Scuola

Dopo Rosarno la circolare Gelmini

di Massimiliano Fiorucci* da l'Unità, 10.1.2010

Subito dopo i tragici fatti di Rosarno e subito prima delle elezioni regionali la Ministra Gelmini ha emanato una circolare sul tetto del 30% degli allievi stranieri nelle classi. Gran parte di quanto previsto dalla circolare era già contenuto in circolari precedenti. Si tratta di una questione seria, che riguarda prevalentemente l’Italia del Nord e che non può essere affrontata, come fa la Gelmini, con gli strumenti della demagogia, della retorica ai fini dell’ottenimento del consenso elettorale.

Una prima questione: chi sono gli allievi stranieri Nei giorni scorsi quasi tutti i quotidiani hanno riportato i dati sulla presenza degli allievi stranieri nella scuola italiana. Quasi nessuno però ha sottolineato le differenze significative nei tassi di successo scolastico tra allievi stranieri e allievi italiani. La mancanza di regolarità scolastica tra gli studenti con cittadinanza non italiana costituisce un dato particolarmente allarmante dovuto sia a difficoltà legate alla conoscenza della lingua italiana, sia a problemi di integrazione sociale. In media, il 42,5% di alunni stranieri non è in regola con gli studi e il crescere dell’età aumenta il loro disagio scolastico. Per affrontare seriamente la questione è necessario in primo luogo operare delle distinzioni e descrivere meglio il composito mondo degli allievi stranieri.

Si tratta di una generalizzazione pericolosa perché, oltre alle differenze individuali, di personalità e di condizioni socio-economiche, gli “allievi stranieri” possono avere diversa provenienza nazionale e culturale e poi possono essere:

1) bambini nati in Italia da genitori stranieri (che quindi conoscono molto bene la lingua) e sono “italiani” o bambini arrivati molto piccoli in Italia (che quindi hanno svolto il loro processo di socializzazione in Italia);

2) bambini neo arrivati giunti per ricongiungimento familiare;

3) bambini giunti, soli o con famiglia, come profughi;

4) minori arrivati per adozione internazionale;

5) figli di coppie miste;

6) bambini nomadi.

Come ha ricordato Graziella Favaro, intervistata ieri su “La stampa”, il Ministero dell’Istruzione ha calcolato che i neo arrivati, e cioè quelli che non parlano italiano, sono il 10% ogni anno.

Una seconda questione: i bisogni linguistici E’ importante, invece, affrontare in modo competente e non superficiale la questione della conoscenza della lingua italiana. Non ha perso tempo la Ministra in carica per riprendere il tema delle classi di inserimento o classi ponte che sarebbe più corretto definire “classi differenziali”. La proposta del leghista Cota, avanzata e approvata dalla Camera dei Deputati nell’ottobre 2008, riaffiora nel silenzio generale all’interno di un clima sempre più ostile nei confronti degli immigrati. Le competenze linguistiche sono ovviamente alla base di ogni processo di integrazione ed è necessario insegnare l’italiano in modo diverso a chi è alfabetizzato in un’altra lingua; si tratterebbe allora non di tagliare i fondi per la scuola, l’Università e la ricerca ma di investire consistenti risorse nella formazione degli insegnanti per l’insegnamento dell’italiano come L2 e, più in generale, per la formazione interculturale degli insegnanti sostenendoli nel loro prezioso e difficile lavoro quotidiano affiancando loro facilitatori linguistici e mediatori culturali. In ogni caso l’insegnamento dell’italiano agli allievi stranieri non può che avvenire all’interno delle normali classi scolastiche, evitando la costruzione di luoghi separati di apprendimento; tale scelta non è messa in discussione da pratiche di divisione in gruppi, per brevi periodi e per specifici apprendimenti (laboratori linguistici).

Il punto centrale dell’azione di inserimento è proprio la possibilità, per l’alunno straniero, di entrare in contatto con i coetanei, dai quali, in modalità formali e non formali, apprenderà non solo le forme linguistiche più immediate, ma anche le forme della comunicazione e le regole del gruppo di accoglienza.

Tutti gli studi mostrano che una separazione totale del nuovo alunno sarebbe penalizzante per la sua possibilità di inserirsi, a livello linguistico, comunicativo, cognitivo e culturale, nel gruppo-classe. Diverso è ovviamente il caso di corsi intensivi (di qualche ora a settimana) che rafforzino e sostengano i suoi apprendimenti, specialmente con il crescere dell’età. Per ragazzi e ragazze via via più grandi, infatti, i corsi intensivi sono maggiormente necessari ed efficaci, sempre che si accompagnino ad una continua relazione con l’insieme del gruppo-classe, delle sue attività, del suo sentirsi appunto “gruppo”.

