SCUOLA E IMMIGRATI di Miguel Gotor, Il Sole 24 Ore 14.1.2010 Nei giorni scorsi il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini ha proposto di fissare un tetto del 30% per gli alunni stranieri nelle prime classi elementari, medie e superiori. L'idea non sembra solo ispirata a principi di buon senso, ma è anche condivisibile per ragioni di carattere culturale, civile e politico. Anzitutto, non appare opportuno creare delle concentrazioni di studenti stranieri in determinate classi e scuole che tendono a configurarsi - come è stato detto - in ghetti di fatto, ossia a diventare il prolungamento scolastico di agglomerati urbani ad alta densità di immigrazione. Di conseguenza, è bene che lo studente straniero sia adeguatamente distribuito fra le classi di una scuola e fra le scuole di un quartiere e fra i quartieri di una città in base a normali principi di equità e di uguaglianza delle opportunità. In secondo luogo, la scuola pubblica, soprattutto quella dell'obbligo, è oggi in Italia una delle poche esperienze davvero miste sul piano sociale, etnico, religioso e culturale, forse il principale luogo e strumento di integrazione, la prima palestra democratica della nuova cittadinanza di domani. Il compito precipuo di una scuola pubblica è quello di evitare l'esasperazione di derive identitarie basate su presupposti di carattere esclusivamente economico, etnico o confessionale che tendono ad accrescere il grado di separatezza, di contrapposizione e di conflittualità dentro una comunità, i cui costi sociali, politici e culturali sono poi pagati nel medio-lungo periodo da tutte le sue componenti. Al contrario le classi e le scuole con percentuali maggioritarie di stranieri sono la negazione vivente di questo modello scolastico costituzionale e repubblicano perché di fatto danno vita a luoghi sempre più divisivi, inevitabilmente portati alla purezza etnica, culturale e religiosa con il conseguente corollario di paura, diffidenza e aggressività reciproche che alimentano.
Inoltre, questo provvedimento, se ben applicato e coordinato con la
dovuta flessibilità dalle autorità competenti, potrebbe contribuire
a evitare il consolidarsi, anche in ambito pubblico, di classi e
scuole di serie A e di serie B: le prime che evitano come la peste
la sfida e le opportunità dell'integrazione, le seconde che sono
obbligate dalle circostanze ad assumersene l'intero carico, spesso
in realtà già economicamente disagiate. Naturalmente questa riflessione è significativa nella misura in cui si inserisce dentro un percorso di integrazione legato alla elaborazione di un nuovo concetto di cittadinanza. A questo proposito, è importante che il ministro abbia precisato che dalla percentuale sono esclusi gli studenti stranieri nati in Italia. Se ciò non avvenisse - e bisognerà vigilare che quanto affermato sia ribadito nel decreto - allora sì che ci troveremmo al cospetto di un provvedimento censurabile. Sarebbe infatti impensabile pretendere di spostare per decreto da una scuola all'altra chi è nato in Italia da genitori stranieri, quanti formano la cosiddetta "generazione Balotelli", che hanno imparato la lingua italiana sin dalla scuola materna e spesso preferiscono esprimersi nel dialetto della regione in cui abitano da sempre; discriminarli in base al colore della loro pelle, l'esotismo del cognome o il luogo di nascita dei genitori, che da dieci-quindici anni vivono e lavorano nel nostro paese e pagano regolarmente le tasse. Per queste ragioni, una cultura riformista sensibile alle esigenze dei più deboli dovrebbe avere l'accortezza di riconoscere che l'idea della Gelmini è un buon punto di partenza e dovrebbe farla propria senza tirare fuori argomenti demagogici o pretestuosi come non ha perso l'occasione di fare Antonio Di Pietro, il quale ha parlato di razzismo e di proposta pericolosa che evocherebbe «atroci barbarie» del passato. Anche perché il provvedimento della Gelmini, a ben guardare, è esattamente il contrario del vecchio progetto della Lega di istituire le cosiddette "classi ponte", ossia classi separate che implicavano il recupero sul piano istituzionale di un vecchio arnese reazionario e razzista, quello delle cosiddette classi differenziate, ieri per i figli di Calabria o del Veneto oggi per quelli del Marocco o delle Filippine. Non cogliere questa contraddizione nell'avversario costituisce un grave errore di valutazione politica perché contribuisce a compattarlo mediaticamente anche quando sostiene il contrario di quanto affermato in precedenza. Il governo dell'immigrazione è una sfida complessa che implica la consapevolezza che nessuna accoglienza può avvenire senza regole e senza l'investimento di adeguate risorse economiche e culturali e nessuna autentica integrazione può realizzarsi senza il chiaro e contemporaneo riconoscimento di un quadro preciso e codificato di diritti e di doveri. Questa è la sfida che abbiamo davanti, contro gli argomenti propagandistici di certa destra («immigrati uguali criminali») e di certa sinistra («immigrati uguali Eldorado»). Da qui dovrebbe partire una politica forte per elaborare un'idea di cittadinanza inclusiva che consenta di guardare all'Italia di domani con maggiore ottimismo e a quella di oggi con minori ipocrisie. |