Riflessioni d'obbligo

di Marina Boscaino, Pavone Risorse 3.1.2010

Ci sono parole della nostra lingua che hanno perso definitivamente qualsiasi senso e rappresentano di per sé un lasciapassare, un viatico per garantire le buone intenzioni di chi le usa. Salvo poi smentire quelle intenzioni con i fatti. Una di queste parole è “obbligo scolastico”. Si tratta di una formula infinitamente preziosa, in nome della quale si sono fatte in tempi ormai remoti battaglie culturali e politiche. Una formula che i Costituenti e la Politica (con la P maiuscola, da qualsiasi parte dello schieramento parlamentare si collocasse) hanno tenuto a riempire di un valore etico, civile, emancipante; alla quale hanno affidato una funzione di crescita e progresso per la nostra società, che ha ulteriormente valorizzato il ruolo della scuola nell’evoluzione storica, sociale, antropologica e culturale del nostro Paese.

Altrove, in questa rubrica, mi sono soffermata su quanto questo concetto fosse stato mortificato – governo dopo governo, compromesso dopo compromesso, in una devoluzione bipartisan – negli ultimi anni. Quanto l’ambiguità tra obbligo scolastico e obbligo di istruzione abbia scardinato il senso stesso di quella parola, consentendo di assolvere l’obbligo anche tramite le agenzie formative e non solo nella scuola. Ho varie volte ribadito come il fatto di dire obbligo scolastico non basti ad inverare condizioni e realizzabilità dell’obiettivo. E che sarebbe stato necessario – prima di propagandare la formula come un programma, un assunto, una conquista – mettersi a lavorare seriamente su un progetto pedagogico e culturale alternativo, per rendere la scuola realmente in grado di raccogliere la responsabilità di ciò che quelle parole vogliono dire.

Oggi – con i regolamenti sulle scuole superiori che stanno per essere definitivamente approvati – siamo di fronte alla celebrazione più sfrontata della contraddizione in termini: si afferma una cosa, si fa esattamente l’opposto. Senza pudicizia, senza quel minimo di imbarazzo che una manipolazione così sfrontata di concetti grandi dovrebbe consigliare. I regolamenti delle scuole superiori pongono la pietra tombale sul concetto di biennio unitario, che aveva concentrato energie, studio, buona volontà di chi in questi anni abbia considerato la battaglia per l’innalzamento dell’obbligo scolastico come un elemento imprescindibile per favorire la crescita del Paese. Biennio unitario significa biennio analogo per tutti i segmenti dell’istruzione superiore (dal liceo classico all’istituto professionale), con una parte del monte ore uguale e una parte destinato agli studi vocazionali. Il senso sarebbe stato quello di creare un’istruzione forte e omogenea per tutti gli studenti di qualsiasi biennio della scuola superiore, obbligatorio anche per coloro che avessero deciso poi di non proseguire gli studi.

I regolamenti Gelmini distruggono quest’idea, perché configurano bienni talmente disomogenei da rendere completamente impossibile il passaggio da un indirizzo all’altro. La richiesta da parte della VII Commissione della Camera – quella presieduta da Valentina Aprea, il cui giudizio ovviamente positivo, dopo la ripresa dei lavori parlamentari, darà definitivamente il via alla “riforma Gelmini” – di rafforzare ulteriormente l’obbligo di istruzione e l’acquisizione di saperi e competenze di indirizzo in funzione orientativa, anche per favorire la reversibilità delle scelte degli studenti, appare quasi grottesca. Tanto più che un fantasioso elemento – forse uno dei più politicamente significativi di tutti i regolamenti, profondamente rivelatore di un'idea dell'istruzione classista e asfittica - si evidenzia nella sezione dedicata ai "profili" culturali. I profili del liceo hanno l’obiettivo di “fornire ai giovani gli strumenti culturali e metodologici per una comprensione approfondita della realtà”; mentre quelli dell'istruzione non liceale sono descritti e organizzati riferendosi a “risultati di apprendimento declinati in competenze spendibili”. Lapsus freudiano – ma non si sa quanto inconscio – che rivela la fiducia e la determinazione che il ministero ha nell’investire sul biennio unitario: quelli del liceo a sapere, a diventare colti; gli altri a saper fare. Il resto sono parole. Buone per ogni tempo, evocatrici di visioni e intenzioni della politica scolastica che ormai sono lontane anni luce da noi.

Sì. Perché grazie a un emendamento della Finanziaria si ammette la possibilità di assolvere l’obbligo scolastico non solo – oltre che a scuola – nella formazione professionale; ma anche nei percorsi di apprendistato. Un passo indietro nel tempo, nello spazio e nella civiltà. A pagare – è inutile dirlo – saranno sempre loro, i più deboli. Ma a pagare sarà anche un Paese incapace di indignarsi per mistificazioni, bugie, manipolazioni, malafede di chi ha definitivamente dissipato un progetto di democrazia e di emancipazione.