La “questione insegnante”: di Giancarlo Cerini, Educazione & Scuola 1.1.2010 Crisi della scuola e crisi degli insegnanti Le ricerche italiane sulla condizione professionale dei docenti 1 registrano, anno dopo anno, una crescente situazione di disagio e demotivazione. Certamente influisce su questo “stato di crisi” latente l’insoddisfazione verso livelli retributivi considerati non appropriati per una categoria da cui si pretenderebbe un rinnovato slancio etico-professionale. Si parla spesso di mancanza di una carriera, di appiattimento retributivo, di assenza di incentivi, ma è evidente che ci troviamo di fronte ad una più generale crisi di identità, di visibilità sociale e di autorevolezza. Di fronte alla società della globalizzazione, della conoscenza pervasiva, del rischio esistenziale, sembra perdersi il “senso” della scuola, il suo essere luogo deputato alla trasmissione della conoscenza (da una generazione all’altra) e alla formazione delle persone e dei cittadini. La scuola rischia di apparire un non-luogo, un gigantesco “falansterio sociale” con il compito di contenere i ragazzi e di fare passare loro il tempo della crescita, possibilmente senza incidenti o danni. L’immagine è troppo cruda, ma ben esprime il disorientamento che avvolge la società circa i compiti della scuola, e che si riverbera sui genitori, sugli allievi, sugli insegnanti. In una società “senza insegnanti”, dove nessuno vuole più imparare, è difficile esercitare il mestiere di istruire, scrive con sarcasmo I. Diamanti in “Maledetti professori”. 2 Le funzioni della scuola sembrano spostarsi dal piano culturale (la scuola come luogo di incontro con i saperi del mondo) al piano simbolico-esistenziale (la scuola come luogo di incontro tra le persone, spazio di reciprocità e di comunicazione). Socrate ha perso la sfida con “Google”, allora ripiega sull’idea di convivialità. Più che l’acquisizione di saperi, sembra valere la cortesia nella reciproca disponibilità alla comunicazione. La priorità va allo “stare insieme”. Ma più di recente il “senso comune” della gente sembra risvegliarsi all’insegna di nuove preoccupazioni e insicurezze. Si percepisce l’aleatorietà delle regole o comunque di regole chiare (la metafora è quella della rotonda che regola il traffico velocizzandolo, ma con qualche incertezza sui diritti e doveri di ciascuno) e la nostalgia per i segnali univoci del “semaforo” (verde o rosso, sai come ti devi comportare). Di qui il ritorno in grande stile del voto in condotta, il ripristino dei voti numerici fin dalle prime classi elementari, quasi per evocare la semplicità delle regole primordiali (un 5 è un 5, basta, non c’è niente da negoziare, è una sanzione “oggettiva”).
La società “civile”, non più capace di
“dire i no”, chiede alla scuola di rafforzare la sua funzione
regolativa-normativa, attraverso i richiami ricorrenti a temi quali
la responsabilità, i comportamenti, il profilo educativo, il
progetto di vita, la persona. Il riferimento alla funzione culturale
viene visto come approccio comportamentista, in cui l’istruzione
assolverebbe ad una funzione puramente abilitativa e performativa,
quasi inutile e comunque datata. Ciò che conta sembra essere
l’acquisizione di “life skills” (abilità per la vita), in una scuola
che interagisca di più con i mondi vitali degli allievi. Gli insegnanti di fronte ai “nuovi” barbari I cambiamenti della società stanno travolgendo la fragile resistenza degli insegnanti. Alle prese con i nuovi “barbari”3 della comunicazione globale (sms, i’pod, internet, video, ecc.) gli insegnanti ripiegano su una funzione di conservazione, diventano le nuove “vestali” degli alfabeti, cercano di ingaggiare una lotta (che sanno perdente) tra cultura alfabetica, lineare, cartesiana e nuove forme del sapere reticolari, visive, simultanee. E’ difficile fare scuola oggi, in classi sempre più plurali e diverse, ove l’immaginario degli allievi segue altre piste assai lontane dalla cultura scolastica. La pluralità (dei saperi, degli allievi, degli insegnanti) è vissuta come elemento di rischio, allora si pretende un unico insegnante di riferimento (chissà, poi, perché solo alle elementari)4. C’è chi vagheggia classi (ponte) di depurazione e di filtro dell’alterità sgradevole. Gli insegnanti devono riscoprire la pluralità come condizione positiva e necessaria per “educare”, per promuovere intelligenza sociale. La classe diventa la metafora della costruzione sociale della conoscenza: “…insieme ce la possiamo fare…”, questo è il messaggio che forse salverà gli insegnanti ed il senso del loro lavoro5. Con brutta espressione si dice che la scuola forma il “capitale umano”, ma questa dotazione non basta più alla società, perché occorre incrementare la dotazione di capitale sociale, cioè la capacità di “fare comunità” (quindi di mettersi in relazione positiva) di un individuo, di una comunità, di un territorio. Un territorio “competitivo” è oggi caratterizzato da inclusione, solidarietà, partecipazione responsabile, costruzione di una qualità sociale della vita. La scuola come “spazio pubblico” è pienamente all’interno di questa nuova funzione. Non è un caso che i grandi maitre a pansè dell’educazione richiamino l’esigenza di curare la formazione di menti rispettose ed etiche, oltre che disciplinate (dai saperi), sintetiche e creative6. I fattori valoriali sembrano nuovamente prendere il sopravvento sulla funzione di trasmissione culturale.
