MANOVRA E FEDERALISMO SCOLASTICO, di Fabrizio Dacrema, da ScuolaOggi 10.6.2010
Curzio Maltese ha colto bene l’intento punitivo nei confronti degli
insegnanti contenuto nelle manovra del governo. C’è una tale
iniquità nel chiedere il contributo finanziario più oneroso ai
lavoratori della scuola, già notoriamente sottopagati, che può solo
essere spiegato con la volontà politica di colpire la categoria che
ha sempre meno votato Berlusconi e che, grazie ai diffusi alti
livelli di istruzione, meno abbocca alle sue trappole populistiche.
Questo è vero, ma c’è dell’altro. Sommando la manovra Tremonti-Gelmini 2008 (alleggerimento del comparto scuola di 130 mila unità) alla Tremonti 2010 (impoverimento di 2 miliardi delle retribuzioni del personale e un altro taglio lineare al Ministero dell’Istruzione) emerge anche il disegno di ridurre al livello minimo il perimetro della spesa statale per l’istruzione in vista dell’attuazione del federalismo fiscale. Dietro alla parola federalismo in Italia, a partire dagli anni novanta, si confrontano, infatti, due strategie contrapposte.
Da un lato, il federalismo unitario e solidale del centrosinistra
finalizzato a decentrare e responsabilizzare la spesa pubblica per
migliorare l’allocazione delle risorse, potenziare la capacità di
rispondere alla domanda sociale, realizzare un sistema scolastico
effettivamente inclusivo e di qualità su tutto il territorio
nazionale. Dall’altro la strategia federalista della destra, il cui
mai abbandonato obiettivo prioritario rimane la rottura del patto
solidaristico tra i cittadini, praticato attraverso una contrazione
dei servizi e delle prestazione pubbliche essenziali. Quando dice
federalismo la destra, più che al decentramento e all’autogoverno,
pensa alla destrutturazione del welfare universalistico e del
sistema formativo pubblico. Il disinteresse del governo per un reale
decentramento dei poteri è dimostrato dal progressivo depauperamento
delle risorse locali – nel 2008 sono state tolte le risorse dell’Ici
e ora un altro taglio di quasi 15 miliardi di euro – che provocherà
un drastico ridimensionamento di servizi essenziali. Il sistema
formativo pubblico sarà così indebolito anche dal lato della
capacità di spesa delle Regioni e degli Enti Locali: saranno colpiti
gli asili nido e le scuole dell’infanzia comunali, servizi
essenziali per le scuole quali mense e trasporti, la formazione
professionale, l’apprendimento permanente, l’edilizia scolastica,
gli interventi per il diritto allo studio. Tutti questi fondamentali
interventi oggi a carico delle regioni e degli enti locali saranno
pesantemente ridotti e/o fatti pagare ai cittadini. Nella sua ultima riunione la Commissione Istruzione dell’ANCI, dal suo autorevole osservatorio, ha descritto il quadro drammatico in cui versano le scuole: impossibilità di sostituire i docenti assenti e dirigenti scolastici costretti dividere gli alunni nelle altre classi, con evidenti ricadute negative sia per la didattica che per la sicurezza, ricorso ai contributi volontari delle famiglie per sostenere spese ordinarie, numeri eccessivi di alunni presenti nelle classi (29/30 alunni in ambienti realizzati per un numero inferiore senza il rispetto delle norme sulla sicurezza). La Commissione Anci evidenzia poi la seria difficoltà che si sta determinando per la consistente riduzione delle classi a tempo pieno causata dalla diminuzione degli insegnanti – anche l’Anci smentisce la Gelmini - che impedirà a molti bambini di frequentare le scuole nel pomeriggio nonostante le richieste avanzate in fase di iscrizione dalle famiglie. Tale situazione, secondo l’Anci, sta già producendo le prime inevitabili ripercussioni sui Comuni che si vedono investiti dalle famiglie nella ricerca di soluzioni alternative. A questo proposito la Commissione preannuncia che “in molti casi i Comuni, non potendo garantire tali servizi in forma gratuita data la scarsità delle risorse dei bilanci comunali, si vedranno costretti a richiedere contributi alle stesse famiglie”. Quanto prospettato dall’Anci a riguardo del tempo pieno non è altro che un’anticipazione degli effetti delle politiche governative: il decisionismo centralista riduce al minimo servizi pubblici e scuola, successivamente enti locali e famiglie, sulla base delle loro disuguali capacità economiche, dovranno farsi carico dell’onere di ristabilire livelli essenziali di qualità dell’offerta. Questa è la direzione nella quale la destra fa correre la lepre del federalismo. In materia di istruzione il governo, in vista dell’attuazione del federalismo fiscale, punta ad arrivare ad una definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei relativi costi standard coincidente con la scuola statale minima risultante dall’effetto delle due manovre: tempo scuola per gli alunni insufficiente rispetto alle necessità curricolari e sociali, caduta dei percorsi individualizzati a causa dell’eliminazione delle compresenze dei docenti, riduzione strutturale e stabile delle retribuzione dei docenti e del personale ata, eliminazione delle risorse per le carriere professionali, dimezzamento di quelle già scarse per la formazione del personale, finanziamento ampiamente insufficiente delle scuole. A fronte dell’impoverimento e della progressiva dequalificazione del sistema pubblico di istruzione, non è difficile prevedere l’aumento delle famiglie che chiederanno di essere sostenute finanziariamente per cercare soluzioni migliori nel privato. Al tempo stesso si rafforzerà la spinta verso forme di regionalizzazione totale, personale compreso, tendenti a dar vita a 20 diversi sistemi scolastici regionali nel tentativo delle regioni più forti di costruirsi offerte formative adeguate alle loro esigenze di sviluppo.
In entrambi questi casi, e nei loro possibili mix, si produrrebbe un
ulteriore aumento delle disuguaglianze - già gravissime in Italia -
negli esiti formativi determinate dalla provenienza socio-culturale,
etnica e territoriale.
Il nodo decisivo per fermare questa china è rappresentato dalla
definizione dei livelli essenziali di prestazione che dovranno
essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Per battere il federalismo neoliberista della destra occorre allora sconfiggere la tendenza a fissare i LEP al livello troppo basso indotto dalle due manovre del governo, sostanzialmente al di sotto dei livelli di quantità e qualità necessari per realizzare l’innalzamento dei livelli di inclusione e di apprendimento di cui il paese ha bisogno. Bisogna quindi far cambiare strada alla lepre e riproporre il federalismo come strumento per riformare e rafforzare la scuola pubblica, coerente prosecuzione del processo avviato con l’autonomia scolastica. Livelli effettivamente essenziali delle prestazioni, coerenti con i principi costituzionali, non saranno il risultato di operazioni di ingegneria istituzionale, ma dovranno essere conquistati attraverso il conflitto sociale contro le misure del governo. Altrettanto decisiva sarà l’attuazione a livello locale di patti stretti tra scuole, famiglie, forze sociali, enti locali per la difesa e la qualificazione della scuola pubblica sulla base di piattaforme finalizzate alla crescita civile ed economica dei territori. |