La classe, infatti, costituisce il contesto significativo di ogni espressione linguistica e comunicativa, cioè il contesto che dà significato ai contenuti: sia a quelli relazionali che a quelli di apprendimento.

Una terza questione: di cosa parliamo quando parliamo di integrazione Nei giorni scorsi molti giornalisti e politici hanno insistito sul tema dell’integrazione. E’ possibile parlare di integrazione quando assistiamo ogni giorno a iniziative che istituiscono forme legalizzate di apartheid?

Da quando il Governo in carica si è insediato si sono susseguiti con incredibile frequenza provvedimenti xenofobi e razzisti nei confronti dei cittadini immigrati. Dalle classi ponte al decreto sicurezza ogni settore della vita dei nostri concittadini è stato oggetto di iniziative punitive e restrittive per la libertà. Appena si è insediato il Governo in carica ha decretato l’emergenza Rom, nominando dei commissari straordinari e dando il via al censimento su base etnica: l’emergenza, però, non si riferiva alle vergognose condizioni disumane in cui sono costretti a vivere, ma alla loro stessa presenza. 160.000 persone, metà delle quali di nazionalità italiana che vivono nelle discariche rappresenterebbero un pericolo e non uno scandalo per un paese civile.

Sempre nel 2008 è stata formulata la proposta dell’istituzione delle classi separate per gli allievi con cittadinanza non italiana. Successivamente la camera dei Deputati italiana ha approvato i tre emendamenti al disegno di legge sulla sicurezza, introducendo il reato di clandestinità, il pagamento da 80 a 200 euro per il permesso di soggiorno e di 200 euro per ottenere la cittadinanza, l'allungamento, fino a sei mesi, del trattenimento degli stranieri nei centri di identificazione ed espulsione e la costituzione delle ronde di cittadini per il controllo del territorio, mentre l’esponente leghista Matteo Salvini ha avanzato la scandalosa proposta di mezzi di trasporto pubblici separati per immigrati e milanesi “puri”. Tali provvedimenti non fanno che soffiare sul fuoco per garantire sostegno istituzionale agli episodi di razzismo sempre più dilaganti nel nostro paese.

Sono recenti le notizie relative all’operazione “White Christmas” a Coccaglio, il comune bresciano che ha inaugurato la caccia al clandestino in nome del Natale e dell’assegnazione dell’Ambrogino, la più prestigiosa onorificenza milanese, ai vigili che fino a un mese fa rinchiudevano i presunti clandestini sui "bus della vergogna", con grate ai vetri, in attesa dell'identificazione. L’Ambrogino è stato assegnato, su proposta della Lega, a maggioranza dal consiglio comunale al "Nucleo di tutela trasporto pubblico", nato nel 2000 e specializzato nel garantire la sicurezza sui mezzi Atm.

Di assoluta gravità l’ultima trovata leghista: il deputato Maurizio Fugatti ha proposto un emendamento alla finanziaria che prevedeva una cassa integrazione ridotta per gli immigrati che non deve superare i sei mesi. Recentissimo l’ennesimo attacco al Cardinale Dionigi Tettamanzi per aver richiamato i valori dell’accoglienza e della solidarietà. Nel frattempo vi è stato un incredibile aumento di episodi di razzismo nei confronti dei migranti. Dopo i fatti di Rosarno il Ministro degli Interni in carica, Roberto Maroni ha avuto il coraggio di dire “troppa tolleranza”. L’Italia pur tra mille contraddizioni (dal colonialismo alle leggi razziali) è sempre stata attraversata dalle diversità e dalle più diverse popolazioni. Convivono al suo interno minoranze secolari e più recenti che ne hanno arricchito il tessuto sociale, culturale ed economico. Tale convivenza vive oggi una fase problematica in conseguenza di una crisi sociale, morale ed economica e i migranti, che ne sono le prime vittime, vengono individuati come capri espiatori fomentando un conflitto sociale molto pericoloso in nome di una presunta identità che verrebbe messa in crisi dalla presenza stessa dei migranti.

Oltre alla falsità di una siffatta analisi vanno sottolineati i rischi e le conseguenze drammatiche che essa sta producendo. Ma torniamo al concetto di integrazione.

