A proposito di esami di stato
e terza prova (e dintorni)

di Antonio Valentino, da ScuolaOggi 28.6.2010

Il ministro, in questi giorni in cui il rito della “maturità” la fa da padrone su giornali e TV, ci informa a ripetizione che dal 2012 la terza prova degli Esami di Stato (quella multidisciplinare, predisposta dalla commissione su argomenti delle materie dell’ultimo anno) cambierà completamente connotati. Nel senso che diventerà una prova, sempre pluridisciplinare, ma a carattere nazionale (i test saranno cioè elaborati centralmente).

E’ una buona notizia perché l’attuale terza prova, per come di fatto si configura (è lasciata alla responsabilità delle singole commissioni), è infatti, spesso, una operazione appiattita sui test di simulazione delle scuole, sostanzialmente nozionistica e senza capo né coda.

E, soprattutto, i test

a. ben poco permettono di verificare rispetto alla effettiva preparazione degli studenti nelle materie considerate;

b. sono strutturati su contenuti e secondo finalità diversissimi da commissione a commissione;

c. non permettono (quindi) confronti e rilevazioni sensate (nonostante la presenza di una banca nazionale alla quale in pochissimi attingono), capaci di dare gambe e valore ad un curricolo nazionale, per quanto sobrio ed essenziale.

Va rilevato inoltre che, delle varie tipologie previste - trattazione sintetica di argomenti, quesiti singoli o multipli, soluzione di problemi o di casi pratici e professionali o sviluppo di progetti - (L. 425/997, art. 3 c.2), solo le prime due risultano di fatto “gettonate” dalle scuole e quindi dalle commissioni. Pertanto le pratiche comuni un po’ a tutte le commissioni schiacciano sul nozionistico l’insieme della prova, depotenziandola degli aspetti più innovativi legati alla soluzione di problemi o allo sviluppo di progetti; e quindi all’accertamento di competenze - chiave attraverso tematiche derivate dalle materie studiate.

C’è da chiedersi quali possano essere state le ragioni per cui sono prevalse le pratiche riduttive e poco sensate che in tanti lamentano. Senz’altro sono diverse. Penso però che esse vadano soprattutto ricercate nella mancanza, dalla prima ora, di una formazione mirata e “obbligata” dei docenti e dei dirigenti; per cui un certo pressappochismo e una qualche incoerenza, rispetto agli oggetti di verifica e valutazione, han finito col creare situazioni diffuse di inadeguatezza e vacuità.

Nessuno quindi, credo, si dorrà di questo cambiamento. Anzi.

E, a chi pensa che possa essere un attacco all’autonomia delle scuole (in effetti, la terza prova scritta era stata pensata come “espressione dell’autonomia didattico – metodologica e organizzativa delle Istituzioni scolastiche” in quanto “strettamente correlata al POF di ciascuna di esse”), si può facilmente rispondere che il terreno di prova dell’autonomia non può essere dato dalle modalità frantumate e incerte di accertamento della preparazione che abbiamo sperimentato in questi anni e che quindi il recupero di un minimo di unitarietà culturale delle nuove generazioni, attraverso una prova pluridisciplinare nazionale e ben pensata, non può che fare bene al nostro sistema di istruzione.

Quindi ben venga questo cambiamento. Purché non lo si assuma come innovazione isolata e lo si caratterizzi rispetto a obiettivi e finalità – e quindi a dispositivi di accertamento – chiari e precisi. Lontani cioè dalle ambiguità che oggetti e forme ossificate di quest’ultimo decennio hanno conferito a un esame di Stato, quello varato nel 97, che quando è stato introdotto aveva pure buoni elementi innovativi (poco valorizzati dal mondo della scuola, per responsabilità che vanno, anche qui, cercate in varie direzioni).