Ma il compito della scuola è di aiutare i ragazzi ad impadronirsi degli alfabeti. Alfabeto è ancora una parola forte, che dà senso alla scuola: quali alfabeti di base proporre ai ragazzi? quale “pane e grammatica” servono per il nuovo millennio? Di quali alfabeti affettivi ci dobbiamo attrezzare? Quali i saperi di cittadinanza? Parlare di alfabetizzazione ai vari livelli significa contrastare un’idea marginale, residuale della scuola. Anche nella società della conoscenza (a maggior ragione) serve un tirocinio degli alfabeti che può avvenire in un ambiente “dedicato”, cioè in un ambiente di apprendimento, quindi in una dimensione sociale, di relazione, in un contesto facilitante, un ambiente curato. Si impara ad apprendere a scuola se questa abbandona la pretesa di consegnare saperi, abilità, capacità definitive (vedi l’insegnamento delle scienze per definizioni, piuttosto che per scoperta e ricostruzione storica). Invece della quantità, tipica dei repertori di conoscenze “inerti”, servono chiavi di lettura, reti, mappe; è necessario scendere in profondità piuttosto che in estensione 7. Se parliamo di conteso di apprendimento, cambiano l’idea di scuola e quindi di insegnante (dalla docenza “insegnativa” all’apprendistato, al tutoring, al mentoring, al coaching). Come trasformare gli oggetti di conoscenza in oggetti di apprendimento: questa è la sfida che avviene in classe, tutte le mattine, attraverso una “conversazione animata” (come direbbe Bruner). Non significa solo partire dall’esperienza diretta e immediata, ma muoversi sulla linea d’ombra tra conoscenze organizzate (dei grandi) ed esperienza quotidiana (dei ragazzi), provando a rispondere alla domanda: come possono le conoscenze che proponiamo a scuola servire ai ragazzi nei contesti di vita reale? 8 Significa provare a costruire un ambiente di apprendimento in cui si diventa competenti insieme, in un gruppo positivo, orientato ai risultati, a prodotti culturali che rendono visibili adolescenti e ragazzi. In una comunità educativa “ideale” i ragazzi dovrebbero diventare i migliori tifosi della loro classe, gli insegnanti dovrebbero pensare che i loro allievi sono i migliori al mondo. Occorre trasformare un gruppo amicale (la classe reale distante dalla classe formale) in un gruppo con un compito visibile, che si dà regole utili a raggiungere obiettivi tangibili. La classe può diventare una comunità di apprendimento, che si struttura come un gruppo cooperativo, animato da una forte leadership degli insegnanti, che assicura la tenuta del clima della classe, il lavoro collaborativo (a coppie, a piccoli gruppi), l’educazione al pensiero ipotetico-deduttivo, previsionale, immaginativo, oltre che argomentativo.
