Università, sempre più abbandoni: La grande fuga da Matematica, Scienze politiche e Farmacia. Allarme al Sud di Anna Maria Sersale Il Gazzettino, 6.6.2010 ROMA (6 giugno) - Perdiamo capitale umano, un’emorragia che non si arresta. Nonostante l’Europa ci bacchetti, nelle università il tasso di abbandono è ancora altissimo. Il fenomeno è molto vistoso soprattutto all’inizio del corso di laurea: il 18,1% delle matricole degli atenei statali non si iscrive al secondo anno. Il dato, rilevato dal Miur, si riferisce al 2008-2009 e riguarda gli iscritti del 2007-2008. In media venti giovani su cento lasciano, ma avvicinando la lente d’ingrandimento sui singoli atenei si scopre che in alcune situazioni è allarme rosso. Siena con il 40,7% di mancate iscrizioni batte il record: su 5.760 immatricolati 3.413 non hanno confermato la scelta. Ma tra loro ci sono studenti che tornano in patria per motivi diversi dallo studio. Foggia, con il 34,7%, si piazza al secondo posto della graduatoria. Delle tre università della Sicilia, poi, due hanno percentuali preoccupanti: Palermo 29%; Messina 27,3%; Catania, invece, con il 17,3% va un po’ meglio. Con un 28,6% la febbre dell’abbandono brucia anche in Salento. Non è solo il Sud a piangere. La Statale di Torino dal primo al secondo anno ha il 25% di mancate iscrizioni. Se prendiamo in esame Roma, ci si accorge che anche nella capitale il problema non è davvero secondario: Tor Vergata 28,5%; La Sapienza 19,8% e Roma Tre 19,7%. La Tuscia, altra università laziale, si attesta al 26,4%. I rettori minimizzano: «Non sono tutti abbandoni, dentro queste cifre c’è anche chi ha cambiato indirizzo di studi dopo essersi accorto di avere fatto la scelta sbagliata». «Vero ma - incalza Guido Fiegna, membro del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario, Cnvsu - non nascondiamo la gravità del fenomeno: continuiamo a chiamarle mancate iscrizioni, in realtà sono quasi tutti abbandoni. Riusciremo a scorporare i dati quando finalmente l’anagrafe degli studenti funzionerà davvero, tracciando il percorso dei singoli. Per ridurre il fenomeno dovremmo cominciare a dare agli studenti informazioni più trasparenti sui corsi e sui loro reali sbocchi lavorativi e di ogni ateneo si dovrebbe sapere quali sono le percentuali di occupati tra i laureati». Se osserviamo poi le singole facoltà, scopriamo che le percentuali più alte riguardano Scienze matematiche, fisiche e naturali. (in sigla Mfn), con il 29,7%; seguono Scienze politiche con il 27,7%; Farmacia con il 27,”% e Giurisprudenza con il 21,2%. Anche Ingegneria, una facoltà che di solito viene scelta da chi ha una “vocazione”, non sta messa bene, con il 17,6%. «Ma l’abbandono avviene anche per effetto della selezione, non possiamo mandare avanti tutti», avvertono gli atenei. Già, ma la selezione fatta sul campo apre molte ferite, è più dolorosa. C’è da chiedersi dove sia l’orientamento e dove quei famosi test d’ingresso, varati nel 2001, e che poche università praticano. Dovevano servire agli studenti per mettersi alla prova, per sperimentare se la strada scelta era quella giusta. Quei test dovevano diventare obbligatori ma non vincolanti, non avrebbero impedito l’iscrizione anche in caso di esito negativo (infatti, non hanno nulla a che vedere con quelli per i corsi di laurea a numero chiuso). Poche università li hanno adottati. E non per tutti i corsi di laurea. La Sapienza, per esempio, è uno dei pochi atenei che li ha introdotti, per verificare la preparazione d’ingresso e i livelli di conoscenza delle matricole: «Chi sarà valutato negativamente avrà un “obbligo formativo” da assolvere entro il primo anno, ma potrà iscriversi senza alcuna limitazione. Scopo: indirizzare gli studenti e ridurre gli abbandoni», afferma il rettore Luigi Frati. «Sì, la strada è questa - sostiene Vincenzo Milanesi, rettore di Padova e presidente di Aquis, il club degli atenei virtuosi -. Noi utilizziamo i test d’ingresso già da anni e funzionano. Non impediscono le iscrizioni ma rendono consapevoli i ragazzi che in molti casi aggiustano il tiro e evitano il flop del primo anno. Molti, a causa dell’iniziale insuccesso, sono frustrati, respinti dal sistema e abbandonano. Se vogliamo vincere questa battaglia, lo sforzo che dobbiamo fare è quello di far emergere le vocazioni e sorvegliare i corsi, per impedire la proliferazione di quei corsi inutili o fuori mercato”. Padova, infatti, ha un tasso meno alto: il 14%. «D’accordissimo con l’estensione dei test - sostiene Andrea Lenzi, presidente del Cun, il Consiglio universitario nazionale - Ma l’orientamento ha bisogno di una intensa campagna, che va iniziata dagli anni del liceo. Sì, perché al di là delle professioni comunemente conosciute, avvocato, medico, architetto, le famiglie non sanno granché. L’altro rischio è quello di iscriversi al buio, inseguendo un titolo accattivante. Un ragazzo dice: mi iscrivo a ingegneria nucleare, poi non sa che cosa l’aspetta o non ha le basi di matematica». «L’abbandono è un problema da affrontare sul serio - afferma Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria - Anche perché la crescita lenta dell’Italia è strettamente legata alla bassa istruzione della popolazione. Il nostro capitale umano è qualitativamente inferiore a quello degli altri paesi industrializzati. Risultato: perdiamo la capacità di apprendere e adottare nuove tecnologie e ancor più di inventarle. Con perdite gravissime, invece la riduzione della forbice nell’istruzione tra l’Italia e i principali Paesi darebbe una spinta formidabile all’incremento del Pil». «Dalla metà degli anni Novanta - osserva ancora la Confindustria - gli atenei sono diventati più autonomi nella gestione e nell’organizzazione. Sono mancate, però, piena responsabilità finanziaria e valutazione alla quale legare in modo significativo l’assegnazione delle risorse pubbliche. Le riforme non hanno avuto gli effetti sperati, così gli abbandoni restano alti. Però il disegno di legge proposto dal ministro Gelmini costituisce un’importante occasione per recuperare terreno e modernizzare l’università». Modernizzazione e lotta agli abbandoni sono indispensabili dal momento che l’Italia ha un numero insufficiente di laureati: solo il 14% della popolazione in età da lavoro ha un diploma universitario, la metà della media Ocse e circa un terzo degli Usa. Rispetto a Francia e Spagna il divario è addirittura più ampio. |