La scuola alla prova del federalismo
di Andrea Casalegno da
Il Sole 24 Ore,
24.2.2010
Nell'istruzione, da cui dipende il nostro destino d'individui e di
nazione, lo stato ha fallito. Un sistema scolastico centralizzato e
uniforme ha spaccato in due l'Italia. Il Nord-Est e ancor più le
province autonome di Trento e Bolzano vantano risultati di
apprendimento che li collocano ai vertici delle classifiche
mondiali. Il Sud e le isole crollano a livelli che solo
eufemisticamente si potrebbero giudicare da Terzo Mondo.
La riforma federalista dell'istruzione, decisa dalla modifica del
Titolo V della Costituzione ma non ancora attuata, potrebbe sanare
questo divario, a determinate condizioni; rischia invece di
peggiorarlo. Questo, in sintesi, è il giudizio del secondo Rapporto
sulla scuola della Fondazione Giovanni Agnelli di Torino, diretta da
Andrea Gavosto, presentato oggi a Roma nella sede della casa
editrice Laterza che l'ha pubblicato.
La misura del fallimento. Gli
estensori del Rapporto – Gianfranco De Simone, Andrea Gavosto, Marco
Gioannini, Stefano Molina e Alessandro Monteverdi – hanno
rielaborato la ricca messe di dati forniti dalle indagini Ocse-Pisa
sulle competenze dei quindicenni in lingua, matematica e scienze;
hanno analizzato i dati complessivi del ministero dell'Istruzione e
persino i bilanci delle singole scuole; hanno commissionato ricerche
originali, dall'impiego per la didattica delle nuove tecnologie
informatiche e dell'accesso a Internet alle caratteristiche dei
docenti neoassunti nel 2009 in sette regioni (Campania,
Emilia-Romagna, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia,
Veneto). Ne emerge un'Italia che spende notevolmente per
l'istruzione ma ottiene risultati mediocri, e soprattutto
disastrosamente disomogenei.
Nei punteggi delle prove Pisa siamo sotto la media Ocse. Ma è la
percentuale degli espulsi dal sistema educativo (drop-outs) che ci
colloca fuori dall'Europa: il 20% dei giovani da 20 a 24 anni ha
solo la licenza media. La Fondazione calcola che, se tutti i giovani
conseguissero il diploma di scuola secondaria superiore, il sistema
produttivo darebbe lavoro a un milione e 300mila giovani in più: il
6,3% degli occupati.
E c'è di peggio. Nelle regioni meridionali il 30-40% dei giovani non
raggiunge il livello minimo di competenze giudicato necessario, in
campo internazionale, per essere cittadini attivi di uno stato
moderno: comprendere e applicare alla soluzione dei problemi
quotidiani un testo semplice o un elementare problema numerico. Chi
studia nelle scuole del Sud ottiene, in media, 68 punti Ocse-Pisa
meno di chi frequenta le aule del Settentrione: l'equivalente di un
anno e mezzo d'istruzione. I paesi al vertice della classifica Ocse
sono gli stessi che riducono al minimo il divario di risultati tra
regioni, tra famiglie, tra ordini di scuole, tra le singole scuole.
In Italia scarsi risultati medi convivono con differenze di livello
abissali.
Iniquità e inefficienza. La
scuola italiana fallisce anche come canale di promozione sociale. Il
divario familiare, misurato dal titolo di studio dei genitori, e
quello del contesto ambientale contano, per la determinazione dei
risultati, assai più del talento individuale. E i record negativi
non finiscono qui. A poco ci serve disporre di un corpo insegnante
fra i più numerosi, con appena 10 allievi a testa, poiché esso è
incapace di rinnovarsi. I nostri docenti sono i più vecchi d'Europa.
L'età media dei nuovi assunti 2009 è di 40 anni (42,2 in Campania e
Puglia). Come stupirsi che, secondo il Rapporto, solo il 6% dei
docenti ritenga le tecnologie informatiche «un supporto
insostituibile per il lavoro dell'insegnante»?
Investiamo in istruzione il 3,5% del Pil, leggermente meno della media
Ocse del 3,8%, ma la nostra spesa annua per studente è assai sopra
la media: 7.716 dollari, a parità di potere d'acquisto, per un
alunno della primaria (media Ocse 6.437) e 8.495 dollari per la
secondaria (media Ose 8.006). L'esborso dipende dal numero dei
docenti che, compresi i precari, sfiora il milione. Ma i risultati
di questa spesa sono disomogenei, oltre che mediocri: il Rapporto
calcola che un punto Ocse-Pisa in più costa 113 euro in Veneto, 130
in Sicilia, 144 in Basilicata, 165 in Trentino, computando la spesa
pubblica per studente dalla primaria al 15° anno.
La frontiera del federalismo. In
mancanza di azioni perequative il sistema educativo andrà incontro
al disastro. La razionalizzazione di spesa prefigurata dal
federalismo produrrà consistenti risparmi, poiché calerà il numero
dei docenti. Ma le somme risparmiate, afferma la Fondazione Agnelli,
devono restare nella scuola ed essere investite per raggiungere due
obiettivi fondamentali: ridurre l'abbandono scolastico e i tassi di
ripetenza a un fisiologico 5-10% ed elevare i livelli
d'apprendimento degli studenti.
Tanto più, avverte la Fondazione, che il piano triennale per la scuola
varato dal ministro Mariastella Gelmini prevede già notevoli
risparmi: un federalismo orientato esclusivamente al contenimento
dei costi rischierebbe di ottenere solo risparmi marginali, più
dannosi che utili.L'attuazione del federalismo nell'istruzione,
insomma, non dev'essere orientato agli input, cioè al contenimento
della spesa delle regioni, bensì agli output, ovvero a migliorare i
risultati regionali di apprendimento. Lo stato deve farsi carico
delle situazioni di svantaggio e fornire tutte le risorse aggiuntive
necessarie per contenere il fenomeno degli abbandoni e per garantire
a tutti un livello d'apprendimento degno di un paese moderno.
Ma non senza condizioni. Le regioni che ottengono risorse in più
devono raggiungere questi due obiettivi in tempi ragionevoli: in tre
o cinque anni, a seconda del livello di partenza. I necessari
controlli non vanno fatti alla fine degli studi, quando ormai è
troppo tardi, ma in corso d'opera, con cadenze biennali o triennali,
garantendo interventi immediati per rimediare alle insufficienze. Se
le regioni non saranno capaci di raggiungere questi obiettivi in
tempi certi, l'istruzione dovrà essere commissariata.