Progettare un ambiente “educativo” di apprendimento significa operare la connessione tra saperi didattici ed organizzativi. Ma significa anche riscoprire la centralità della motivazione, delle emozioni, del dare un “senso” all’esperienza della scuola (oggi il 38 % dei ragazzi vive male la scuola). Significa costruire uno scenario scolastico positivo, di fiducia, di recupero della comunicazione, di sostegno all’impegno, alla fatica. Non è una velleità pedagogica, una fuga romantica ma inutile, affidata alla sensibilità dei docenti. E’ invece riflessione sulla fragilità dei nostri allievi, figli dell’insicurezza, bisognosi di protezione, immersi nei riti del consumismo. Ragazzi spesso tristi, con nuove patologie dell’anima, colpiti da potenziale riduzione del lessico e delle emozioni. Occorre farli vivere a scuola, aiutarli ad andare oltre la loro quotidiana passività di spettatori televisivi. Una scuola “viva” fa “vivere” tutte le trame della relazione, necessarie per crescere (incontri, scontri, ferite, successi…). Puntare sulla “qualità” della relazione non significa solo prendersi cura dell’altro, anche se è bella la definizione heideggeriana della “cura” come “preoccupazione” (un’I Care come preoccupazione eticamente fondata). Cura è ascolto, accompagnamento, attenzione, tenerezza, empatia, disponibilità, ecc.; ma “cura” significa anche prendersi cura della conoscenza, dell’imparare a ragionare insieme utilizzando il contributo di tutti, stimolando capacità critiche e creative, sviluppando competenze linguistiche nel confronto dialogico, nella narrazione.
C’è ancora bisogno di insegnanti che si prendono cura dei loro allievi, di professionisti autorevoli in classe. Docenti che consolidano la propria biografia professionale entrando in un ciclo vitale di crescita culturale. La formazione iniziale è solo la premessa per “essere” insegnanti. Per diventarlo pienamente occorre percorrere una pluralità di esperienze formative e professionali (il “normale” insegnamento, la progettazione dell’offerta formativa, la ricerca didattica, le attività di aggiornamento e formazione in servizio, ecc.). Decisiva appare, però, la capacità di riorganizzare e migliorare le proprie esperienze di insegnamento attraverso un approccio cognitivo-riflessivo, che rimette in gioco le risorse cognitive ed emozionali. L’insegnante, dunque, non è un bricoleur, perché non si limita ad utilizzare repertori e tecniche senza capitalizzarle, ma riflette sulle pratiche con strumenti concettuali sempre più affinati. Quello del docente è un lavoro ad ampio spettro. Le sue dimensioni sono definite da saperi (le competenze culturali e didattiche), valori (le responsabilità educative), riflessività (la consapevolezza professionale). Al centro della professione docente c’è una responsabilità pubblica, che si esplica nell’etica del lavoro ben fatto, nell’impegno educativo verso i ragazzi, nella formazione di persone e cittadini consapevoli ed attivi. La dimensione culturale della professione docente comprende senza dubbio la padronanza dei nuclei fondamentali delle discipline oggetto di insegnamento, cioè delle conoscenze essenziali, dei quadri concettuali, della connessione di informazioni e nozioni riferibili a specifici contenuti disciplinari. Tale padronanza si estende alle conoscenze di tipo procedurale, di tipo immaginativo, di tipo rappresentativo, assai ricche sotto il profilo formativo ed indispensabili sul piano professionale. E’ giusto chiedere ai docenti una maggiore competenza culturale e disciplinare (come sembra emergere dai lavori della commissione ministeriale incaricata di studiare i nuovi percorsi formativi che portano alla docenza), se però si interpreta questo “sapere” come già proiettato verso la sua insegnabilità. E non si può liquidare la pedagogia come generico e vago “chiacchiericcio” sull’educazione. L’insegnante non si limita ad utilizzare repertori di strumentazioni utili a gestire l’insegnamento, ma ritorna sulle esperienze quotidiane in termini di riflessività. Inoltre è orientato da una spiccata sensibilità clinico-pedagogica, che gli consente, ad esempio, di “vedere” come il contesto implicito della classe condizioni la dinamica insegnamento-apprendimento e di interrogarsi sulle trasformazioni degli allievi che ha di fronte (il loro universo comunicativo, l’immaginario massmediologico, gli stili di vita) e sulle loro differenziate esigenze. Le competenze didattiche comportano la focalizzazione sulla organizzazione della classe, sull’uso del tempo, sulle forme di raggruppamento dei ragazzi, sulle dinamiche relazionali, sugli stili comunicativi. L’insegnante dovrà padroneggiare le tecniche della trasmissione culturale, della comunicazione, della relazione educativa (da come si gestiscono i materiali didattici a come si lavora sul testo del manuale, a come si migliora il clima nella classe). E’ giusto che il docente abbia un rapporto alto con la disciplina, con i saperi organizzati, mantenendo con esse un rapporto “adulto”, curando relazioni costanti con i centri di ricerca, le università, le riviste specializzate, le frequentazioni culturali. Questa partecipazione ad un ambiente culturale stimolante si impara all’Università, ma si alimenta nel corso degli anni vivendo la propria professione in termini ricchi e stimolanti.