A cosa ci riferiamo quando parliamo di integrazione? Anche in questo caso è necessario cercare di fare chiarezza. L’integrazione in primo luogo non è assimilazione e in secondo luogo è un processo dinamico e bifronte che chiama in causa tanto gli immigrati (la minoranza) quanto gli italiani (la maggioranza) per la costruzione di relazioni nuove tra soggetti che condividono spazi, territori e risorse. Si può affermare che la partecipazione degli immigrati alla vita della società e al mercato del lavoro italiani presenti in larga misura i caratteri di quella che è stata definita da Maurizio Ambrosini come integrazione subalterna: gli immigrati sono accettati nei luoghi di lavoro sulla base dell’idea che il ruolo ad essi destinato sia quello di occupare i posti a cui gli italiani non ambiscono più, con il corollario implicito che, qualora si rendano disponibili occupazioni più interessanti, gli italiani abbiano un indiscutibile diritto di priorità. Il lavoro è, tuttavia, al centro del percorso migratorio.

Un ruolo essenziale nei processi di incontro tra domanda di lavoro italiana e offerta immigrata viene svolto dalle cosiddette “reti etniche”, ossia le reti di sostegno e mutuo aiuto tra parenti e connazionali. In un mercato difficile da analizzare e in alcuni casi deregolato, la diffusione di informazioni sui posti di lavoro vacanti, la sponsorizzazione, la socializzazione al lavoro passano attraverso i contatti tra persone legate tra di loro da rapporti personali e da vincoli affettivi.

Molti immigrati evidenziano che spesso deve essere un cittadino italiano a presentarli perché in caso contrario il datore di lavoro si mostra diffidente. L’incontro tra domanda e offerta di lavoro passa quasi sempre, dunque, per canali informali. Spesso non vi è, per gli immigrati, la possibilità di “farsi una professionalità” e i lavoratori immigrati cambiano spesso luogo e datore di lavoro. Si configura per i migranti una situazione di scarsa mobilità e promozione sociale.

Gli immigrati si trovano all’interno di un sistema a “professionalità bloccata” e anche quelli che dispongono di elevati livelli di istruzione subiscono, in Italia, un processo di scadimento e dequalificazione professionale. Gli immigrati, infatti, non sono in quanto tali dei soggetti deboli (spesso dispongono di solide esperienze professionali e di titoli di studio medio-alti), ma lo diventano nella società e nel mercato del lavoro italiani che riservano loro le posizioni più basse. Si realizza uno scarto tra capitale umano posseduto e livelli professionali di inserimento che non serve né ai diretti interessati né, in una prospettiva di medio e lungo periodo, al Paese di accoglienza. Quello che può sembrare un inserimento riuscito, spesso, agli occhi del diretto interessato, rischia di apparire un ripiego insoddisfacente e senza prospettive. Ne deriva una esperienza soggettiva che, proprio negli individui più preparati ed efficienti nel lavoro, assume i toni della frustrazione, dell’insoddisfazione e, in alcuni casi, della recriminazione. Si registra una sorta di “ghettizzazione” per gli immigrati che sembrano costretti a dover rimanere ancorati nei segmenti più bassi del mercato del lavoro.

Inoltre, negli schemi cognitivi dei datori di lavoro e più in generale dell’opinione pubblica, la provenienza nazionale degli immigrati diventa rapidamente un indicatore della capacità del lavoratore di inserirsi in determinati ambiti occupazionali. Si formano così le cosiddette “specializzazioni etniche” che spesso si registrano nei mercati del lavoro locali e che, in alcuni casi, imprigionano i lavoratori predefinendone gli ambiti di inserimento.

E’ necessario lavorare per spezzare questi “circoli viziosi” e liberare le energie positive che l’immigrazione porta con sé; un tale cambiamento sarà possibile non solo attraverso delle attività di formazione mirate, ma soprattutto attraverso una forte azione politica che contribuisca a far evolvere le richieste dei datori di lavoro e degli imprenditori. Considerando più in generale il rapporto tra immigrati e società d’accoglienza, alla luce dei diversi livelli di appartenenza che l’attuale sistema di cittadinanza prefigura, dei tre elementi (civile, politico e sociale) che descrivono l’appartenenza a una società, nelle situazioni concrete si ha l’attribuzione agli immigrati di alcuni diritti che formano il pacchetto della cittadinanza, ma non di altri. Gli immigrati in Italia godono di quella che può essere definita come cittadinanza relativa.


Massimiliano Fiorucci, facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi Roma Tre