UNIVERSITA'

Eurispes, la laurea non è più
garanzia di un impiego stabile

 La Stampa 29.1.2010

ROMA
La laurea, oltre ad essere un miraggio per molti, non è più garanzia di impiego stabile o adeguatamente retribuito ed ha, invece, conseguenze negative sull’occupazione. È quanto emerge dal “Rapporto Italia 2010” dell’Eurispes che rileva come nel nostro Paese solo il 16% degli occupati in età compresa tra i 25 e i 34 anni è laureato (a fronte della media Ocse del 32%) e per la popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni il rischio di rimanere disoccupati, aumenta al crescere del titolo di studio, tendenza che trova espressione anche nella bassa percentuale di laureati rispetto alla popolazione adulta (circa il 15% rispetto alla media europea del 22,3%).

La popolazione compresa tra i 24 e i 30 anni, oltre a riscontrare maggiori difficoltà nel trovare un impiego a tempo indeterminato (alla fine del 2007 su 381.127 contratti a progetto registrati, 201.901 coinvolgono giovani tra i 15 e i 34 anni), subisce anche l’ampliarsi del gap retributivo con i lavoratori più adulti . I lavoratori precari, inoltre, subiscono un divario retributivo generazionale ancora più ampio (i collaboratori over 60 guadagnano in media sei volte in più degli under 25), il che è dovuto dalla relazione inversa tra età e reddito.

Per quanto riguarda le condizioni lavorative dei laureati. A tre anni dal conseguimento del titolo il 73,2% dei laureati in corsi lunghi e brevi è impiegato, mentre, rispettivamente, il 14,2% e il 12,1% risulta in cerca di un’occupazione (Istat). I laureati triennali sono in misura minore disoccupati in quanto è maggiore la quota di chi decide di continuare gli studi affrontando il biennio specialistico. La percentuale di occupati che svolgono un lavoro continuativo iniziato dopo il conseguimento del titolo (sia triennale che quinquennale) è solo di circa il 50%. Circa la metà dei laureati, dunque, a tre anni dal conseguimento del titolo, risulta occupata in modo saltuario o impegnata in un impiego precedente alla laurea.

L’analisi della condizione contrattuale di chi svolge lavoro continuativo a tre anni dal conseguimento del titolo di studio evidenzia che circa il 40% dei laureati ha un contratto a tempo indeterminato, mentre più del 30% lo ha a tempo determinato o a progetto, soprattutto per chi ha una laurea di primo livello (rispettivamente il 27,6% e il 13,5% a fronte del 21,8% e del 12% di chi ha concluso un corso lungo).

In sostanza, a tre anni dal conseguimento del titolo di studio un occupato su tre svolge un lavoro dipendente a tempo, una percentuale di gran lunga superiore se si prende in esame solo la relativa quota di laureati in un corso lungo, giunti quindi alla più alta esperienza formativa (escludendo il dottorato di ricerca), in ambito letterario (56,1%), linguistico (48%) e politico-sociale (44,4%). La laurea, dunque, non è sinonimo di stabilità lavorativa e non è sempre necessaria per trovare un’occupazione. La coerenza tra titolo di studio e lavoro svolto è dichiarata solo dal 58,1% dei laureati in corsi lunghi e dal 56,1% di chi ha acquisito un titolo triennale e a tre anni dalla fine degli studi svolge un lavoro continuativo, a fronte, rispettivamente, del 20% e del 21,4% che svolge un impiego per cui il titolo conseguito non è né richiesto né necessario.

La sovraqualificazione rispetto all’impiego che riguarda circa il 20% dei laureati a tre anni dal conseguimento del titolo è un fenomeno in continua crescita che provoca sia mobilità sociale discendente sia immobilità sociale. Se, infatti, tra i laureati c’è una sovrarappresentazione dei figli di genitori laureati e tra questi, una percentuale cospicua svolge un’occupazione che non richiede il titolo di studio acquisito, si può supporre che tra i giovani ci sia una quota non irrisoria che, nonostante il livello di istruzione raggiunto, ha una condizione sociale inferiore rispetto a quella dei propri genitori. Il fenomeno della sovraqualificazione, inoltre, vanifica gli sforzi compiuti per tentare un’ascesa sociale: acquisire la laurea provenendo da una famiglia con un livello di istruzione inferiore, infatti, non è condizione sufficiente a raggiungere condizioni di vita migliori sia in termini retributivi sia in termini di status.