Per costruire un tale profilo professionale sono necessarie competenze riconducibili prevalentemente a cinque aree di saperi: 1. Le competenze disciplinari, ovvero quel bagaglio culturale che ogni docente deve possedere relativamente alle materie di insegnamento. Tali conoscenze dovranno essere solide, ben strutturate, da aggiornare continuamente. Non c’è relazione o mediazione didattica che funzioni se il docente non possiede le competenze disciplinari necessarie per insegnare. 2. Le competenze epistemologico-didattico-disciplinari, che corrispondono alla capacità di utilizzare le competenze disciplinari per fini educativi: saper padroneggiare il proprio sapere a seconda dell’età dei ragazzi, degli obiettivi stabiliti, dei ritmi di apprendimento di bambini e ragazzi, dei loro interessi. 3. Le competenze psico-pedagogiche, necessarie per entrare in rapporto con gli allievi, per realizzare una positiva comunicazione didattica, una proficua relazione educativa; per riconoscere i problemi tipici delle varie fasi di età, le dinamiche e i conflitti che nascono all’interno della classe, tra gli alunni o tra alunno e insegnante; per riconoscere i problemi e saperli gestire. 4. Le competenze organizzative, fondamentali per costruire il proprio percorso di lavoro con i colleghi del Consiglio di classe, di un Dipartimento disciplinare, di un gruppo di programmazione, con i propri alunni, con l’extrascuola. È decisiva, infatti, per una maggiore efficacia educativa la capacità di lavorare insieme ai propri colleghi. 5. Le competenze di ricerca e sperimentazione 9, indispensabili a ridisegnare il profilo professionale del docente della scuola dell’autonomia e a individuare i percorsi didattici più efficaci, le metodologie e le strategie più utili, anche ai fini del sostegno e del recupero. Saper insegnare presuppone, quindi, un profilo complesso che non si improvvisa, né si costruisce in astratto: è il risultato di un faticoso cammino che incomincia all’università, ma viene perfezionato in situazione, nelle relazione quotidiana con i propri alunni, in un confronto e in una ricerca continui con i propri colleghi. 10
Alla luce di questo impegnativa figura di docente si possono sottolineare alcuni criteri di massima per prospettare un percorso universitario coerente con le nuove esigenze: - una sostanziale pari durata della formazione per le diverse tipologie di insegnamento, pur nel diverso equilibrio dei “crediti” in relazione alle varie fasce di età e alle diverse classi di concorso; - una durata consistente del curriculum di studi, che non riduca la formazione ad un breve percorso “professionalizzante” (con il rischio della marginalità), però con un occhio rivolto alle soluzioni praticate in Europa; - un biennio di specializzazione che raffini le competenze culturali e la padronanza sui saperi, in una ottica epistemologico-didattico-disciplinare; - un substrato comune di competenze psico-pedagogiche. Se è opportuno potenziare la competenza culturale e disciplinare dei futuri docenti, occorre però focalizzare la competenza in chiave di didattica disciplinare, cioè nella capacità di insegnare le discipline ai vari livelli di età. Questo significa dare rilievo ai laboratori didattici, con l’apporto di docenti preparati ed autorevoli provenienti dalla scuola, così pure alle esperienze di tirocinio. Anche all’incarico di supervisore di tirocinio si dovrebbe accedere per concorso, con semi-esonero dal servizio. In generale, i modelli di formazione dei docenti dovrebbero vedere una collaborazione di pari dignità tra l’Università (con i suoi saperi scientifici e pedagogici) ed il sistema scolastico (con la sua centratura sulla relazione educativa e sulla mediazione didattica). Vanno evitati i rischi di autoreferenzialità che si annidano in entrambi i mondi attraverso un dialogo aperto ed una comune responsabilità nella fase di progettazione dei percorsi. A tal fine dovrebbero essere individuate delle strutture dedicate al coordinamento, monitoraggio, verifica del tirocinio degli specializzandi.
