La scuola si riforma
con il merito e le risorse

Giovanni Sabbatucci Il Messaggero, 10.6.2010

ROMA - DA QUANDO ha assunto, sono ormai due anni, il prestigioso e gravoso incarico di ministro della Pubblica istruzione, Maria Stella Gelmini si è ispirata, con apprezzabile coerenza, a due criteri di fondo: introdurre, o reintrodurre, nella scuola e nell’università, criteri di più rigorosa selezione, come auspicato da una larga (anche se forse non maggioritaria) fascia di pubblica opinione; e realizzare significativi risparmi nel suo settore di competenza, come richiesto dai suoi referenti politici, tanto più in tempi di grave sofferenza dei conti pubblici. Intenti entrambi lodevoli (il secondo non meno del primo), ma non sempre conciliabili fra loro e spesso perseguiti con un certo affanno, che tradisce l’improvvisazione e la mancanza di un disegno organico.

Esempio tipico di questo modo di operare, il provvedimento, poi corretto per bocca dello stesso ministro, che imponeva il raggiungimento da parte degli studenti della sufficienza in tutte le materie come condizione indispensabile per l’ammissione all’esame di maturità. Provvedimento discutibile nella tempistica (è arrivato infatti alla fine di un anno scolastico) e sbagliato nella sostanza: perché anticipava, caricandolo sulle spalle dei consigli di classe, il grosso del lavoro di setaccio e rendeva così ancora più inutile la costosa macchina degli esami di Stato. E soprattutto perché era al tempo stesso troppo drastico e troppo facilmente eludibile: gli insegnanti, che già si mostravano largamente inclini alla pratica dell’arrotondamento verso l’alto, o del “perdono” di singole manchevolezze, avrebbero potuto continuare in tale pratica, anzi si sarebbero sentiti autorizzati a intensificarla in risposta al secco automatismo del dispositivo ministeriale (come in effetti è avvenuto nel caso di un liceo milanese, dove tutti i cinque sono stati automaticamente trasformati in sei).

Il successivo aggiustamento operato ieri dal ministro, che ha in pratica smentito se stessa, invitando gli insegnanti a usare il buon senso, va dunque accolto come una buona notizia. Ma certo non depone a favore dell’efficienza della burocrazia ministeriale: le norme di buon senso mal si conciliano con gli ukase e con le grida di manzoniana memoria. Anche a prescindere da quest’ultimo caso, un certo sentore di improvvisazione si è potuto cogliere in altre misure.

Ad esempio nell’ambito di misure in materia di tempo pieno, di cicli didattici e ordinamenti scolastici, spesso animate da ottime intenzioni, ma varate, o semplicemente annunciate, isolatamente e disordinatamente, con evidenti effetti di confusione e di incertezza fra gli operatori della scuola. È appena il caso di ricordare che la riforma Gentile del 1923 fu attuata in pochi mesi, con pochi e ben mirati interventi legislativi; e che la sua preparazione coinvolse i più autorevoli pedagogisti dell’epoca (da Giuseppe Lombardo Radice a Ernesto Codignola), trovando appoggio trasversale in buona parte del mondo intellettuale (da Croce a Salvemini, a Sturzo). È vero che quel risultato fu facilitato dalle ampie deleghe concesse dal Parlamento al primo governo Mussolini. Ed è anche vero che la legge fu successivamente stravolta in parecchie sue parti, anche per l’opposizione del fascismo periferico all’eccessiva severità dei criteri selettivi (tre quarti di bocciati alla maturità nella prima applicazione). Ma i lineamenti fondamentali di quella riforma, con i suoi innegabili pregi e i suoi molti difetti, resistettero a lungo allo scorrere del tempo e al succedersi delle stagioni politiche.

C’è poi la questione delle risorse, sempre più scarse. Come ho detto, lo sforzo per ridurre le spese, o quanto meno per contenerne la dinamica, è in sé lodevole. “Far cassa” non è una cattiva azione, come spesso si pensa: dipende dalla natura delle spese tagliate e dall’impiego delle risorse risparmiate. Può accadere però e gli esempi recenti anche in questo senso non mancano che, a forza di tagli indiscriminati, la scuola si trovi nell’impossibilità di assolvere ai suoi compiti primari (che costituiscono fra l’altro uno dei corrispettivi più importanti fra quelli forniti dallo Stato a fronte del pagamento delle tasse); e non possa nemmeno perseguire quegli obiettivi di miglioramento qualitativo che pure sono negli obiettivi dichiarati del ministro. Obiettivi che non saranno mai raggiunti senza risorse da destinare all’edilizia scolastica, alla formazione degli insegnanti e anche agli incentivi per i più meritevoli. Risparmiare è oggi un dovere di tutti, scuola compresa. Farlo in modo intelligente, salvaguardando nella misura del possibile gli investimenti strategici per il futuro del Paese, è compito specifico dei ministri: soprattutto di quello della Pubblica istruzione.