Aumenti di stipendio saranno dimezzati a partire
dal 2011 Università, il taglio degli stipendi Adriano Prosperi, la Repubblica 5.1.2010 Aumenti di stipendio saranno dimezzati a partire dal 2011 per i docenti universitari senza pubblicazioni e latitanti dalle lezioni: una misura di controllo della produttività, si dice. Sembra piuttosto un modo di lesinare sull'«argent de poche» in un' economia casalinga. Piove sul bagnato, comunque. Si pensa a ridurre i già risicati compensi dei docenti in un settore, quello della ricerca, dove l'investimento pubblico vede l'Italia come il fanalino di coda del mondo economicamente sviluppato. È proprio il modo giusto per chiudere degnamente l'anno della scienza dedicato a Galileo Galilei, un docente che non amava fare lezioni e che si vide punito d'autorità per una pubblicazione non gradita. Eppure in omaggio alla sua memoria sarebbe giusto riflettere un poco sull'orizzonte che si apre a chi vuol battere la via degli studi. Sappiamo bene che il discredito caduto sull'intera corporazione accademica è tale da garantire un consenso immediato a misure come quella indicata. Ma bisognerebbe analizzare le ragioni che hanno portato alla crisi del sistema della docenza e della ricerca universitaria prima di procedere sulla strada intrapresa: una strada che porta all'equiparazione del professore universitario a un impiegato di concetto, che riceverà la sua paga solo a fronte di un numero certo di ore in cattedra e un numero purchessia di pagine a stampa ogni anno. Su queste basi non è solo Galileo che verrebbe penalizzato. Ci sono fior di luminari che hanno avuto garantita la cattedra nelle migliori università del mondo solo in grazia della loro altissima qualità intellettuale senza controlli burocratici sull'uso del loro tempo e senza contare le pagine delle loro pubblicazioni. Verrà invece premiata la grigia palude dei docenti che hanno vinto la cattedra in uno di quei concorsi localmente prefabbricati che sono stati finora la regola del sistema e hanno prodotto regolari e rituali pubblicazioni. Quei concorsi tutti sanno che cosa sono stati, visto che le norme relative sono state elaborate dal Parlamento nazionale e dai ministri pro tempore in modo da confortare le reti del consenso garantite da poteri locali, premiando improvvisate vocazioni municipali non dissimili dai tanti carrozzoni pubblici inventati per la sistemazione di quella che ormai si deve chiamare col termine reso celebre da Gian Antonio Stella – la casta. Quanto alle pubblicazioni, si tratta di un prodotto che non è mai venuto meno nella nostra università, una mala pianta i cui frutti hanno per lo più intasato lo scantinato polveroso del ministero in viale Trastevere senza entrare mai in un autentico circuito intellettuale. Ma che cosa erano? Rubiamo la parola a Catullo, che ben conosceva la sua Roma: erano per lo più «cacata carta», frutto di stamperie foraggiate dall'immancabile contributo ministeriale. O vogliamo dimenticare che all'origine della corruzione c'era l'ignobile mercato delle pubblicazioni necessario un tempo ai medici per diventare liberi docenti e alzare di conseguenza le parcelle? Torniamo alla questione della valutazione dei docenti e delle forme che sta assumendo. Vogliamo forse dire che il docente deve essere libero di non insegnare e di non studiare? Al contrario. Ma è necessario che l'opinione pubblica sia consapevole del fatto che la strada imboccata non porta nella direzione giusta. Si parla di produttività . Ma come si misura la produttività? Il rischio è quello di pensare che i dipartimenti universitari così come i musei e i laboratori di ricerca debbano produrre non cultura ma danaro. Qui si tratta di beni immateriali la cui produttività esiste ed è importantissima ma è di altro tipo. Chi investe nella scuola e nell'Università, chi finanzia una fondazione di ricerca, un centro di studi, un progetto scientifico, non può aspettarsene un ricavo immediato. Investe nel futuro del Paese. Invece quella che sta affiorando nelle misure relative al delicato e criticissimo campo degli studi e della docenza universitaria è una mentalità pericolosamente in linea con la tradizione burocratica e centralistica che non da oggi penalizza l'originalità e la creatività intellettuale. Le sue bardature amministrative sono state gabellate come un sistema dell'autonomia mentre rappresentano in realtà l'imposizione di una pigrizia centralistica e di una sospettosità burocratica aperte alle scorribande dei poteri più diversi. Sembra abbastanza assurdo che un governo che si presenta con la parola d'ordine della liberalizzazione percorra una strada degna di un sistema di tipo sovietico dove – com'è noto – si producevano sì tanti pezzi quanti ne richiedeva il piano, ma nessuno si poneva il problema della qualità della produzione e del mercato che doveva assorbirla. Qui da noi è in gioco qualcosa di più del mercato delle patate o dell'acciaio: si tratta della qualità della ricerca scientifica e della formazione e destinazione dei giovani nel contesto di una concorrenza internazionale che già oggi fa valere le sue ragioni nelle scelte formative delle famiglie italiane. Intanto nelle università si tagliano sempre più i fondi per le biblioteche e si interrompono così i collegamenti col mondo internazionale degli studi invece di potenziarli; si vive di programmi elaborati centralisticamente e si studia su dispense e pubblicazioni contingentate col sistema dei crediti. Ma dispense e manuali «sono la peste della vita universitaria», e i piani di studio, quelli «costrutti rigidamente delle università italiane, eredità pesante dell'opera dei ministri De Vecchi e Bottai, sono ciò che di più deprimente vi possa essere non solo per lo studente , ma anche per il professore. L'università per vivere ha bisogno di un'atmosfera di libertà». Sono parole di Padre Agostino Gemelli: i suoi nipotini oggi al potere dovrebbero meditarle. A meno che essi non vogliano distruggere deliberatamente l'università pubblica per far meglio trionfare la «libera» università privata. |