Il nucleo essenziale della professione docente è focalizzato sulla dimensione insegnamento/apprendimento e quindi finalizzato all’efficacia dell’apprendimento degli allievi. Ma, proprio in questo intreccio sta la difficoltà a prefigurare uno sviluppo professionale che non sia semplicemente la registrazione del “curriculum vitae”, ma che provi a far affiorare qualità dell’insegnamento difficilmente osservabili, come ci ricordano gli studi dell’Ocse. Tab. 1 - Gli insegnanti efficaci: una check-list dell’OCSE - accuratezza nella preparazione delle lezioni; - selezione appropriata dei materiali; - definizione chiara di obiettivi agli studenti; - mantenimento della disciplina in classe; - costante verifica del lavoro degli studenti; - ripetizione della lezione in caso di difficoltà; - buon uso del tempo; - fiducia nelle capacità di apprendimento degli studenti; - convinzione nella propria responsabilità nell’apprendimento degli studenti; - condivisione degli scopi dell’istruzione con i colleghi; - essere d’accordo sul fatto che lo scopo della scuola sia promuovere l’apprendimento degli studenti; - forte impegno nel successo accademico degli studenti; - strette relazioni collegiali; - flessibilità, creatività, adattamento delle proprie capacità di insegnamento ai bisogni degli studenti; - uso di diverse strategie di insegnamento; - uso di diversi stili di interazione, - chiarezza espositiva ed argomentativi; - comportamento orientato all’impegno; - uso dei suggerimenti e delle idee degli studenti. Fonte: Documento MIUR-ARAN-Organizzazioni sindacali, 18-12-2003. In alcune situazioni sperimentali si sta diffondendo l’utilizzo di una sorta di portfolio per il docente Un simile strumento dovrebbe aiutare i docenti a documentare i passaggi salienti del cambiamento professionale (“la traiettoria della ricaduta professionale dei cambiamenti”). Andrebbe quindi impostato all’inizio del percorso di carriera11, non essere utilizzato per discriminare – ad un certo punto della vita professionale – tra insegnanti più o meno capaci, più o meno motivati. In un ideale curriculum del docente dovrebbero essere “pesate” le competenze “disciplinari” 12, da cui si articolano ulteriori sfaccettature del profilo del docente (metodologiche, relazionali, comunicative, pedagogiche, organizzative, di ricerca). Piuttosto che gli incarichi aggiuntivi, torna la centralità dell’aula, con tutta la problematicità della sua “opacità”. Non basta saper mostrare all’esterno (attraverso report, dossier, portfolio): le ostentazioni ripetute non hanno quasi mai un’effettiva rispondenza nei comportamenti didattici quotidiani. L’elaborazione di un portfolio, soprattutto per l’esigenza di una preventiva messa a punto di un profilo “virtuoso” del docente, può rappresentare uno stimolo a riconsiderare in modo amichevole i temi della professionalità docente, della sua valutabilità, delle possibili conseguenze di un curriculum professionale differenziato. Il portfolio, comunque, in questa fase dovrebbe limitarsi ad essere uno strumento a sostegno dello sviluppo professionale (…cosa so fare, quali sono le mie risorse, come rilevo i miei punti deboli, come posso costruirmi un piano formativo personale…), piuttosto che essere interpretato come uno strumento di valutazione esterna del lavoro di un docente 13.
