SCUOLA
Il dibattito su conoscenze e competenze? Daniela Notarbartolo, il Sussidiario 11.1.2010 La giusta considerazione delle “sfide” poste oggi alla scuola ci impone di saper rendere conto del valore della tradizione. Non è più sufficiente proclamare il peso innegabile della nostra tradizione culturale, ma è necessario recuperarne a fondo il significato. Siamo incoraggiati da una tendenza al recupero del valore delle cose, dopo un periodo in cui oggettivamente è stata necessaria una certa dose di coraggio per non cedere alla scomparsa delle tabelline o dell’analisi logica. Recentemente ad un incontro di insegnanti è stato chiesto, prendendo in contropiede la platea: ma cosa intendete per conoscenza ? Che cosa vuol dire conoscere veramente? Non si può parlare delle materie scolastiche come fossero repertori di notizie, di informazioni che troveremmo facilmente in internet. L’errore è pensare che il “sapere” sia il frutto dell’accumulazione di scoperte e teorie custodite dagli accademici. Si tratta di una riduzione disciplinare–enciclopedica, che separa l’oggetto del sapere dalle domande sulla realtà che lo hanno generato, tanto che la conoscenza può essere intesa come “una serie di contenuti”, l’indice del libro: prima Monti, poi Foscolo, poi Manzoni, poi Leopardi. Una lettura cognitivistico–psicologica del sapere riduce a sua volta il soggetto che conosce separandolo dai suoi interessi reali: una concezione neutrale e individualistica dello studio, il cui culmine è una metacognizione intesa come “autocoscienza” che ha come oggetto l’apprendente, e stacca il sapere dai suoi scopi e dalla sua dimensione sociale. Da qui l’idea che il sapere possa essere “disinteressato”, concetto che è servito soprattutto a distinguere ideologicamente il sapere “umanistico” dai saperi cosiddetti “funzionali”. L’esito è che le materie scolastiche sono state ridotte a meri “contenitori di contenuti”. L’indice del libro di testo ricalca l’ordine “accademico” (per esempio l’impropria separazione di fonologia, ortografia, morfologia, sintassi) a volte rendendo impossibile capire a quale domanda sintetica risponde quella materia: dopo cinque anni di superiori uno studente spesso lo ignora. Le materie diventano “discorsi” sulle cose, e infatti consistono in una molteplicità di libri (il manuale di italiano, di fisica, di diritto), a prescindere dal metodo specifico di quella materia; prevedono teorie tendenzialmente astratte da “applicare” in pratica, come se le teorie non servissero a maneggiare gli oggetti in modo appropriato alla loro natura. Per questo nella querelle conoscenze-competenze si parte già con il piede sbagliato. La ragione per cui è così difficile parlare di competenze in modo ragionevole, è che il concetto di conoscenza è già ridotto. Il problema è mal posto perché non è chiaro in che cosa consista l’utilità umana della conoscenza. Da qui un sapere opaco che non è paradigma per rispondere a domande sulla realtà che interessano un soggetto. Una deriva di questo genere produce provvidenzialmente, se possiamo dire, il rigurgito: basta nozionismo! Buttiamoci sulle competenze, il saper fare, il compito autentico, il caso di realtà, fino all’orario dei treni, il foglietto illustrativo, il volantino appeso in bacheca - a morte l’Accademia. Come ha spiegato il professor Eddo Rigotti, è in questione una vera incomprensione di cosa sia la cultura: essa è stata considerata una sovrastruttura rispetto ad una natura umana che in definitiva non ne avrebbe bisogno. Non è così. L’uomo è un “inferiore biologico”, per il quale la cultura è mezzo indispensabile di sopravvivenza: e questo a partire dall’arco e le frecce fino al modello matematico. Senza di essa il piccolo non potrebbe sopravvivere. Le “conoscenze” nascono sempre da una domanda di un soggetto di fronte a una realtà che lo provoca, in cui il soggetto porta un interesse, un bisogno, da cui a sua volta è vincolato. Si tratta di punti di partenza positivi: la realtà e il soggetto, senza dei quali non c’è materia scolastica che possa interessare un ragazzo, essere appresa stabilmente, e tradursi in una crescita, cioè in padronanza (competenza). Conoscere è sempre un avvenimento di novità che fa crescere in un certo modo l’umanità di chi conosce; anche il percorso scolastico, attraverso certi passi e certi incontri (con autori, problemi, argomentazioni, pratiche) si giustifica se produce un incremento di umanità. Correttamente le ultime definizioni di provenienza europea, dopo lunga gestazione, parlano di competenza come “padronanza” in un determinato settore di realtà, attraverso procedure e mezzi adeguati a rispondere in modo autonomo e responsabile a certi fini, e di capacità in termini di know how di fronte a compiti. Le conoscenze sono il risultato di un processo di assimilazione, non “contenuti”. Esse non possono essere distinte dal resto, se si configurano come curricolo, serie ordinata di gradini, sequenza in ordine progressivo, per il raggiungimento della padronanza. Per fare un esempio, dopo cinque anni che traduce dal latino un liceale deve aver raggiunto una competenza di ragionamento induttivo e inferenziale indispensabile in vari campi. Detto al contrario, uno studente di liceo raggiunge una competenza di ragionamento inferenziale attraverso, tra l’altro, la costante abitudine all’impegno interpretativo dei testi. Cioè tradurre non serve solo a sapere “che significa”. Ecco che il frangente in cui attualmente ci troviamo, per la pressione di concetti come “competenze chiave” e “certificazione”, ci obbliga a chiederci l’esito della conoscenza scolastica, e a ripensarla come strada necessaria ai giovani per arrivare alla padronanza e all’autonomia dell’età adulta. Il percorso deve produrre questo effetto, ed è sugli effetti della conoscenza, non solo sui contenuti e sui mezzi, che dobbiamo interrogarci. La materia scolastica, come ricordava ancora il prof. Rigotti, implica una “disciplina”, nel senso di un disciplinarsi attraverso una categorialità che è diverso dall’approccio non educato. Abbiamo discettato per anni di canone e di nuclei fondanti, ma forse non abbiamo dedicato altrettanto interesse proprio alla categorialità introdotta dalle diverse materie scolastiche. Individuare e nominare gli oggetti specifici richiede già una educazione; trattarli secondo una domanda specifica vuol dire sottoporli a un “modo di essere” particolare, che è legato allo scopo, al significato di quel sapere. La “padronanza” ci obbliga poi a chiederci: chi è padrone della materia, che cosa ha acquisito non solo al livello minimo (al quale cercare di ancorare i dispersi) ma a quello alto? E come ha fatto lo studente ad acquisirlo? attraverso quali passaggi, o compiti parziali ? Dobbiamo ricondurre la querelle al suo orizzonte umano: la conoscenza riguarda qualcosa che vale la pena conoscere, anzi è indispensabile a certi fini, la capacità c’entra con il compito e mette in movimento la persona di fronte a una realtà precisa, la competenza riconduce allo scopo, per il quale ci si impegna con la realtà. Tutto questo implica non meccaniche traduzioni in tabelle pluricolonna di contenuti in utopici verbi all’infinito (“è in grado di…”), bensì la relazione libera tra il soggetto e la realtà nel suo insieme, in cui, come ci ha insegnato don Luigi Giussani, ha luogo l’educazione.
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