Requiem per l'autonomia universitaria:
il Senato approva la riforma Gelmini

 Alessandro da Polis Blog, 30.7.2010

Malgrado le proteste che, nel corso degli ultimi mesi, hanno infiammato il mondo accademico italiano, il Senato ha approvato ieri il testo della riforma Gelmini che rivoluzionerà il sistema universitario del nostro Paese.

Tutto ciò dopo che, nei giorni scorsi, il Presidente del Consiglio dei ministri aveva benedetto università telematiche il cui corpo docenti è costituito quasi integralmente da ricercatori precari e da illustri personaggi del mondo della politica e dello spettacolo come Marcello Dell’Utri e Vittorio Sgarbi.

Dopo che lo stesso Presidente, proprio mentre visitava una di queste università, ha manifestato il proprio vivo apprezzamento per le grazie di alcune neo-laureate ed ha espresso, nel contempo, severi giudizi sull’aspetto fisico del vice-presidente della Camera.

Dopo che il Rettore dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, durante l’esame di laurea triennale della figlia del Presidente del Consiglio, ha proposto a quest’ultima di ricoprire una cattedra in una nuova facoltà di economia ispirata alle idee di Amartya Sen, da istituirsi nel medesimo Ateneo.

Dopo che la stessa neo-laureata ha candidamente dichiarato che potrebbe considerare l’idea, purché si istituisca effettivamente una nuova facoltà ispirata alle idee dell’economista indiano.

Dopo tutto ciò e tanto altro ancora, ieri - come dicevo - il Senato ha dato il primo sì alla riforma Gelmini. La quale, per le ragioni che si diranno, sferra un colpo micidiale all’autonomia universitaria, comporta una serie di ulteriori tagli all’amministrazione, favorisce oltre ogni ragionevole limite il precariato e aumenta a dismisura, piuttosto che diminuire, il potere dei cosiddetti “baroni”. Vediamo il perchè.

Partiamo dall’autonomia. L’ultimo comma dell’art. 33 della Costituzione prevede: “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.

La Carta repubblicana riconosce, pertanto, l’autonomia universitaria entro i “limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”, il che significa che, se per un verso la normazione universitaria deve rispettare alcuni principi generali posti dalla legislazione statale, per altro verso quest’ultima non può definire integralmente l’ordinamento universitario, entrando nel merito di scelte che dovrebbero spettare esclusivamente al mondo accademico.

Di tutto ciò chi ha presentato il disegno di legge n. 1905 ha mostrato di essere a conoscenza. Si legge, infatti, nella relazione illustrativa:

“In proposito, si ricorda che la giurisprudenza della Corte costituzionale, fin dagli anni Ottanta, considera che il diritto di darsi ordinamenti autonomi è riconosciuto alle ‘istituzioni di alta cultura, università ed accademie’ dall’articolo 33, ultimo comma, della Costituzione non in modo pieno ed assoluto, ma ‘nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato’. In particolare, secondo la sentenza n. 1017 del 9 novembre 1988 (che a sua volta riprende il precedente della sentenza n. 145 del 14 maggio 1985), l’autonomia universitaria è ‘un’autonomia che […] lo Stato può accordare in termini più o meno larghi, sulla base di un suo apprezzamento discrezionale’, sempreché quest’ultimo ‘non sia irrazionale’”.

Le previsioni contenute nel testo di riforma relative all’organizzazione degli atenei sono tante e di tale specificità da superare ogni limite di razionalità e di ragionevolezza.

Si ridefiniscono integralmente ruoli e funzioni degli organi universitari (rettore, senato accademico, consiglio di amministrazione, ecc.); si fissa il limite del numero di mandati del rettore (due) e la durata massima dell’incarico (otto anni complessivi); sono previste ipotesi di incompatibilità e si ridefinisce integralmente l’articolazione interna delle università, sopprimendo le facoltà e creando macro-dipartimenti che dovranno svolgere sia le attività inerenti alla ricerca che quelle relative alla didattica. E tanto altro ancora.

Una prima considerazione di carattere generale: gli spazi lasciati all’autonomia delle singole università sono minimi. Il che pare esprimere un intento accentratore e davvero poco democratico nella definizione dell’assetto organizzativo di quelli che dovrebbero essere istituzionalmente i primi centri di produzione e di diffusione della cultura nel nostro Paese.

La riforma che sta per essere varata dal Parlamento (manca il sì definitivo della Camera), oltre ad invadere pesantemente la sfera dell’autonomia universitaria, è chiaramente ispirata alla logica del risparmio. O, più esattamente, all’idea che meno si spende per le università pubbliche, meglio è.

L’eliminazione delle facoltà e la creazione di grandi dipartimenti che dovranno occuparsi di tutto è una revisione irragionevole, poiché la distinzione delle strutture è una condizione di efficienza e di efficacia nell’organizzazione delle attività didattiche e di ricerca. Ma serve a ridurre personale. E tanto basta.

Così come la prevista “federazione” degli atenei. Un accorpamento che rischia di creare gravi disagi anche a quel corpo studentesco di cui tanto si preoccupava qualche giorno fa il Ministro Gelmini condannando le iniziative di protesta dei ricercatori.

La riforma è, poi, un vero e proprio inno al precariato: scompare, innanzitutto, la figura del ricercatore a tempo indeterminato. L’art. 12 del disegno di legge prevede, infatti, che per svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università potranno stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo pieno e determinato.

I destinatari saranno scelti mediante procedure pubbliche di selezione, riservate ai possessori del titolo di dottore di ricerca o titolo equivalente, del diploma di specializzazione medica, ovvero della laurea magistrale o equivalente, unitamente ad un curriculum scientifico professionale adatto allo svolgimento di attività di ricerca, e degli specifici requisiti individuati con decreto del Ministro.

Tali contratti avranno durata triennale e potranno essere rinnovati soltanto per una volta. Se alla scadenza del termine complessivo di sei anni i ricercatori non avranno conseguito l’idoneità di professore associato e non verranno chiamati da alcuna università, dovranno andare a casa. Già solo per questo, il potere dei “baroni”, burattinai dei destini dei


I destinatari saranno scprecari della ricerca, aumenterà considerevolmnte.

Ma nello stesso senso vanno anche le revisioni riguardanti il sistema dei concorsi. Per poter essere assunti dai singoli atenei come docenti occorrerà acquisire un’idoneità nazionale riconosciuta da una commissione composta da quattro docenti ordinari estratti a sorte. Saranno poi le università, con commissioni interne, a chiamare gli idonei, in base alle proprie esigenze.

A ciò si aggiunga che i ricercatori scompaiono anche dalle commissioni di concorso (fino ad ora essi partecipavano a quelle di reclutamento di nuovi ricercatori) e i professori associati verranno ammessi soltanto nelle commissioni chiamate a selezionare i ricercatori (fino a questo momento partecipavano anche alle commissioni dei concorsi per associati).

Il regime di permanente precarietà e l’accentramento del potere di selezione aumenta, pertanto, il peso dei professori ordinari, contro i quali il Ministro Gelmini tuonava mesi addietro preannunciando interventi punitivi.