Le diagnosi sul rischio di marginalità del lavoro degli insegnanti sono ormai ampiamente condivise, ma le terapie mostrano ancora notevoli divergenze: - chi propone di affidare alle autonomie regionali la gestione del personale scolastico, interpretando in maniera estensiva le previsioni del nuovo Titolo V della Costituzione, che affida allo Stato le sole “norme generali” sull’istruzione e delega alle Regioni la normativa di dettaglio, che comprende anche la gestione e organizzazione scolastica14, convinto che le dinamiche “locali” imprimerebbero forti sollecitazioni (anche contrattuali e retributive) al settore; - chi, invece, scommette maggiormente su una totale autonomia delle istituzioni scolastiche anche in materia di scelta, reclutamento e gestione del personale, per la possibilità di riconoscere ed apprezzare, anche in maniera differenziata, meriti professionali rilevati direttamente sul campo 15; - chi, poi, reclama un più diretto ed autonomo intervento della componente professionale nella definizione degli standard, nei processi di preparazione e selezione alla professione, attraverso strumenti come l’albo professionale, il codice deontologico, lo “stato giuridico”, strumenti che sarebbero in grado di far uscire la condizione professionale dall’area delle concertazioni sindacali del pubblico impiego, rassicurante ma condizionata dalle compatibilità dei conti pubblici 16. La decisione non è certamente semplice 17: ognuna delle ipotesi precedenti offre infatti affascinanti squarci di novità in un panorama oggi stagnante, ma anche grandi incognite sugli effetti concreti delle diverse proposte, per i rischi di “localismo”, frammentazione, privatizzazione del profilo docente, che dovrebbe invece garantire la tenuta unitaria e nazionale del progetto culturale della scuola pubblica. Anche l’esito negativo –nella primavera del 2000 - della vicenda del “concorsone”, cioè dell’attribuzione di un beneficio economico (consistente) al 20% dei docenti mediante una procedura concorsuale (con un mix di test di conoscenza, valutazione del curriculum e valutazione/osservazione del lavoro in classe), deve far riflettere sulla necessità di avvicinarsi al tema della carriera docente o, meglio, del possibile riconoscimento (anche differenziato) dei meriti professionali, con estrema cautela e con il necessario consenso degli insegnanti. 18
L’esigenza di procedere con delicatezza e con la ricerca di consenso non può però rappresentare un alibi per giustificare l’inazione. Occorre ripartire da alcuni punti che sembrano ormai largamente condivisi e che si potrebbero articolare in una vera e propria road-map, cioè in uno schema di lavoro dove le decisioni politiche dovrebbero produrre effetti visibili anche nel breve periodo e quindi appetibili dai tanti soggetti in gioco.
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1 L’istituto di ricerca che più si è dedicato a studiare la condizione professionale dei docenti italiani è lo IARD, che in maniera ricorrente promuove indagini su ampi campioni di insegnanti: cfr. A.Cavalli (a cura di), Gli insegnanti nella scuola che cambia, Il Mulino, Bologna, 2000. Più di taglio politico sono gli interventi dell’associazione Treellle, che ha promosso seminari e pubblicazioni sul tema documenti: cfr. Treellle, Oltre il precariato. Valorizzare la professione degli insegnanti per una scuola di qualità, Quaderno 6, dicembre 2006. La Fondazione Agnelli esplora la condizione degli insegnanti a partire da un’indagine sui docenti neo-assunti nell’a.s. 2007/08 in tre regioni italiane: Piemonte, Emilia-Romagna, Puglie riportata in sintesi in: Fondazione Giovanni Agnelli, Rapporto sulla scuola in Italia 2009, Laterza, Bari, 2009. Un report più ampio della ricerca, curato da L.Gianferrari, è contenuto nel volume G.Cerini, L.Gianferrari, G.Grossi (a cura di), Essere docenti. Manuale per insegnanti neoassunti 2009, USR ER, Tecnodid, Napoli, 2009. 2 I.Diamanti, Maledetti professori, in “La Repubblica”, 28 giugno 2008. 3 Cfr. A.Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2006. 4 G.Cerini, Maestre d’Italia… in “Insegnare”, n. 4, Cidi, Roma, 2008. 5 D.Zoletto, Straniero in classe. Una pedagogia dell’ospitalità, Raffaello Cortina, Milano, 2007. 6 H.Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli, Milano, 2007. 7 M.Castoldi, Valutare le competenze. Percorsi e strumenti, Carocci, Roma, 2009. 8 Cfr. A.Frigerio, Curricolo e scuola, in Voci della Scuola, VII, Tecnodid, Napoli, 2008. 