Allora potrebbe essere buona cosa, nel definire i lineamenti di questo cambiamento:

uno: rileggere la norma con la quale è stato inserita nel nostro ordinamento e verificare se i suoi contenuti innovativi, che pure si possono cogliere nei passaggi riportati, vadano riscoperti e attualizzati in forme nuove e soprattutto considerati in termini di fattibilità;

due: rendere più stringente il rapporto tra accertamento delle conoscenze, attribuito a prove strutturate, e verifica delle competenze-chiave trasversali (dalla correlazione dei saperi al loro uso in contesti diversi, dalla costruzione di diagrammi e flussi alla impostazione di un problema o alla strutturazione di un progetto, …);

tre: cogliere, attraverso gli oggetti della verifica, i nuclei fondanti delle discipline e accertare di esse la conoscenza degli strumenti e delle metodologie specifiche (praticamente, l’opposto di una operazione nozionistica che è quella prevalente nella gestione attuale di questa prova);

quattro: fare uso di una logica di sistema nella sua predisposizione. Si tratta di capire come gli accertamenti di questa prova si correlano con quelli delle altre prove e in che misura costituiscono tessere di un’operazione valutativa tendenzialmente organica e mirata (in altri termini: no agli enciclopedismi e agli accademismi, tentazioni mai completamente vinte della didattica nostrana).

In quest’ottica andrebbe introdotta, impostata e praticata, finalmente, la certificazione delle competenze di cui si parlava per la prima volta – 13 anni fa! – nella legge istitutiva del nuovo Esame di stato (la già citata L. 425 del ‘97).



E, sempre in tale ottica, si tratterebbe in primo luogo di capire anche qual è il senso della prima prova scritta, così come è strutturata nell’attuale modello.

La norma le attribuisce il compito di “accertare la padronanza della lingua italiana …, nonché le capacità espressive, logico-linguistiche e critiche del candidato”.

Eppure, a leggere le ultime tracce - quelle della prima prova dell’esame in corso - , non riesci a capire – ancora una volta - dove si voglia andare a parare e quindi cosa si voglia realmente accertare. E ciò a prescindere dai contenuti proposti: ottimi espedienti, comunque, nella maggioranza dei casi, per arrampicature – quest’anno - sui vetri della “felicità” o del “piacere”; o, se più aggrada, dell’”impegno giovanile”. Per il quale si è ricorso a citazioni da Moro e da Mussolini (quest’ ultima tratta dal discorso in cui il dux si assumeva la responsabilità dell’omicidio di Matteotti. Ovviamente, del contesto, niente. Come è giusto), le riflessioni di papa Voytila e quelle di Togliatti (queste ultime introdotte, dicono, per permettere alla maggioranza di compiacersi della propria liberalità e alla sinistra di scoprire che ha una storia); per non citare la traccia, ben costruita in verità, sulle foibe (che ovviamente nelle nostre scuole tutti studiano).

Ad ogni buon conto, ha senso – c’è da chiedersi – in un esame di stato, a conclusione del ciclo di istruzione superiore, andare ad accertare la padronanza della propria lingua madre? E se proprio si vogliono accertare le capacità logiche e critiche - come è scritto nella legge -, siamo sicuri che le “lenzuolate” di questa prova (sei pagine fitte), costituiscano la forma più adatta ed efficace?

Comunque, quello che mi preme sottolineare è che, anche per la prima prova scritta, se pure la si vuol conservare, i ragionamenti da fare riguardano la dimensione sistemica (la natura di sistema) dell’esame, la chiarezza degli oggetti valutativi e la loro coerenza rispetto al profilo in uscita dell’indirizzo seguito.

In altri termini: un esame legato alla specificità degli indirizzi, che sia attento alle competenze chiave di carattere trasversale e che assuma il porre problemi e la loro impostazione e risoluzione come la modalità principe dell’intero esame (è questo, credo, il cuore della certificazione delle competenze in uscita).

Penso che solo in quest’ottica l’esame di stato potrà recuperare senso e dare senso ai percorsi didattici che ad esso preparano.

Ma i ragionamenti fatti richiedono, per avere gambe, condizioni precise. In primo luogo: crederci; e subito dopo, investire (sì, investire o reinvestire quello che si risparmia), coinvolgere, formare, sperimentare.

Ma vi pare sia questa la stagione giusta?

Comunque, il discorso del ministro sulla terza prova, apprezzabile in sé, o si misura con queste questioni oppure è aria fritta o gattopardismo puro. O entrambi.