il darsi da fare… per sopravvivere! Nella società della globalizzazione il bene materiale non manca – comunque sembra non mancare – e il bene immateriale ha preso prepotentemente il suo posto. E il pane di oggi è l’intelligenza, la conoscenza, sia a livello collettivo sociale che a livello individuale. Non è un caso che la scuola da ente chiuso e riservato a pochi è diventata una palestra aperta a tutti, e dalla culla alla tomba come sogliono dire i cultori dell’Educazione permanente. Quindi, oggi, lo sviluppo della intelligenza e della conoscenza è diventato il leit motiv di ciascun nuovo nato, una divisa che lo accompagnerà per tutta la vita. In tale scenario da parte della ricerca si è sviluppata una nuova e più mirata attenzione al problema della conoscenza e dell’apprendimento in ogni fascia di età. Per molti decenni agli inizi del secolo scorso abbiamo ascoltato la lezione dei behavioristi, poi quella dei cognitivisti e oggi connettivismo e costruttivismo la fanno da padroni. Il fatto è che siamo oggi riusciti a entrare in quella black box del nostro cervello – cosa impossibile fino a qualche decennio fa – per cui sappiamo molte più cose di come l’essere umano conosce, apprende, pensa, elabora, progetta, inventa. E abbiamo anche superato quella secolare barriera che ha sempre diviso il cervello dal cuore, la ragione dall’affettività e sappiamo come e perché sia pur sempre il nostro sistema cerebrale il fattore primo del nostro pensare, sentire e agire. La scelta del costruttivismo da parte dell’autrice non è affatto casuale. Il fatto è che conoscere non è tanto e solo acquisire informazioni, quanto invece organizzarle, archiviarle, se si vuole, in più mappe di significati che sono la risultante di continue interazioni tra il soggetto che cresce e apprende e altri soggetti importanti (dai genitori agli insegnanti ed altri attanti significativi) nonché tra il soggetto e quella realtà di cui fa costante e quotidiana esperienza. L’approccio costruttivista implica anche una lettura nuova e diversa dell’esperienza dell’apprendere. Afferma l’autrice: “Poiché la società della conoscenza è caratterizzata dall’obsolescenza e dal contemporaneo incremento del sapere, agli individui è richiesto un aggiornamento costante, una forma mentis che consideri l’apprendimento una risorsa e non un obbligo. Imparare ad imparare è la prospettiva che meglio può corrispondere alle richieste della società della conoscenza” (p. 30). E di qui un successivo e importante passaggio: “La natura altamente relazionale della network society richiede anche di saper mettere in relazione, in rete, conoscenze, persone, processi” (p. 30). Qui è il clou del pensiero dell’autrice e dello scopo del volume. La Spinelli è ricercatore di tecnologie didattiche, ma anche attenta studiosa di processi cognitivi. Il suo intento è quello di ricercare e dimostrare come le tecnologie non costituiscano solo un supporto nuovo per i processi di apprendimento o un valore aggiunto puramente strumentale, bensì una risorsa del tutto nuova, necessaria e imprescindibile per promuovere processi di apprendimento che degli apporti costruttivisti possano fare tesoro. Di qui muove tutta la seconda parte del volume, interamente dedicata a illustrare la natura e i fini del costruttivismo in un ambiente pedagogico. I richiami vanno a Piaget e a Vygotskij, e a Popper anche come padrini inconsapevoli, ma non troppo, di quella ricerca che ha visto poi in Watzlawich, Maturana, Varela, Luhmann il maturarsi del pensiero costruttivista. Il legame che può correre, che corre in effetti, secondo l’autrice, tra l’uso delle tecnologie, i media e il web, nella pratica didattica e la sollecitazione di una pedagogia che potremmo chiamare costruttivista, è molto forte. L’autrice ci ricorda come l’abbecedario che Comenio affidò alle stampe nella seconda metà del ‘600 già sollecitasse nel suo piccolo quell’approccio multimediale (immagini più testi più riproduzione scritta di suoni) che avrebbe stimolato nuove forme di apprendere e di costruire conoscenze e, in seconda battuta, nuovi modi di fare scuola (p. 105). Di qui le ragioni del titolo del volume, “Un’officina di uomini!”. Una scuola officina dove chi insegna, coloro che insieme devono insegnare, siano in grado di adottare metodi che vadano oltre, se non cancellino, la lezione a cui da sempre siamo abituati! E costruiscano soprattutto quelle attività laboratoriali – suggerite anche dal riordino oggi in atto nella nostra scuola – nelle quali la peer education, il cooperative learning, il superamento della tradizionale unidisciplinarità consentano di progettare e lavorare per moduli e costituiscano il polmone pulsante dell’intero tempo scuola. In tale ottica le tecnologie avanzate costituiscono un’opportunità irrinunciabile. E ancora: “Per condurre un lavoro ispirato alle teorie e alla psicopedagogia costruttivista occorrono competenze di natura relazionale, oltre che disciplinare, tanto ai docenti quanto agli studenti. I primi devono confrontarsi con questioni nuove e complesse (la conduzione del gruppo come forma di insegnamento; le diverse intelligenze; la motivazione; l’esigenza di una collaborazione tra i responsabili dell’azione formativa; le nuove forme relazionali attivate dall’uso delle recenti tecnologie; la valutazione) da gestire più come tutor che come esperti disciplinari. Agli studenti viene richiesta una faticosa partecipazione all’attività didattica, un protagonismo formativo al quale non sono abituati, una responsabilità individuale e collettiva della capacità di comunicazione e di gestione relazionale, un senso di appartenenza e di leale condivisione con il gruppo dei pari” (p. 103). Insomma, tecnologie e tensione costruttivista possono costituire la chiave di volta per trasformare lo spazio/scuola, spesso sinonimo di noia, in una reale officina dove insieme si insegna e si apprende e insieme si costruiscono uomini, in grado di misurarsi con una società sempre più problematica, sempre più complessa! La quale, però, non dobbiamo limitarci a conoscerla, ma anche e soprattutto a cambiarla! Una sfida non da poco, ma che noi che insegniamo dobbiamo sapere accettare! |