9 L’art. 6 del Regolamento dell’autonomia, il Dpr 275/99, caratterizza le scuole come centri di ricerca in materia di innovazione metodologica, disciplinare e didattica, e come sedi di progettazione educativa. Alle scuole viene quindi riconosciuto un ruolo centrale, strategico e autonomo nelle decisioni e nelle scelte culturali, didattiche, organizzative e gestionali. 10 La descrizione del profilo professionale è desunto da un documento di lavoro (15 gennaio 2008) del Cidi nazionale presentato in occasione di seminari di studio e poi rilanciato nelle audizioni con i rappresentanti del Parlamento: “Cidi, La formazione iniziale dei docenti. Considerazioni del mondo della scuola”. Una documentazione esauriente sulle diverse posizioni assunte in materia di formazione degli insegnanti è rintracciabile nel sito: www.cidi.it . 11 Nelle azioni di formazione per i docenti neo-assunti la costruzione di un dossier professionale può rappresentare una opportunità di messa a fuoco delle caratteristiche di una moderna e dinamica professione docente. Un esempio di portfolio per i docenti in anno di prova è presentato da L.Rondanini, Anno di prova: dalla relazione finale al portfolio dell’insegnante in G.Cerini-L.Gianferrari-G.Grossi, Essere docenti, cit. 12 “Gli studi rilevano l’incidenza di una formazione iniziale in cui la didattica della disciplina abbia un peso rilevante rispetto agli insegnamenti puramente specialistici: i docenti che hanno avuto questo tipo di formazione hanno studenti che raggiungono risultati migliori” (Documento Aran, 18-12-2003, cit.). 13 Una delle poche ricerche italiane in materia di portfolio per i docenti è stata realizzata dall’USR Emilia-Romagna in collaborazione con l’IRRE e con le associazioni professionali regionali. I primi esiti sono documentati nel volume USR ER, Il portfolio degli insegnanti. Per documentare il curriculum professionale dei docenti, Tecondid, Napoli, 2005. 14 Nel “Master Plan” e nei documenti elaborati dalla Conferenza delle Regioni (in previsione del passaggio alle Regioni delle competenze in materia di istruzione –a far tempo dal 1-9-2009- ) si assicura circa il profilo nazionale dello stato giuridico del personale, ma si scommette su una capacità negoziale regionale nel definire migliori condizioni professionali ai docenti. Il modello prefigurato ricalca quello dei contratti regionali/provinciali integrativi sperimentato in alcune realtà fortemente autonome (es.: Trento). La sentenza della Corte Costituzionale n. 13 del 13 gennaio 2004, su ricorso intentato dalla Regione Emilia-Romagna, boccia l’affidamento della gestione degli organici del personale insegnante al Ministero dell’Istruzione (per il tramite degli Uffici Scolastici Regionali) e quindi sembra dare man forte a questa posizione. 15 Questa sembra essere l’ipotesi preferita nel già citato Quaderno bianco (2007) sulla scia delle molteplici ricerche e comparazioni internazionali rilanciate nel nostro paese dall’associazione TREELLE. Si vedano i quaderni n. 5 “Per una scuola autonoma e responsabile. Analisi confronti e proposte” del giugno 2006 ed il quaderno n. 6 “Oltre il precariato. Valorizzare la professione degli insegnanti per una scuola di qualità” già citato. Un’ipotesi di sviluppo professionale è contenuta nel progetto di legge depositato dall’on. Aprea presso la Camera dei Deputati (atto n. 953 del 12 maggio 2008). 16 A.Cenerini, Insegnanti senza merito? In “Rivista dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile 2009, Maggioli, 17 La legge finanziaria per il 2008 (art. 2 comma 416 della legge 24 dicembre 2007, n. 244) sembra azzerare il dibattito fin qui condizionato dalla necessità di stabilizzare ampie fasce di personale precario e propone di affidare ad un regolamento del Ministro della pubblica istruzione “la disciplina dei requisiti e delle modalità della formazione iniziale e dell’attività procedurale per il reclutamento del personale docente, attraverso concorsi ordinari, con cadenza biennale…”. La stessa legge finanziaria propone un modello sperimentale (art. 2, commi 417-425) per l’organizzazione integrata dei servizi educativi nel territorio, ivi compresa la gestione degli organici, da effettuare d’intesa con il sistema degli enti locali, per raggiungere obiettivi di miglioramento della qualità del servizio e di efficienza della spesa. 18 Questa è la posizione di Luisa Ribolzi, da sempre fautrice dell’introduzione di elementi di valutazione del merito nella carriera degli insegnanti: L. Ribolzi, Valutare i docenti: da dove cominciare?, in “Rivista dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile 2009, Maggioli. |